Nelly, questo era il nome con cui aveva battezzato la sua assistente vocale, lo sorprese ancora intento a contemplare il mondo a rovescio. «Buongiorno, Simon, sono le ore sei del quattro ottobre, la temperatura esterna è di dodici gradi. Il tuo turno inizia alle…»
«Stai zitta! Stupido circuito parlante, so bene a che ora devo presentarmi al lavoro!» Pronunciò quelle parole con un tono più brusco e autoritario di quanto avrebbe voluto. Impedì a se stesso di provare rammarico per i suoi modi e per i termini poco eleganti con i quali l’aveva appena apostrofata, reprimendo a stento un velo di irritazione per l’istintiva empatia che quella voce continuava a suscitargli. Aveva deciso da tempo che non avrebbe più dialogato con un dedalo di microchip di ultima generazione, né tantomeno condiviso con lui la sua umanità.
Scacciò a fatica i pensieri, ebbe la meglio su quella parte di sé che reclamava ancora qualche altro minuto di riposo e lentamente si immerse nella routine mattutina. Si diresse nel salone che aveva adibito a palestra. Il sensore fotoelettrico montato sullo stipite rilevò la sua presenza e comandò l’apertura della tenda sulla parete a est della stanza, interamente in vetro. Sulle altre pareti dominavano grandi specchi, ciascuno posto di fronte a uno dei macchinari ginnici frutto dei benefit dell’azienda per cui lavorava. Per circa trenta minuti le sue fibre muscolari assursero al ruolo di indiscusse protagoniste del suo organismo. Al termine dell’allenamento, comandò l’apertura delle bocchette di aerazione del locale e si spostò nella camera da bagno adiacente. Il parquet in iroko conferiva calore ed eleganza all’intero ambiente, esaltando le linee sinuose dei sanitari color latte. Tra questi faceva bella mostra di sé una vasca in marmo, utilizzata nelle sere in cui ai richiami mondani preferiva la quiete di un bagno caldo, dove immergersi con i suoi pensieri e provare ad affogarli. Quella mattina la superò non senza rimpianti ed entrò nell’ampia cabina della doccia.
Le porte si chiusero automaticamente senza emettere alcun rumore. Ebbe appena il tempo di dire: «Trenta gradi, blu, fiori di ciliegio» che delle microbocchette, seminascoste in tubi metallici che cintavano il perimetro della doccia, iniziarono a spruzzare quanto richiesto nella temperatura, colore e fragranza desiderati. Dopo qualche minuto, le parole “stop” e “brezza di mare” interruppero i getti e diedero il via a una delicata ventilazione aromatizzata in una delle dodici opzioni che quel modello consentiva. Lo specchio a figura intera, incorniciato su una delle pareti, gli rimandò l’immagine di un corpo asciutto, ancora giovane e forte, temprato negli anni di duro lavoro a cui era stato iniziato fin dall’adolescenza. Prima di uscire dal bagno, indugiò allo specchio. Dopo aver disciplinato un paio di ciocche brune e ribelli, le sue dita sfiorarono la pelle liscia e ambrata, soffermandosi dove questa cedeva il posto a piccole cicatrici lasciate da vecchi tagli, affrettate suture e qualche modesta ustione. Erano “medaglie”, o almeno così le chiamava Laurence, il suo collega più anziano, che non perdeva occasione di mostrare orgogliosamente le proprie mentre tesseva per ciascuna una storia accattivante, intrisa di sacrificio, dolore e squarci di verità.
Dalla cucina si diffuse l’odore di toast al bacon e formaggio sputati dal tostapane che Nelly, noncurante del modo sgarbato con cui era stata ripresa meno di un’ora prima, aveva attivato da un paio di minuti. Simon annusò l’aria come un segugio e, una volta giunto in cucina, aggredì il suo pasto, facendolo fuori in meno di un minuto, tempo nel quale si concesse anche due sorsi di succo d’arancia. Aveva ancora fame, ma era in ritardo. Non c’era tempo per frugare tra frigo e dispensa alla ricerca di qualcosa che placasse la sua voracità mattutina.
«Nelly!» esclamò soffocando a stento la sua stizza. «Appunto per la signora Brilly. Testo: “Justine, per favore, da domani colazioni più abbondanti, grazie”. Fine testo.»
«Ho preso nota, Simon, hai qualche preferenza sul cibo?» si affrettò a chiedere la sua aiutante.
«Nessuna in particolare. Voi due avete una lista aggiornata delle mie preferenze, scegliete qualcosa da quell’elenco.»
Dopo aver impartito l’ordine, si accorse di aver perso l’ennesima battaglia nella sua guerra personale contro l’umanizzazione degli assistenti robotici.
È dura, pensò inizialmente, ma poi, sorridendo, si disse: Però forse stavolta l’errore è diverso, credo di aver appena robotizzato la povera signora Brilly.
Rimase perplesso per qualche secondo, riflettendo su quale delle due ipotesi fosse lo sbaglio più grave. Justine Brilly era la sua collaboratrice da diversi anni. Si occupava di tutto in quella casa, dalle pulizie alla domotica, dai suoi abiti ai pasti. Era una signora di mezza età, affidabile e meticolosa nello svolgimento delle sue mansioni. Perennemente abbronzata e bionda il più delle volte, Justine era recalcitrante alle ingiurie del tempo e proiettata all’incessante ricerca dell’ultimo e miracoloso ritrovato anti-age. Se si fossero sommati gli anni di ringiovanimento promessi da ognuna delle creme che adorava spalmarsi quotidianamente, a breve la signora Brilly sarebbe dovuta entrare nella pubertà, almeno nell’aspetto.
All’interno della cabina armadio, Simon schivò completi e spezzati per ripiegare su un golf verde in cachemire indossato su una camicia bianca e dei pantaloni in flanella blu. Calzò infine degli stivali corti in pelle mentre Nelly iniziò a scandire ossessivamente l’orario. Simon la interruppe imprecando a voce alta e chiedendosi come fosse riuscito a fare tardi anche quella mattina, malgrado si fosse svegliato in anticipo. Si precipitò verso l’ingresso afferrando al volo un cappotto di vigogna blu e un paio di occhiali fotocromatici.
Ad attenderlo nell’atrio dello stabile c’era Martin, il custode capo, che lo accolse ossequiosamente, sfoggiando il sorriso d’ordinanza per gli inquilini più generosi.
Alessandra Lombardia (proprietario verificato)
Il mondo capovolto, già dal titolo, presuppone che esista un punto di vista che tenti di stabilire i termini di ordine e giustizia nella natura dell’uomo, nella società, e dunque nella realtà in tutta la sua interezza.
La dimensione descritta è sottoposta a un attento calcolo che rispetti criteri di uguaglianza, un assoluto controllo che, come un padre premuroso e apprensivo, garantisca a ognuno il suo pezzo di felicità senza escludere nessun figlio.
In questo perfetto quadro di equilibri e giustizia, tuttavia, a volte un tassello sfugge, mutando i connotati del puzzle e generando pericolose anomalie.
Come disse G. K. Chesterton, “l’errore è una verità impazzita” e questo romanzo cerca di sondare la natura non incasellabile dell’uomo, i suoi contorni inafferrabili, gli ‘errori di sistema’ generati dall’organicità della struttura umana.
L’ io di Simon Keitel è l’io di ogni uomo che si è perso, o non si è mai trovato, e cerca l’equazione giusta per risolvere l’insondabile mistero che è l’esistenza, scoprendo che a volte la risposta è proprio che una risposta non c’è. Occorre accettare di essere mistero anche noi, nessun calcolo ci salverà, ma solo questa consapevolezza.
Sebbene l’equazione sia perfetta in ogni suo aspetto, il risultato continua a sfuggire alla ragione umana.