Quando dovevano effettuare la consegna verificavano che non ci fosse nessuno sconosciuto nelle vicinanze, poi si addentravano nel cespuglio a recuperare la dose. Era un piccolo stratagemma con cui speravano che una visita della Polizia non li avrebbe sorpresi con la roba in tasca. Potevano cavarsela dicendo che non ne sapevano nulla, che erano lì per caso e il giorno dopo sarebbero già stati liberi di ricominciare. Rimasi seduto qualche minuto per accertarmi che anche quella sera seguisse le stesse procedure. Dopo un paio di vendite eseguite con il solito schema decisi che era giunto il momento. Me lo dovetti ripetere un paio di volte perché c’era qualcosa dentro di me che si opponeva. Un rigurgito di pietà umana per un uomo che neanche conoscevo, se non da una foto? O un retaggio di quegli insegnamenti che ci mettono in testa fin da bambini secondo cui non dobbiamo occuparci personalmente della giustizia perché c’è lo Stato che ci pensa?
O banalissima e meschina paura di fallire, o di essere io a finire ammazzato? Non lo so cosa fosse, ma alla fine riuscii a mettere tutto da parte e concentrarmi sul mio obbiettivo che si trovava a una cinquantina di metri, al di là del prato e degli alberi che mi stavano nascondendo alla sua vista. Estrassi la scatoletta del lucido e me ne cosparsi un velo sul viso, indossai il berretto e i guanti neri. Come un’ombra nel buio scivolai attraverso il parco e arrivai al cespuglio, era un arbusto con il fogliame molto folto fino a terra. Mi accovacciai ben nascosto dalle fronde, potevo vedere il sacchetto con le dosi a mezzo metro, proprio nel centro del cespuglio, ben nascosto dalle foglie. Afferrai il pugnale e aspettai. Sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie e il respiro affannato, cominciavo a temere che anni di pratica di karate non sarebbero serviti a nulla al di fuori del tatami, nel mondo reale, ma fui fortunato perché dopo un paio di minuti scorsi l’uomo che si avvicinava e non ebbi più il tempo di pensare. Si guardava in giro, non immaginava che il pericolo potesse arrivare dal cespuglio. Più si avvicinava e più potevo vederlo in faccia. Era lui, senza dubbio. Poteva essere italiano, o slavo, sembrava avere un fisico abbastanza atletico. Arrivò al cespuglio e si chinò per infilare la mano fra le foglie, era a un metro da me, era quello il momento. Balzai fuori dal mio nascondiglio e gli fui addosso mentre era accovacciato per estrarre le dosi dal sacchetto. Non ebbe neanche il tempo per capire cosa stesse accadendo, si trovò schiacciato a terra da tutto il mio peso, con il braccio sinistro ripiegato dietro la schiena, il destro bloccato dal mio ginocchio, il volto affondato nell’erba. Farfugliava qualche insulto.
«Dove lo trovo Morabito?»
«Vaffanculo st…»
Non fece in tempo a terminare, gli strattonai il braccio fino a farlo urlare di dolore.
«Dove?»
«Al Silver pub, ma ti ammazzo.»
«Forse qualcun altro, non tu.»
Lo afferrai per i capelli, gli sollevai la testa e non gli lasciai il tempo neanche per strillare o divincolarsi. Affondai la lama nella sua gola tagliandola a fondo. Zampilli neri e pulsanti imbrattarono l’arbusto e l’erba nei dintorni fino a un paio di metri, ero preparato anche a questo e continuavo a tenergli ferma la testa per dirigere i fiotti di sangue lontano da me. In pochi secondi sentivo svanire la tensione nel suo corpo e vedevo i getti affievolirsi fino a diventare una lenta colata calda e nera. Lo lasciai cadere a terra, pulii sommariamente la lama nell’erba, mi tolsi i guanti e osservai le mie mani: era buio ma sembravano pulite. Aprii lo zaino ed estrassi un sacchetto di plastica in cui avvolsi i guanti e il pugnale. Inserii tutto in un altro sacchetto e poi nello zaino insieme al berretto. Presi la busta impermeabile e la depositai sotto a un braccio del cadavere, non c’era vento, ma meglio non rischiare. Diedi un’occhiata in giro, in lontananza vidi i due ragazzi in attesa, avrebbero dovuto trovare un altro pusher per quella sera. Mi allontanai in direzione della Conca ripulendomi dal lucido con le salviettine, la oltrepassai e quando giunsi in viale D’Annunzio mi sembrò di riemergere da un’apnea di mezz’ora. Mi fermai sotto la luce di un lampione per controllare di non avere macchie di sangue sui vestiti o sullo zaino e mi scattai un selfie per assicurarmi di non avere residui di lucido sul viso. Sembrava tutto a posto. Tornai alla fermata del tram di Coni Zugna e ripresi il dieci. Questa volta avevo quattro posti tutti per me e fu un viaggio tranquillo, stavo smaltendo l’adrenalina del momento, cominciavo quasi a rilassarmi nella consapevolezza di aver oltrepassato il mio confine a senso unico. Cosa sarebbe successo ora? Sarei stato assalito dal senso di colpa? Avrei iniziato a consumarmi nel rimorso fino al punto di andare a costituirmi implorando una punizione? No, io non ho mai pensato di essere al di sopra della morale, non ho mai creduto di appartenere alla categoria dei grandi uomini. Raskolnikov in fondo agiva su motivazioni puramente filosofiche e il suo fu un delitto gratuito, io stavo soltanto facendo giustizia. Erano le 23.30 quando aprii il portone del palazzo. La pizza era lì ad aspettarmi sul ripiano sotto alle cassette della posta, era fredda ma si sarebbe scaldata in forno nel tempo di una doccia.
2. 16/06 – Mercoledì
Non fidatevi di chi dice che il mattino ha l’oro in bocca. Mentono. Io la mattina mi sento come quelle vecchie auto che quando vengono avviate a freddo ragliano come muli prima di mettersi in moto. Avrei bisogno di fare attività fisica, ma appena ci provo faccio danni peggiori. No, meglio adagiarsi sul lieve pendio del declino fisico. Mi ero appena sbarbato e le articolazioni avevano riacquistato una mobilità dignitosa. Quel giorno avevo un impegno di lavoro, alle undici sarei dovuto andare in HTI, un’azienda dalle parti di viale Padova i cui proprietari, i fratelli Galbiati, mi volevano sottoporre un caso su cui indagare. Non mi avevano detto molto al telefono, avevo intuito che si trattasse di spionaggio industriale, ma non volevano darmi alcun dettaglio se non di persona. Certo non sapevano che affidare a me un caso di spionaggio industriale è un po’ come partecipare al Gran Premio di Monza con un’automobilina a pedali. Ma agosto si avvicinava e avevo bisogno di un lavoro se volevo superare il periodo estivo, per cui evitai di sottolineare il fatto che solitamente mi occupo di casi molto più banali. Sì, io campo grazie a mariti e mogli infedeli, o a genitori preoccupati dalla recente rotondità del ventre della figlia adolescente con cui non riescono a comunicare. Mi stavo accingendo a cercare qualche informazione su HTI quando fui interrotto dal suono del campanello. Guardai l’ora, le nove e dieci, cercai di immaginare chi avesse potuto superare lo sbarramento della signora Luisa, l’anziana portinaia che sembrava un incrocio fra un SS e un mastino napoletano. Percorsi con lo sguardo il marasma che regnava nella casa, decisi di ignorarlo, andai alla porta. Attraverso lo spioncino vidi le due divise.
«Chi è?»
«Signor Valsecchi? Polizia, agenti Rosato e Pozzi, avremmo bisogno di parlarle.»
«Grazie, non compro niente.»
«Signor Valsecchi, è una questione importante, può aprirci per favore?»
«Sono in arresto?»
«No signore, dobbiamo solo chiederle di venire con noi al commissariato per una questione importante.»
«Quale commissariato?»
«Via Fatebenefratelli.»
Fu come un calcio nello stomaco, come quelli che avevo preso quella notte. All’improvviso rividi immagini che speravo di aver sepolto in qualche anfratto della mia memoria, in sinapsi impolverate, in un posto talmente profondo che non sarebbero più potute riemergere. E invece erano lì, ad attendere solo un piccolo appiglio per potersi riproporre più vive che mai.
«Preferirei di no» dissi, soddisfatto della citazione letteraria.
«Signor Valsecchi, abbiamo l’ordine di accompagnarla al commissariato per un colloquio con il commissario Mancuso. Non le costerà molto tempo e la riporteremo a casa non appena avrà terminato.»
Capii che non si sarebbero arresi facilmente e dovevo sapere se c’era modo di evitare guai. Aprii la porta e mi scostai. I due agenti si spinsero fin sulla soglia ma non entrarono, erano un uomo e una donna. L’uomo era alto, scuro di carnagione, capelli rasati cortissimi e fisico scultoreo sormontato da una faccia da bambino. Un picchiatore mascherato da poppante. La donna era bionda e tarchiata, non aveva ancora aperto bocca e fu ancora il bambino a parlare:
«Signor Valsecchi ci scusi per il disturbo, dobbiamo chiederle di venire con noi al commissariato per parlare con il commissario Mancuso, non siamo a conoscenza del motivo ma le possiamo assicurare con non le costerà molto tempo.»
«Non credo di essere tenuto a venire con voi e non ho nessuna intenzione di tornare il quel posto.»
Il rumore sinistro delle due costole che si spezzavano nello scontro con lo stivale del celerino mi esplose nelle orecchie.
«Può attendere un momento? Il commissario ci ha raccomandato di chiamarlo se lei si fosse rifiutato. Vorrebbe parlarle direttamente.»
Avviò una telefonata e attese la risposta. La donna aveva notato il disordine e mi squadrava in silenzio.
«Sì signore… Esatto… Subito.»
Mi porse il telefono.
«Pronto? Buongiorno Valsecchi, mi hanno detto gli agenti che non è molto propenso a venire al commissariato, ma le assicuro che non deve preoccuparsi.»
«Mi preoccupo sempre quando entro in un commissariato. Cosa volete?»
Sentii l’alito dell’agente di guardia che mi urlava a un centimetro dalla faccia
«Abbiamo bisogno del suo aiuto per un caso molto grave su cui stiamo indagando.»
Quelli come te io me li inculo tutti i giorni! «Aiuto di che genere? Dovete pestare qualcuno e avete scelto me? Ho già dato, grazie.»
Lo sfollagente mi sfiorò la fronte per pochi millimetri e andò ad abbattersi sulla clavicola sinistra.
«Valsecchi, capisco che lei deve aver avuto qualche brutta esperienza con la Polizia, ma è acqua passata.»
«Non è passata proprio per niente, ogni volta che cambia il tempo è come se mi mandaste un ricordino.»
«Sono rammaricato, ma le assicuro che adesso è diverso, la stiamo chiamando in qualità di consulente, le stiamo chiedendo di aiutarci.»
«No guardi, io non ho mai picchiato nessuno in vita mia, non saprei come aiutarvi. Avete provato in una scuola di pugilato?»
Mancuso sorrise, lo sentivo, potevo persino comprenderlo, ma io non stavo affatto scherzando.
«Signor Valsecchi, la aspetto e le offro un caffè, non le chiedo più di mezz’ora.»
«Immagino che i suoi due uo…» l’agente Pozzi mi fissava, «… i suoi due agenti non se ne andranno di qua finché non cambio idea.»
«Indovinato.»
«C’è un problema però.»
«Mi dica, noi risolviamo problemi ogni giorno.»
«Io non posso entrare in quel posto. È proprio un problema fisico. Non posso neanche passarci davanti senza essere aggredito dall’ansia, davvero, se mi capita di camminare da quelle parti devo attraversare e andare sul marciapiede opposto, altrimenti sto male, sudo freddo e mi manca il respiro.»
Caddi sul pavimento, a pochi centimetri dalla mia faccia, nello spigolo del battiscopa vidi un dente, probabilmente del sindacalista che era entrato prima di me.
«Non c’è problema, l’aspetto fuori e il caffè glielo offro in un bar sul marciapiede di fronte.»
«E poi ho un appuntamento importante alle 11.»
«Allora se esce subito con gli agenti finirà con largo anticipo, non ci vorrà molto.»
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