Si infila nel vicolo e le spalle gli strisciano contro le pareti delle due case ai lati della via. Rischia di impolverare la giacca nuova e immagina già le urla della moglie nel vederlo in quelle condizioni. Avanza in punta di piedi lungo il tragitto scosceso, calcolando bene dove poggiare le scarpe: i sassolini informi sotto le suole lo farebbero scivolare senza pietà. È peggio dell’arrampicata affrontata per raggiungere la chiesa e i residui dell’affanno lo costringono a fermarsi ancora. Si tocca la cintura e, uno per uno, i troppi buchi inutilizzati; perdere qualche chilo non gli farebbe male, visto che il lavoro da scrivania che gli viene assegnato è sempre più raro. Riprende fiato e si guarda in giro: è tutto molto diverso da Roma. Quel furbone del Duce aveva scelto proprio il posto giusto per esiliare i suoi nemici, impenetrabile e desolato. Sui muri bianchi pendono, alla stessa maniera agreste, rigogliosi glicini, corone di pomodori secchi e peperoncini. Sopra di lui una donna sta passando alla vicina una pentola da una finestra all’altra.
«Vi siete perso?» gli chiede la giovane casalinga.
Senza dire neanche una parola, col cappello in mano, fa segno di diniego e ringrazia. È meglio ripartire in fretta, non ha voglia di ascoltare pettegolezzi da massaia.
Cinque minuti dopo raggiunge la piazza e la luce del giorno lo colpisce sugli occhi indifesi; il paese adesso sembra svegliarsi in mezzo allo spazio circolare. Una Fiat 650 gli passa di fianco, seguita da due muli caricati con fasci di cipolle e tirati da un contadino accigliato. Nel centro della piazza una fontana in pietra domina la scena e, intorno, si aprono tre saracinesche, ognuna su due o tre tavolini in legno, mangiati dall’acqua dell’inverno passato; le sedie in vimini non appaiono sicure e alcuni anziani con cappello in testa e camicie sbottonate le occupano, giocando a carte e bevendo.
Da lì vede bicchieri minuscoli uscire pieni e rientrare vuoti, portati da uomini che sembrano eseguire una quadriglia. Quindi è in una di quelle taverne, in cui già spacciano vino a quell’ora del mattino, che lo troverà.
Dei mocciosi, che hanno lanciato i libri di scuola nella polvere, per poco non lo fanno rotolare col muso sulla strada mai asfaltata, mentre si divertono con i giochi che lui ha fatto da bambino. In quel posto il tempo rincorre gli anni che passano, senza mai raggiungerli. Il pensiero gli provoca un brivido di disagio, deve fare in fretta e scappare via. Se potesse, agirebbe di testa sua e senza nessun tipo di aiuto, men che meno quello di un prete, ma il professore non ne ha voluto sapere e lui non sempre può permettersi di tenergli testa. In ogni caso, prima del pomeriggio dev’essere di nuovo in macchina.
Allunga col palmo della mano la tesa del cappello, nel bagliore dell’estate anticipata non gli viene difficile distinguere due vesti nere. È sicuro che uno dei due sia il suo uomo. Abbozza un passo marziale, convinto di risolvere quell’affare in breve tempo. Si calma e, nello scarso tragitto che lo separa dall’obiettivo, considera che dovrà solo convincerlo a collaborare, poi il resto sarà facile. Spera solo di non essere arrivato secondo.
Si avvicina al tavolo dove siedono i due preti, uno avrà meno di trent’anni, l’altro ha di certo raggiunto la cinquantina. Intorno a loro una piccola folla ascolta la discussione, insieme a un terzo uomo la cui pelle già abbronzata viene risaltata dalla camicia bianca che indossa; ha tirato su le maniche e sembra essere molto in confidenza con i prelati. Il più giovane dei due preti tiene in mano una copia della Gazzetta del Sud, di cui anche lui può leggere chiaro il titolo di prima pagina: “Le casse dello Stato pagano la difesa elettorale di De Gasperi”. Già, tra meno di una settimana ci saranno le elezioni nazionali e il nuovo sistema elettorale ideato dal presidente del consiglio, ribattezzato da certuni “legge truffa”, sta mettendo contro clericali e comunisti anche in quel paese sperduto.
Il giovane parroco è intento a un comizio improvvisato, pontifica seduto in bilico su due dei quattro piedi della sedia che pare di sua proprietà. Il terzo uomo al tavolo dimena le braccia scure mentre risponde con forza agli argomenti dell’altro. Uno degli spettatori nota l’ospite e lo guarda con occhi incavati in orbite profonde. Gli ricorda le espressioni inebetite che ha creduto di scorgere nei volti della gente di quei posti, dalle fotografie in bianco e nero che gli ha mostrato il professore prima di partire. A lui le loro schermaglie non interessano e, senza chiedere permesso, si accosta di più al tavolo, così vicino da interrompere lo spettacolo.
«Buongiorno, signori, sono l’avvocato Enea Loretini del foro di Roma, sto cercando don Pietro.» Si è tolto il cappello, che ora tiene appoggiato sul petto.
Il prete più anziano, che finora gli ha dato le spalle, si gira verso di lui; fino a quel momento si è divertito ad ascoltare il battibecco tra gli altri due e le lacrime, ancora evidenti sul suo volto, creano dei solchi grassi e lucidi. Ha guance gonfie, colorate da piccole vene viola; con fare mieloso, i capelli tirati indietro con la brillantina e gli occhiali scuri, il sacerdote mette sul tavolo il bicchiere. Un avvolgente odore di acqua di colonia ne accompagna i movimenti.
«Sono io, gentile signore. Con chi avete detto che ho il piacere di parlare?» Il prete si frega le mani.
Il resto della compagnia sembra trattenere il fiato.
«Sono l’avvocato Enea Loretini, padre» risponde scandendo con tono seccato. «Vengo da Roma e avrei bisogno di parlarle di un affare molto delicato.»
«Ah, un uomo di legge. Allora ci potrete di certo aiutare a dirimere questa importantissima questione di cui stiamo discutendo.»
Come in un teatro, i paesani ridono d’istinto insieme al loro parroco, compiaciuto per la battuta a effetto. Poi don Pietro riprende.
«Scherzo, avvocato. Perdonate la nostra giovialità. Ditemi pure.» Di scatto si rivolge all’uomo in camicia bianca. «Domenico, che maniere, fai accomodare il nostro ospite, prendi una sedia e una delle tue bottiglie buone, forza!» Quindi si gira di nuovo verso di lui. «Non abbiate timore, avvocato, qui siete tra amici. Anche se forse dovrei dire compagni.» Una risata gli esplode sul viso, che già deformato dal vino, diventa bluastro.
Lui deve trovare il ragazzo. Non può perdere tempo a bere come se fosse a una rimpatriata di vecchi colleghi d’università; quindi, tra imbarazzo e necessità, rifiuta.
«Forse dovremmo parlare in privato, padre. Mi manda il suo vescovo. È amico personale del mio capo e del cardinale Velati di Roma.»
Come una formula magica, nominare il vescovo muta l’espressione del prete, il suo sorriso scompare all’istante e il volto gli diventa incolore. L’uomo in camicia bianca torna con bottiglia e bicchiere ma, intuendo il cambio d’umore dei suoi commensali, li poggia in silenzio e non osa riprendere la discussione. È chiaro che tutti a quel tavolo muoiono dalla voglia di sapere cosa stia cercando il forestiero dal loro parroco.
Dopo qualche secondo, don Pietro spezza l’indecisione.
«Be’, allora andiamo in sacrestia. Lì nessuno ci potrà disturbare.»
Il prete si alza con fatica dalla sedia e, con fare sbrigativo, saluta la compagnia delusa, visto che nessuno di loro scoprirà quale mistero può esserci dietro quella visita improvvisa.
Lui ne avrebbe già abbastanza, il pensiero di doversi rifare la strada fino alla chiesa gli provoca ulteriore stanchezza, ma sa che non ha alternativa. In sacrestia metterà il prete alla prova e, in casi estremi, potrà sempre usare la valigetta che tiene con scrupolo nella sua mano destra.
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