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Il paese più bello del mondo

Il paese più bello del mondo
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Consegna prevista Luglio 2024

Italia, 2032: le città d’arte sono diventate parchi a tema, dove si rievocano le storie del passato. Per i turisti stranieri è come fare un viaggio indietro nel tempo, tornando alla Venezia di Goldoni o alla Firenze di Dante. Il governo vuole sfruttare il “petrolio” nazionale: i monumenti storici. Ma dietro la facciata si nasconde un sistema di oppressione, che costringe i cittadini a prestare servizio nei parchi a tema e a obbedire ciecamente al regime. Un gruppo di ribelli, la Rete, vuole rovesciare la situazione. E per farlo deve mettere le mani su un tesoro segreto. La chiave per arrivarci è un onesto e pacato cittadino, Annibale Manin, professione guida turistica a Venezia. Ligio al dovere, si tiene lontano dai guai sperando in una promozione. La grande opportunità gli arriva quando lo incaricano di accompagnare in città due turisti danarosi. Invece si troverà coinvolto, suo malgrado, nell’intrigo della Rete. Svelando anche un mistero che riguarda la sua famiglia.

Perché ho scritto questo libro?

Avete presente quando qualcuno dice che il turismo è il petrolio dell’Italia e che potremmo vivere dell’arte e della cultura delle nostre città? A me è capitato spesso, per lavoro, di sentire politici o personaggi pubblici fare promesse del genere. Così ho pensato: se fosse vero, che cosa succederebbe? Da questa suggestione è nato il romanzo. Avrei potuto dipingere un mondo utopico, ma se pensiamo alla situazione di Venezia, il rischio che diventi qualcosa di inquietante è molto più reale.

ANTEPRIMA NON EDITATA

I

VENEZIA

Il carnevale è la nostra anima, Venezia il nostro teatro

Mona d’un mona!

Annibale Manin si fermò in mezzo alla strada, di botto, e picchiò la destra sulla piazzetta che si allargava in testa, tra radi ciuffi di crespi capelli biondicci: si era dimenticato il tricorno. Bestia!

Si congratulò con se stesso, ancora addormentato, mentre rincasava a rotta di collo per recuperare il cappello. I lunghi piedi stretti nelle scarpette gli dolevano, le calze bianche si stavano afflosciando lunghe le smilze gambette, giù dalle braghe e sentiva già la camicia chiazzarsi di sudore, che presto e tardi si sarebbe allargato in inguardabili aloni sotto la lunga giubba color sabbia. Che tenesse botta almeno il giustacorpo del costume, che doveva indossare per ragioni di lavoro. Rischiava di far tardi all’appuntamento e di presentarsi uno schifo.

Mona d’un mona! Mona d’un mona!

Dove si era cacciato quel tricorno, proprio quando aveva premura di arrivare a Venezia?

Mentre ribaltava casa vomitò un fiume di bestemmie. Presentarsi in ritardo era un pessimo biglietto da visita. Andare in giro per Venezia senza tricorno però, proprio nel giorno di Carnevale, quando doveva presentarsi in rigorosi abiti del Settecento, aderenti in toto allo stile dell’epoca, era persino peggio: duecentomila lire di multa. E già ti bruciavi la giornata di lavoro. Se poi le guardie ti beccavano in compagnia, altre cento cinquantamila lire per ogni persona senza cappello. Se scortavi uno o più visitatori, centomila lire in più a testa. Se lo facevi in piazza San Marco, seicentomila lire. Se circolavano fotografie, interdizione dalla città per un mese. Era un attimo che andavi a gambe all’aria.

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Can di un cappello”, sbraitò, quando lo trovò appeso all’ingresso, che quasi lo guardava sconsolato: mona sarà ti, io non mi sono mosso da qua.

Lo schiacciò sulla testa, quasi per incollarlo, e giù per le scale a perdifiato. Arrivò alla fermata del tram di via Volturno, a Mestre, che per poco non gli pigliava un infarto: pur avendo trentacinque anni, spompato e fuori allenamento com’era, dopo una corsa del genere gli si spalancavano davanti le porte dell’ospedale. E chi aveva i soldi per pagarselo? Una donna aspettava alla palina, soffocata dal tricorno e da un mantellaccio in lana carminio, vestita di tutto punto per il Carnevale di Venezia. L’eterno Carnevale di Venezia. Era un giovedì afoso, la morsa di caldo fustigava già di prima mattina, ronde di zanzare pattugliavano le strade sbeffeggiando gli inutili repellenti e grosse gocce di sudore rigavano il cerone bianco con cui si era stuccata la faccia. Annibale Manin la conosceva: Marietta abitava pochi isolati più in giù e in città aveva una botteguccia di borse. Storse il naso appena le fu vicine: un fetore oleoso si levava dal mantellaccio di lana.

“Marietta, anche tu hai perso il tram?”, chiese sconsolato.

“No, Annibale, non è ancora arrivato. È rotto, cio”, brontolò e indicò il piccolo tabellone luminoso, sulla palina, dove scorrevano segni che avrebbero dovuto comporre una scritta di senso compiuto. I cristalli liquidi erano bruciacchiati, ma, abituato a quei geroglifici, Annibale li decifrò in un lampo: “Ancora inconvenienti tecnici? Cosa sarà successo stavolta?”.

Marietta alzò le spalle: “Forse si è rotto il tram. O i binari, come giovedì scorso. O il semaforo”.

“Non funziona più niente, in questa città”. Possibile che nel 2032 non si riuscisse mai ad aggiustare le cose, con tutta la tecnologia che si erano inventati nel mondo? Solo in Italia. So-lo in I-ta-lia!

“E con le tasse che paghiamo”, grugnì la donna.

“Non pensiamoci Marietta, che sennò ci viene il sangue amaro”. Ma ormai, ad averle solo accennate certe conclusioni, la mente rimaneva intrappolata in una spirale di frustrazione e il fegato si ingrossava. I suoi glielo avevano detto, in tempi non sospetti. “Vai via Annibale, cambia paese, emigra”. Ma lui no, lui aveva studiato per insegnare storia alle medie e storia avrebbe insegnato alle medie. Chi la dura la vince, no? La scuola, invece, lo aveva respinto: con i pochi studenti rimasti, di nuovi insegnanti non sapeva che cosa farsene e all’ultimo concorso che avevano bandito, o avevi un santo in paradiso o uno zio che lavorava a Roma. E lui non aveva nessuno dei due. Lo avevano spedito a fare la guida turistica. Se voleva mettere qualcosa nel piatto, si doveva accontentare. Gli venne l’istinto di dare un calcio a una bottiglia di birra mezza rotta, ma a salvare le scarpe, già rovinate abbastanza da non meritare altri maltrattamenti gratuiti, ci pensò Marietta.

Orco can!”, esclamò, mentre sopraggiungeva caracollante l’autobus sostitutivo. Schiacciati gli uni contro gli altri, i passeggeri parevano i dannati di qualche girone dell’inferno. Corpi aggrovigliati, smorfie di insofferenza, mani spiaccicate sui vetri e appena le porte si spalancarono, un coro funereo di agonie, bestemmie e implorazioni: lasciate ogni speranza, oh voi che salite. Marietta e Annibale avrebbero voluto dare ascolto al monito e rimanere a terra, ma non avevano scelta: forzarono la resistenza, si rimpicciolirono fino a occupare i minuscoli spazi vuoti tra un gomito e un ginocchio. Nessuno poteva permettersi il lusso di fare tardi, di non presentarsi al lavoro. Le lagnanze sfumarono: erano tutti sulla stessa fragile barca e nessuno aveva realmente voglia di farsi la guerra. L’autobus ripartì, una trappola di afa e umori. In quei giorni di fine settembre laria immobile e bollente stagnava, cuocendo la città sotto la sua cappa asfissiante. Il viaggio fu una via crucis: l’aria condizionata rotta, le zanzare affamate imbarcate, le frenate improvvise, l’assalto alla diligenza a ogni sosta, siccome fino a Venezia nessuno aveva motivo di scendere.

L’autobus imboccò infine il ponte della Libertà e dalla foschia afosa emerse il profilo della città, il campanile di San Marco, i tetti, il sole di un bianco inquietante che si scioglieva sulla tela di sottilissime nubi. A qualcun altro la vista avrebbe ispirato un senso di stupore, un brivido di mistero, la curiosità davanti alle prime, oscure pagine di una storia, che promettevano di svelare succulente sorprese e intrighi occulti sotto la sonnolenta apparizione. Annibale Manin, invece, si asciugò la fronte e sospirò infastidito: l’ennesimo umiliante giro di valzer in maschera, dietro le sbarre, come un animale allo zoo. O per dirla papale papale, come la stava pensando: un’altra giornata di merda.

Alla fermata di piazzale Roma si ritrovò quasi a terra, sputato fuori dalla massa che boccheggiava alla ricerca di aria fresca e annaspava per la fretta. Tanta fretta. Altri autobus e tram riversavano centinaia di persone, mentre motorini, monopattini e biciclette si affannavano a tagliare il muro di uomini e donne che di prima mattina entravano in città, clacson isterici alzavano la voce per fare manovra, furgoni arroganti sgomitavano pur di scaricare la merce. Sopra la cacofonia di saluti, parolacce, suonerie, schiamazzi, cigolii, strombazzate, sbuffi, alcuni altoparlanti gracchiavano i loro ordini perentori: “Ingresso dipendenti. Prepararsi all’ispezione. Tenere pronta la tessera personale di identificazione”. La cantilena mandava Annibale in bestia. Alla parola dipendenti, poi, gli partiva l’embolo. Come se non fossimo più cittadini. Non lo erano, però, o meglio non soltanto: erano impiegati presso l’azienda pubblica per la gestione dei lavoratori del parco a tema di Venezia, la Salve. Annibale non si accodava ai cancelli della città per piacere, ma per dovere. Si intrufolò tra i borbottii la vocina di suo padre, che quando aveva sentito per la prima volta quel messaggio era saltato come un grillo: “Vai via subito, Annibale! Non è più posto per vivere qui.”. Via, già, ma dove? A far cosa? Pazienza, le cose si sarebbero sistemate. Lo dicevano i politici, lo promettevano alla televisione. E lui mica aveva la sfera di cristallo, mica poteva saperlo che sarebbe andata sempre peggio.

Si diresse con Marietta verso una massa che si accalcava contro un’alta recinzione di metallo, coronata di filo spinato e sorvegliata da occhiute telecamere. Sopra queste erano appollaiati i fastidiosi altoparlanti che ogni giorno, da mattina a sera, senza requie, impartivano ai cittadini di Venezia gli stessi comandi: accodarsi a una delle file davanti ai quindici ingressi, per verificare se erano titolati a entrare in città e se indossavano gli abiti richiesti. Vigilanti in severe uniformi nere, le guardie delle patrie, sorvegliavano le operazioni. Una sequenza di bip e sfarfallanti luci verdi accoglieva gli ammessi a Venezia.

Sull’altra sponda del canale, fuori dalla stazione dei treni, sorgeva l’ingresso dei turisti. Già a quell’ora  lunghe code si formavano ai cancelli ma i controlli viaggiavano lesti e cortesi. Nessuno aveva intenzione di infastidire la gallina dalle uova d’oro, anzi, per spennarla per benino, con riverenze e salamelecchi la si accoglieva nel parco a tema di Venezia. In assoluto il primo in Italia in cui si poteva fare un viaggio indietro nel tempo e vivere come nel passato. Nel centro storico ogni elemento moderno era stato cancellato, i negozi sostituiti da botteghe, i ristoranti tramutati in locande, i lampioni rimpiazzati da lumi e i lavoranti circolavano abbigliati come una volta. Ogni traccia di tecnologia era stata rimossa alla vista dei turisti senza appello, sicché l’intera città, già di suo predisposta, era stata confezionata alla perfezione per illudere i visitatori di essere tornati indietro nel tempo. Un vanto su cui la pubblicità della Serenissima insisteva molto, dacché il governo italiano aveva trasformato altre città d’arte e siti archeologici in parchi a tema. C’era l’imbarazzo della scelta, ormai, e la concorrenza era spietata. Se possibile, da allora la vita dei veneziani era persino peggiorata: bisognava essere impeccabili per ammaliare i turisti e le leggi cittadine, applicate  dalle guardie, picchiavano duro chi sgarrava.

Nella catena alimentare del 2032 le guardie della patria si consideravano al di sopra di comuni cittadini e dipendenti. Le famiglie si fregiavano di avere un figlio o una figlia arruolata nelle guardie, i figli si sentivano autorizzati a maltrattare i compagni di scuola così come i genitori avrebbero fatto con un qualsiasi individuo agli ingressi della città. I negozianti oliavano la vanità delle guardie omaggiandole sotto banco, pagandole per chiudere un occhio o per aprirne un terzo contro qualcuno che non gli andava a genio o, semplicemente, gli faceva concorrenza. La delazione era un business piuttosto redditizio, specie per le guardie sul campo, in strada, agli ingressi dei campi, che vivevano con stipendi da fame, né più né meno di quelli che prendevano gli altri contro cui sfogavano la loro frustrazione.

Marietta fece segno ad Annibale di accodarsi a uno degli ultimi ingressi: la fila sembrava più corta. Tagliarono in mezzo a sfilze di Arlecchino e Pantalone, maschere di biacca, gentiluomini con giacchette lise o dame con fruste gonne di seta ricamata. Da lontano il colpo d’occhio era eccezionale. Annibale sapeva che in quel momento, dall’altra parte del canale, dopo essere usciti dalla stazione di Santa Lucia, i turisti, in coda per obliterare il biglietto pagato a peso d’oro, sgomitavano per immortalare la coda di veneziani in costume che entrava in città a lavorare. Aveva scovato le immagini su alcuni siti internet stranieri, che in teoria erano vietati, ma se sapevi come arrivarci senza farti beccare… Si era persino ritrovato in uno scatto, compresso in una fiumana di maschere, di pizzi, di piume. “Vieni a vivere il sogno di Venezia”, recitavano le pubblicità mandate all’estero. L’incubo, avrebbe corretto Annibale. Da vicino quei consessi di gran signori si rivelavano accozzaglie di bottegai sudati e artigiane sfiorite. Dietro le maschere facce incartapecorite maledicevano la sceneggiata. Sotto i cappelli…

“Marietta”, ad Annibale quasi mancò la voce: “Il tuo tricorno…”

La donna si toccò la testa, sopra una parrucca crespa incipriata alla bene e meglio. “Orco can”, esclamò. Doveva esserle caduto mentre scendeva dal bus.

Provò a tornare indietro, ma una guardia la intercettò: “Signora, deve indossare ora il suo cappello”. Fece ballare il manganello per indicare uno schermo luminoso, montato sopra la guardiola, dove erano proiettate le istruzioni di accesso. “Giovedì di Carnevale”, recitava l’avviso, prima di dissolversi in una sequenza di informazioni: “Costumi ammessi”. Una teoria di figurine iniziò a scorrere, ciascuna abbigliata secondo i requisiti. “Mantellaccio di Venezia senza maschera, F”, che stava per femminile, rappresentava il modello di Marietta. Il tabarro c’era, ocra o carminio. La parrucca anche. Ma serviva il tricorno. E lei era senza.

Provò a giustificarsi, ma la guardia fu irremovibile: “Senza cappello non può entrare”.

“Può prestarmene uno di quelli agli oggetti smarriti?”, suggerì Marietta. Tutti sapevano che ne erano pieni. La richiesta, però, cadde nel vuoto. “La prego, rischio di perdere la giornata di lavoro…”.

La guardia indurì la voce: “Sta bloccando la fila”.

A sua volta, Marietta virò dall’implorante all’arrabbiato: “Io devo lavorare, cio. Mi faccia entrare”.

“Lasci la fila subito”.

Annibale si accorse che intorno la folla si era azzittita: non si vedeva tutti i giorni qualcuno che si intestardiva a resistere alle guardie della patria. Negli occhi trepidava una scintilla di rivolta, altrove albergava la paura, la riprovazione per quei comportamenti fuorilegge. C’era chi bramava sangue della donna. E chi dei vigilanti. Era come guardare dentro un abisso, affacciarsi a un orrido sublime che attirava, come una fatale calamita, file di pecorelle ingenue.

Altre guardie si avvicinarono, per disperdere la pericolosa elettricità. Indossavano uniformi nere, stivali con le punte rinforzate, giubbotti antiproiettile, manganelli e pistole, taser e coltellaccio. Manco dovessero scannare un cinghiale. “Signora, se ne deve andare”, ordinò una guardia con protervia.

Annibale provò a inserirsi, ma fu subito azzittito. “Non impicciarti”, gli intimò una guardia: c’era una dose di randellate che lo aspettava, se avesse insistito, senza bisogno che facesse troppi complimenti. Sentì che intorno a lui se le persone si allontanavano, marcando la distanza, e Marietta lo guardò sconsolata: “Lascia stare, Annibale, si vede che non è giornata”. Fece un passo indietro e le guardie le furono subito addosso, per non lasciarle margini di ripensamento: “Ma voi dovreste essere più gentili. Ve lo paghiamo noi, lo stipendio, cio”. Qualcuno annuì, giusto signora, ma non di più: nessuno poteva permettersi il lusso di protestare. Si erano affacciati sì all’abisso, avevano contemplato la terribile profondità di una rivoluzione, e si erano tirati indietro. Un gregge di pecore, a questo si erano ridotti.

“Avanti, muoversi”, comandarono le guardie. Una spintonò Annibale, impietrito dalla sua rassegnazione: “Non si blocca la fila”.

La forza dell’abitudine, constatò amaro.

Abitudine ad assistere inerme ai soprusi.

Abitudine a non alzare la voce.

Abitudine a rispettare la coda, zitto e mosca. Se non volevi problemi. E lui non ne voleva. Come un automa si accodò all’ingresso, schiacciò una zanzara prima che gli mordesse il collo poi si rassegnò a eseguire meccanicamente i vari ordini impartiti dallo schermo.

“Togliere ora orologi, bracciali, anelli coprire i tatuaggi e rimuovere tutto ciò che non è ammesso dal costume”. Annibale ripose il suo in tasca.

“Disattivare i dispositivi elettronici”. Nascose il cellulare dentro il giustacorpo, ma lo lasciò acceso con la vibrazione.

“Riporre borse, zaini, marsupi e borsoni negli appositi armadietti”. Non ne portava più, da quando gli avevano scassinato il suo e rubato una tracolla. Aveva lasciato dentro i documenti, il cellulare, le chiavi di casa. Vai a fidarti delle sue guardie della patria. Avrebbero dovuto sorvegliare, ma nessuno aveva visto niente. Alla minaccia di presentare un reclamo formale, avevano riso con ribalderia: prego, vada pure dai nostri colleghi, le faranno sapere.

Ai tornelli di ingresso Annibale trovò un custode che conosceva da tempo: stessi turni, stessa vita di merda. Grosse borse si afflosciavano sotto la barba bianca sfatta. “Toni, come stai?”

“Eh Annibale, solite rogne. Un altro blackout stamattina”.

La corrente era scarsa da quando il governo aveva smantellato pale eoliche e pannelli fotovoltaici perché inquinavano il paesaggio e aveva riaperto vecchie centrali a gas e carbone che costavano l’iradiddio. Ma la colpa, ripeteva la tv, era di chi non ci vendeva l’elettricità a poco prezzo, come quei bastardi dei francesi con il loro nucleare.

“Vedi che coda che si è formata? Facciamo alla svelta dai. Mettiti davanti alla videocamera”.

Riconoscimento facciale. Annibale lo odiava. Ti seguiva. Fissò la spia in alto. Verde, dai, verde, devo andare.

“Niente Annibale, non funziona. Passa la carta”. L’altro strisciò la tessera personale di identificazione nel lettore di fronte a sé. La spia di accesso rimaneva rossa. Non sapeva quanto tempo avesse perso e il timore di essere in ritardo lo fece sudare ancora di più.

“Passa un’altra volta, qui non funziona niente”, sbuffò Toni, grattandosi il mento.

“Il computer?”, domandò Annibale, che la sapeva lunga.

“Il computer, la telecamera, il lettore”. Un bip richiamò la loro attenzione: luce verde. Alleluja. Toni lo salutò appena con un cenno della mano, mentre riprendeva la litania dei controlli con un bolso Arlecchino. Dopo che ebbe varcato il cancello, Annibale si ritrovò in mezzo alla folla stretta in un ingorgo, che si divincolava per defluire per calli e rive. Giunse un’eco di sette rintocchi di campana più un colpetto delicato appresso per indicare la mezz’ora. Appena in tempo, ma doveva affrettarsi, se non voleva lasciare i suoi ospiti senza guida.

2023-11-28

Aggiornamento

🎄Ciao, si avvicina Natale e ho pensato ad alcuni doni che chi vuole regalare "Il paese più bello del mondo" per le feste può utilizzare per non rimanere a mani vuote. Trovi qui sul sito della campagna il segnalibro del romanzo (fronte e retro) e la cartolina (fronte e retro), che annuncia il regalo, che puoi stampare per annunciare il regalo in arrivo. Aiuta uno scrittore esordiente! 🎁
2023-11-28

Aggiornamento

Fronte segnalibro
2023-11-28

Aggiornamento

Retro segnalibro
2023-11-28

Aggiornamento

Fronte cartolina
2023-11-28

Aggiornamento

Retro cartolina
2023-11-23

Evento

Instagram Ciao, giovedì 23 novembre, ore 18.30, dialogherò in diretta Instagram con Tiziana Valentino, alias The mad otter, book blogger, de "Il paese più bello del mondo", del percorso che mi ha portato all'ideazione, alla scrittura, alla presentazione del progetto nell'ambito del concorso Milano Pitch e infine della campagna in corso con Bookabook. Ringrazio Tiziana per l'ospitalità e, se avete curiosità, scriveteci! Vi aspetto Maggiori info qui > https://www.instagram.com/p/Cz51WjXNG_y/?img_index=1
2023-11-06

Aggiornamento

È ufficiale: "Il paese più bello del mondo" sarà pubblicato! La campagna ha raggiunto la soglia di 200 copie e a luglio 2024 il libro diventerà realtà. Grazie! Voglio ringraziare dal profondo del cuore tutte le persone che in queste prime tre settimane di campagna hanno contribuito a trasformare il sogno in realtà, con ordini, passaparola e messaggi di incoraggiamento. Sono grato dell'incredibile sostegno ricevuto, della stima e del grande aiuto che mi avete dato. Darò il massimo per ricambiare il vostro sostegno e affetto. La campagna non si ferma. Anzi raddoppia: il percorso ora prosegue fino al traguardo di 400 copie per dare ancora più visibilità e supporto di comunicazione al libro quando sarà pubblicato. Chi non ha pre-ordinato, è ancora in tempo per selezionare la propria copia (cartaceo o ebook). E ogni aiuto per far girare la voce è il benvenuto. Grazie davvero! E ad maiora 🚀
2023-11-06

Aggiornamento

"Il paese più bello del mondo" ha raggiunto nelle scorse ore il traguardo delle 200 copie e sarà pubblicato! Grazie di cuore a tutte le persone che hanno sostenuto la campagna con i loro ordini, il passaparola, i messaggi di incoraggiamento. Sono grato per questa grande carica di affetto, di stima e dell'aiuto a realizzare questo sogno. La campagna di pre-ordine non finisce qui. Resta aperta fino a metà gennaio e i successivi step saranno utili a dare maggiore visibilità al libro. Le persone che non hanno ancora pre-ordinato il libro possono partecipare al percorso che porterà "Il paese più bello del mondo" sugli scaffali di una libreria e il passaparola e la campagna di comunicazione proseguono. Grazie di cuore e... ad maiora! 🚀

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Riprovato con Chrome: no. è proprio il giorno, ho potuto preordinare una seconda copia

  2. (proprietario verificato)

    Con Brave e con Chrome ieri è stato impossibile preordinare. Con Edge oggi, ha funzionato. Poi, se non dipende dal browser, ma dal giorno, come non scritto.

    Forza, gente, diamo una chance a questo autore

  3. Giorgio Consoli

    (proprietario verificato)

    Ispirato dall’idea che l’Italia possa vivere principalmente di arte e turismo, Luca racconta una storia curiosa, distopica e per alcuni aspetti inquietante. Un tuffo in un futuro non troppo lontano per vedere ciò che potremmo diventare e cercare di costruire un presente più lungimirante.

    Un progetto che sta prendendo forma con bookabook e grazie al vostro sostegno potrà andare lontano.

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Luca Zorloni
Sono un giornalista specializzato in economia e innovazione e coordino l’area digitale di Wired Italia, la più influente testata dedicata alla tecnologia. Mi occupo di inchieste e approfondimenti, denunciando sprechi di denaro pubblico, l’abuso dei dati online e le storture del digitale. Insomma, la “distopia” che ho scelto come genere per il mio romanzo d’esordio, "Il paese più bello del mondo", è qualcosa che mi appartiene da sempre. D’altronde, sono nato nel 1984. Il mio pallino è tirare fuori i problemi. Così ho trovato le mie foto in un inquietante database internazionale di riconoscimento facciale, che le aveva usate senza autorizzazione, facendolo bloccare in Italia; ho realizzato una mappa di tutti i Comuni del nostro Paese contro il 5G; e ho tracciato gli investimenti della Cina nelle startup europee. Credo in una innovazione sana e responsabile, che non lasci indietro nessuno.
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