1.
Quando mi appoggiarono sul divano, mi rannicchiai in posizione fetale e con il pollice in bocca, un motivo in più per far spazientire la donnaccia che, prima di darmi un calcio ben assestato alla schiena, mi gridò: «Alla tua età ancora a succhiarti il dito?!».
Mi limitai a guardare fisso davanti a me e mi scorticai coi denti la pelle intorno all’unghia, contornata da fastidiose pellicine. Sentii una fitta di dolore e il sapore ferroso del sangue sulla lingua.
Una mano mi strattonò violentemente giù dal divano e cascai sbattendo la schiena e i gomiti.
Mi rialzai, guardai con odio la donna davanti a me – o meglio, mi soffermai sui suoi capelli ricci di un arancione innaturale, che la facevano somigliare ancor più alla regina dell’Inferno – e, senza dire nulla, uscii in giardino sbattendo la porta.
Appena mi sedetti sull’erba verde con teneri germogli primaverili, iniziai a strappare alcuni fili e conficcai violentemente le unghie nella terra, rovinandomele. Molte si ruppero conferendo all’erba una sfumatura di rosso scuro. Poi, con le lacrime che mi rigavano le guance, urlai.
I padroni di casa uscirono inferociti, mi afferrarono per le braccia e, mentre i miei pantaloni di tela si strappavano, grattando contro il cemento, mi dissero che da quel momento mi avrebbero richiusa nella camera d’isolamento, dove stavano i bambini cattivi.
Io sorrisi. Era tutto ciò che volevo. Tutto ciò che meritavo. Stare sola, lontana dagli altri, e soffrire. Questo meritavo dopo quella notte.
Gli altri bambini mi guardavano terrorizzati, si capiva che non avrebbero voluto essere al mio posto. I loro sguardi mi scivolavano addosso senza farmi alcun male.
Mi sbatterono nella stanza dove c’erano una branda striminzita e una piccola finestra – non troppo in alto, osservai compiaciuta – e mi rannicchiai, stavolta al suolo, col dito sporco di terra infilato in bocca. Mi lasciarono sola, sbattendo la porta, dopo avermi lanciato la mia sacca al fianco.
Dopo aver passato due giorni isolata, con il solo sottofondo degli schiamazzi dei bambini che giocavano fuori a farmi compagnia, e mangiando con le mani sudice – non me le ero ancora lavate dalla terra – le scarse porzioni di minestra annacquata, decisi che l’avrei fatto di nuovo. Sarei scappata ancora.
Continua a leggere2.
E ce la feci, finalmente. Corsi finché non ebbi più fiato.
Avevo scavalcato la finestra e il cancello, nessuno mi aveva vista e così mi ritrovai in un bosco. Silenzioso. Pericoloso. Ma senza traccia di umani.
Fino a che nessuno avesse avuto l’idea di spianare sentieri nella foresta o tagliare gli alberi ormai folti, sarei stata al sicuro. E dubitavo che qualcuno avrebbe avuto voglia di avventurarsi in quel luogo dimenticato, alla periferia della città.
Costruii un materasso di foglie sotto le nodose radici di un albero e mi distesi con la sacca stretta tra le braccia e il pollice ormai martoriato in bocca. Mi addormentai poco dopo. Fui svegliata da invadenti raggi che, penetrando tra le foglie, disegnavano puntini di luce sul suolo erboso.
All’improvviso ricordai che erano quasi tre giorni che non mangiavo qualcosa di consistente e quindi tirai fuori dalla sacca una merendina. La guardai orgogliosa: era il meritato premio trafugato dall’ultima casa in cui ero stata, prima di scappare e finire nell’orribile casa di accoglienza. Un premio per me, perché era una ripicca nei confronti dei due esseri che avevano creduto di potermi tenere e che mi riempivano di attenzioni fastidiose e di sgridate a lor parere educative.
Sono scappata, mi sono tolta dai loro piedi e così ho guadagnato due cose: la libertà e una scorta di merendine buonissime, che loro mi proibivano di mangiare.
«Fanno male» dicevano e poi ogni mattina lasciavano che i loro due figli facessero colazione con quelle.
Mentre la scartavo ripensai al mio andirivieni tra le ultime case che mi avevano accolto: i Silo, gli Smith, i Martini… e poi la casa di accoglienza. Be’, per una bambina di otto anni era un bel traguardo. Quattro case, quattro fughe, alcune progettate da me e altre regalate. E nessuno che mi avesse mai cercata o trovata. D’altronde, chi vuole accollarsi una bambina come me? Per fortuna, nessuno. Sono impegnativa.
Amavo la solitudine, odiavo che qualcuno gironzolasse attorno alla mia sacca e al mio Teddy, il mio orsetto. Detestavo che mi si dicesse cosa fare e rifuggivo il contatto fisico più di ogni altra cosa. Perché non meritavo coccole e carezze. Non le volevo.
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