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Il linguaggio dell’imprevisto

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Consegna prevista Luglio 2026

Lea Ferrara, cinquantatré anni, conduce una vita apparentemente ordinaria e prevedibile. Dietro la facciata di normalità, però, si cela una donna complessa e contraddittoria, sempre in bilico tra desideri e delusioni. Alle prime luci di una mattina qualunque, un errore umano stravolge tutto.
In un turbinio di dolore e atti di espiazione, Lea e la sua famiglia devono confrontarsi con un linguaggio nuovo: quello degli imprevisti. La tragedia si trasforma in un paradosso che risolve la complessità dei legami familiari e svela tutto ciò che era rimasto taciuto.

Perché ho scritto questo libro?

Perché nasce da una promessa, oltre che da una storia vera. Avevo bisogno di un modo per esorcizzare il dolore e per raccontare una realtà che purtroppo è più frequente di quanto si possa immaginare, quella degli investimenti pedonali. La vicenda di Lea è la storia di altre migliaia di vittime e famiglie che si trovano a dover fare i conti con un’assenza improvvisa e con il peso di tutto quello che non è stato detto quando lo si poteva fare.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Domenica 11 dicembre 2016

Mare, mare,

Qui non viene mai nessuno a trascinarmi via

Mare, mare

Qui non viene mai nessuno a farci compagnia

Mare, mare

Non ti posso guardare così perché

Questo vento agita anche me

(L. Bertè – Il mare d’inverno)

La meteoropatia è una compagna di vita ipocrita. Non importa in quale angolo del cosmo ti trovi, lei ti scoverà e afferrerà con forza il tuo equilibrio interiore. Te lo strapperà via momentaneamente finché nel tuo umore non resterà che una coltre nube di buio, apatia e pensieri malinconici. Non c’è via di scampo: è come un incantesimo nostalgico pronunciato da un cielo che di tanto in tanto si sveglia troppo pigro per colorarsi di sereno. Allora diventa cupo e a quel punto si salvi chi può. Si salvi chi può, tranne i metereopatici. A pensarci bene forse è per loro che la locuzione “per sempre” assume un significato concreto: se nasci metereopatico non puoi pretendere di vivere la vita con l’animo gioioso e imperturbabile. Se nasci metereopatico sei spacciato: preparati a montagne russe di stati d’animo precariamente variabili e non farti trovare mai sprovvisto di un buon antidoto all’irrequietezza.La meteoropatia è una compagna di vita ipocrita. Non importa in quale angolo del cosmo ti trovi, lei ti scoverà e afferrerà con forza il tuo equilibrio interiore. Te lo strapperà via momentaneamente finché nel tuo umore non resterà che una coltre nube di buio, apatia e pensieri malinconici. Non c’è via di scampo: è come un incantesimo nostalgico pronunciato da un cielo che di tanto in tanto si sveglia troppo pigro per colorarsi di sereno. Allora diventa cupo e a quel punto si salvi chi può. Si salvi chi può, tranne i metereopatici. A pensarci bene forse è per loro che la locuzione “per sempre” assume un significato concreto: se nasci metereopatico non puoi pretendere di vivere la vita con l’animo gioioso e imperturbabile. Se nasci metereopatico sei spacciato: preparati a montagne russe di stati d’animo precariamente variabili e non farti trovare mai sprovvisto di un buon antidoto all’irrequietezza. 

Mentre alla radio la voce graffiante di Loredana Bertè cantava Il mare d’inverno, da dietro la finestra Lea fissava il panorama grigio e desolato di Castellalba, la piccola cittadina toscana in cui viveva. Era una fredda domenica mattina di dicembre e il cielo era coperto da nuvole che sembravano voler inghiottire ogni traccia di luce, rendendo il paesaggio un’immensa tela di sfumature tra il grigio e l’argento. La tazza di caffellatte bollente fumava tra le mani poco affusolate e decorate da unghie laccate di smalto rosa cipria. Era sveglia da quasi un’ora, ma il suo corpo si rifiutava di assecondare la routine mattutina. Ogni fibra del suo essere sembrava ribellarsi alla semplice idea di movimento, come se avesse accettato che quella giornata fosse destinata all’ozio. Ogni particella del suo fisico sapeva che non era saggio provare a lottare contro una natura metereopatica. Se qualcuno l’avesse vista da fuori avrebbe pensato a una specie di stato di ipnosi tanto che le sue palpebre quasi stentavano a battere sotto gli occhiali dalla montatura color vinaccia. La centrifuga di pensieri che le aveva travolto la testa era così impetuosa da non farle percepire nemmeno l’eccesso di calore che, irradiatosi dalla tazza in ceramica, iniziava ad arrossarle le mani. 

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Da un po’ di tempo aveva un chiodo fisso: il passare degli anni. Per una donna di mezza età interrogarsi sulle evoluzioni della vita era inevitabile. Una sorta di rito di passaggio che la portava a confrontarsi con un vortice di domande, spesso senza risposta, ma altrettanto spesso foriere di nuove rivelazioni. Se le avessero chiesto di descriversi con una sensazione, Lea avrebbe risposto senza esitazione che ogni giorno si sentiva come una persona diversa, incapace di riconoscersi completamente nella donna che era stata solo ventiquattr’ore prima. 

Si era ritrovata catapultata in un periodo della vita dove ogni cosa assumeva un nuovo significato. Ciò che un tempo le sembrava essenziale ora appariva banale, e viceversa. I piccoli piaceri quotidiani avevano preso il posto delle grandi ambizioni e l’urgenza di vivere tutto e subito si era trasformata in un bisogno di quiete e riflessione. 

In modo curioso, per chissà quale strano sortilegio della mente, era riuscita a scendere a compromessi con la sua memoria a lungo termine. Non ricordava più com’era la vita prima dei quarant’anni. Certo, le tornavano in mente flash di momenti spensierati, di un’energia che sembrava inesauribile, ma era come se quei ricordi appartenessero a qualcun altro. In fondo, non le dispiaceva. Era certa che di abitudini ne aveva cambiate parecchie, e le andava benissimo così.

Durante i suoi cinquantatré anni, Lea Ferrara aveva sviluppato una sorta di talento nell’anticipare le conseguenze degli eventi della vita. Era come un gioco di strategia, una sfida personale in cui prevedere ciò che sarebbe potuto accadere per poi gestirlo con serenità. Era quasi diventato il suo passatempo preferito. Con una modestia che rasentava l’ironia, si considerava cintura nera nell’affrontare le evenienze, padroneggiando ogni situazione con quel filo di arroganza sorridente che era la sua forza. E spesso, purtroppo, anche la sua rovina. 

Mentre un gatto sfilava sotto i suoi occhi con la coda all’insù e il passo elegante, Lea fu colta da un pensiero improvviso che le accarezzò la coscienza. Senza alcuna ragione apparente né pretesto specifico, iniziò a interrogarsi su quelle che erano state per anni le sue più radicate convinzioni. Perché, si chiese, si era sempre sentita così sicura di sé? E se ciò che aveva considerato certezze non fossero altro che una prospettiva limitata, una visione parziale della realtà? Le capitava spesso di sentire il bisogno emotivo di guardare le cose certe da un punto di vista differente, come a voler mettere in discussione la sua stessa visione del mondo. Era un esercizio pesante, ma al tempo stesso affascinante. Lea Ferrara sapeva che sfidare le proprie convinzioni poteva essere destabilizzante, ma era anche sicura che solo attraverso questa introspezione avrebbe potuto trovare una pace più profonda. 

In quel momento, scandito soltanto dal ticchettio regolare dell’orologio da parete appeso sulla porta della sua stanza, Lea aveva necessità di contemplare il lato imprevedibile delle abitudini. Per lei, che aveva fatto della routine il suo baricentro, era inimmaginabile l’ipotesi di dover uscire dalla sua zona di comfort per ragioni non dipendenti dalle sue scelte. Eppure, pensò che al mondo accade con una frequenza inaspettata che qualcuno venga sottomesso al potere delle interferenze esterne. Era perfettamente consapevole di non poter controllare tutto; lo sapeva da sempre, eppure si era sempre illusa di poter gestire almeno ciò che rientrava nella sua sfera personale. Ma il pensiero che l’insospettabilità degli eventi o una congiunzione sfavorevole tra pianeti potesse far crollare il suo castello di consuetudini, le faceva accapponare la pelle. 

Mentre il gatto si apprestava ad addentare gli avanzi dei pasti che gli inquilini del condominio riponevano nell’apposita ciotola, Lea si rese conto di aver disegnato con la mente uno scenario tanto irreale quanto sconfortante. Doveva smetterla di viaggiare con la fantasia in direzioni che puntualmente le annerivano l’umore. In fondo, il banale assetto di quella vita che aveva costruito con tanto impegno le dava stabilità. La sua era infatti una straordinaria ordinarietà. Non si destreggiava tra giornate scandite da eventi particolarmente entusiasmanti. Anzi, a dirla tutta, poteva considerarsi una delle donne più prevedibili dell’universo, e in questo, trovava quasi una forma di soddisfazione. Si addormentava davanti la televisione, perdeva l’autobus per andare a lavoro con una frequenza imbarazzante, mangiava in preda agli sbalzi d’umore, cedeva spesso al brivido adrenalinico delle discussioni e ogni tanto si abbandonava alla nostalgia di sogni che aveva lasciato andare ormai già da un bel po’. Insomma, uno stile di vita analogo a quello della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, la stessa che, paradossalmente, era esperta nel proclamare la sua presunta unicità sui social network. Lei, che aveva dovuto annotare la password di Facebook su una piccola agendina, non aveva mai condiviso quel genere di presunzione. Non si era mai sentita speciale o meritevole di chissà quale eccelso destino. Forse si sentiva un po’ sola e incompresa, ma era quasi convinta che qualcuno lo avesse capito da come i suoi occhi scuri e piccoli spesso si perdevano nel vuoto. Non lo faceva per tristezza, ma perché pensava che l’imperfezione umana si manifestasse anche nel bisogno di fermarsi, di mettere in pausa quell’ingestibile tran tran di emozioni contrastanti e impossibile da schivare. 

Il senso di solitudine poteva assumere molte forme e Lea lo sapeva bene. Nulla a che fare con l’amore romantico, quello era un aspetto che per carenza di occasioni, e anche un po’ di volontà, non aveva avuto modo di coltivare appieno. Non c’era un uomo accanto a lei e andava orgogliosa di non aver mai subordinato la sua serenità alla buona riuscita di una relazione sentimentale. Aveva amiche fidate, un ambiente di lavoro che finalmente era tornato a piacerle e un’indipendenza economica ben oltre le aspettative. Eppure, in quel vortice di pacate soddisfazioni e disillusioni, qualcosa mancava. Lo sentiva ed era frastornante, sgradevole come il ronzio di una zanzara che si insinua nella testa o l’odore di citronella che penetra nelle narici durante le sere d’estate. Lea non sapeva dare un nome alla sua mancanza. Tutto ciò che riusciva a fare era avvertirla dentro di sé come una sensazione vaga e persistente, in quell’angolo remoto dello stomaco che trasforma gli stimoli nervosi in irritanti sensazioni fisiche. A rassicurarla era l’aver imparato a conviverci. Aveva escogitato un bel piano di autodifesa per impedire alla malinconia di seguirla, di attaccarla troppo a lungo, di scuoterla troppo forte. 

Di solito, le persone terminano le loro giornate in concomitanza con la fine dell’orario lavorativo, idealizzando il relax sul divano quasi fosse una scena idilliaca. Lea, no. Aveva, infatti, una particolare inclinazione a considerare il riposo come un mediocre rimedio all’infelicità. Per questo motivo, l’attacco di meteoropatia di quella domenica mattina la infastidiva profondamente. Abituata a riempire il suo tempo libero con attività che tenevano in moto sia la mente che il corpo, non riusciva a sopportare l’idea di restare inattiva. Passava ore immersa nella lettura, spaziando dalla filosofia ai thriller, annotando appunti e riflessioni in quaderni sparsi per ogni angolo della sua stanza. Frequentava corsi di yoga intensivi e partecipava spesso a manifestazioni sociali di vario genere, dalla politica alla cultura, sentendosi parte di qualcosa di condiviso. Lea non riusciva a fermarsi: stilava liste di progetti futuri e pianificava viaggi che forse non avrebbe mai fatto, ma che servivano a darle un senso di direzione, un obiettivo. Qualcuno avrebbe detto che stava scappando dai suoi demoni. Lei, invece, era convinta che l’iperattività le stava salvando la vita.  

Il caffellatte si era raffreddato e Lea sembrava aver abbandonato la contemplazione della giornata uggiosa ed essere tornata nel mondo reale. Sorseggiò distrattamente la sua colazione, mentre pian piano prendeva coscienza del fatto che trascorrere la domenica a scrutare il panorama non sarebbe stata una grande idea. Richiuse la stanza cerebrale delle introspezioni e posò la tazza mezza vuota sul comodino, accanto a un libro aperto e a una bottiglia di acqua. Si diresse verso il bagno, i passi pesanti sul pavimento e la convinzione che quella giornata doveva prendere una piega diversa. Si tolse il pigiama e l’intimo, acciuffò i capelli in uno chignon disordinato ed entrò nella doccia con l’intenzione di affogare l’inquietudine di quella domenica sotto un getto di acqua calda e docciaschiuma al muschio bianco.     

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Martina Mastrogiacomo
Classe 1994, nata e cresciuta in una cittadina nel cuore del Lazio. Potrei raccontarmi attraverso il mio segno zodiacale, ma l’oroscopo mi è sempre stato un po’ antipatico (oltre che contrario), così preferisco farlo con ciò che mi piace di più in assoluto: la parola. Amo i gatti, il profumo dei libri nuovi e la frescura della montagna d’estate. E poi scrivere, ovvio. Ho iniziato a farlo per colpa della Disney: a otto anni non riuscivo ad accettare la morte della mamma di Bambi, così decisi di regalarle un finale diverso, dove nessuno muore e la tenerezza trionfa. Negli ultimi anni ho lavorato come content designer, raccontando le storie degli altri, una virgola alla volta. Finché un giorno ho cominciato a raccontare davvero anche le mie. Scrivere è il mio modo di stare al mondo, di mettere ordine dove spesso sembra esserci solo caos. È la terapia migliore che conosca.
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