Per mia madre fu un colpo, per mio padre una tragedia. Non riusciva a trovare una giustificazione razionale al mio comportamento e invece era molto semplice, ed era che la sua bambina stava crescendo e quindi cambiando. Avrebbe dovuto avere la pazienza di attendere, e poi sarei tornata la stessa Silvia di sempre, scrupolosa e timida, solo più matura, forse meno remissiva. Ma è difficile rimanere inerti quando un figlio ha un problema. Ho spesso l’impressione che quando i bambini si ammalano i genitori siano disposti a somministrare farmaci inefficaci contro la patologia ma utilissimi per placare le proprie ansie. Mio padre e mia madre non costituivano eccezione. Dovevano fare qualcosa, e farla presto. Così presero una decisione ferma.
La comunicarono una sera quando eravamo tutti riuniti per la cena. Come al solito, io e mia madre eravamo sedute da un lato del tavolo, i miei due fratelli dall’altro e mio padre aveva il posto a capotavola. Non avevamo ancora finito di mangiare la frutta che notai un cenno di mio padre verso mia madre, un leggero aggrottare di sopracciglia che significava “ora comincio”. Aveva nel suo piatto un’arancia che si accingeva a sbucciare con forchetta e coltello, senza usare le mani, secondo un metodo appreso al corso sottufficiali durante il servizio di leva.
«Silvia,» esordì con tono cupo mentre incideva la scorza del frutto «non sono per niente contento di come vanno le cose. Cosa dovrei fare con te?»
Mi voltai verso di lui e lo guardai preoccupata senza rispondergli.
«Come mai non studi più?» continuò lui senza contraccambiare, con lo sguardo mantenuto diretto verso l’arancia. «C’è qualche motivo, qualcosa che ti distrae?»
Pensai che Valentino, seduto proprio di fronte a me, mi avesse tradito. Gli lanciai un’occhiata rovente come per accusarlo di aver rivelato fino a che punto fosse profondo il rapporto col mio compagno di classe, ma lui scosse impercettibilmente il capo, come per assicurarmi che non si sarebbe mai sognato di raccontare degli incontri intimi in camera sua tra me e il mio ragazzo.
«Secondo me, qualcosa che ti distrae c’è.» insistette mio padre e subito dopo portò in bocca con la forchetta il primo spicchio di arancia.
Io invece smisi di mangiare il mandarino. Sentii le mie gote infuocarsi mentre piegavo il mento verso il petto e abbassavo le palpebre quasi fino a chiudere gli occhi.
Il profumo di agrumi aveva sovrastato gli altri odori della cucina, così come la tensione aveva cancellato ogni altro stato d’animo.
«Bruno,» intervenne Vale, assumendosi un compito che non gli spettava «va’ a lavarti i denti.»
«Dopo,» disse Bruno «adesso voglio sentire.»
Notai che per fargli cambiare idea, Vale gli diede una gomitata e un’occhiataccia, ma Bruno incassò colpo e sguardo senza fiatare.
Dopo aver masticato e ingoiato qualche altro spicchio, mio padre cominciò a fissarmi con severità.
«C’è un’altra cosa che mi dà da pensare, signorina…» disse pronunciando la parola “signorina” in modo minaccioso. «Mi spiace che ti si sia abbassata la vista. Però un motivo ci sarà se ti è successo questo, forse un po’ è anche colpa tua, che ne dici?»
Non ci potevo credere: davvero mio padre pensava che la miopia potesse essere causata dall’attività sessuale? Era così ingenuo? Io e mio fratello ci guardammo di nuovo: lui era sbalordito, io terrorizzata. Fu in quel momento che intervenne mia madre per chiarire a cosa alludesse il marito e la spiegazione fu sorprendente ma peggiore delle aspettative.
«Silvia, sai che mamma ti vuol bene e vuole pure che tu sia felice. Ma non ti puoi rovinare la vista con quei mosaici. Ci perdi troppo tempo appresso a quei pezzetti di pietra. Ti stai rovinando la vista e la vita. Quando mai sei andata così male a scuola, quando mai?»
Incrociai per la terza volta lo sguardo con mio fratello: in quell’occasione ad essere sbalorditi eravamo in due.
«Insomma, Silvietta» riprese a parlare mio padre, però con un tono più accomodante «la devi smettere con questi mosaici.»
«Non ci penso proprio.» ribattei, con le guance sempre più accalorate, ma per la rabbia anziché per la vergogna. «Quelle opere sono le cose a cui tengo di più, molto più di…»
«Ascolta tuo padre, che sa cos’è bene per te.» mi interruppe mamma. «Ti stai rovinando con le mani tue, non te ne accorgi?»
«E che cavolo!» sbottai per la prima volta in vita mia. «Sono sempre andata bene a scuola, e adesso, solo perché ho preso qualche insufficienza ai compiti di questi ultimi due mesi, mi trattate come una drogata. Le mie amiche vanno anche peggio di me e non hanno problemi a casa. Escono, sono libere come l’aria, fanno quello che vogliono. Anch’io ho diritto di fare quello che voglio, non ho bisogno dei vostri stupidi consigli.»
Mio padre stava impugnando la forchetta e la indirizzò contro di me come per inchiodarmi metaforicamente alle mie responsabilità.
«Signorina, non usare questo tono con me!» abbaiò. «Il mio non è un consiglio, è un ordine. Ho deciso che smetterai per sempre di perdere tempo con quei mosaici e basta. Non si discute!»
Scoppiai a piangere.
«No, papà, ti prego, questo no, non puoi farmi questo. Ti prego, ti prego, ti prego, studierò fino a tardi, tornerò a essere la più brava della classe, ma non levarmi i mosaici.»
Mia madre intervenne con l’intenzione di accomodare la situazione:
«Amore, ma non lo vedi che sta diventando una fissazione? È perché ti vogliamo bene che abbiamo preso questa decisione.»
Urlai dalla rabbia. Papà ne approfittò per spedirmi in camera mia. Obbedii in preda ad una crisi di pianto. Appena accesi la luce, gettai lo sguardo sul ritratto di Marylin, ormai quasi completato. Nonostante le lacrime mi offuscassero la vista, o forse proprio per quelle, mi sembrò ancora più vivido. Presi a singhiozzare più forte e smisi dopo qualche secondo per emettere un grido da partoriente mentre spazzavo il tavolo con l’avambraccio spingendo le tessere finché Marylin volò via con la sua gonna e cadde sul pavimento. Sentii un rumore inatteso di vetri rotti, come se i sogni producessero un suono nel momento in cui si frantumano; invece, era l’effetto sonoro delle pietruzze nel momento in cui cadevano a terra. Sbattei la porta della stanza con una violenza tale che la conseguente vibrazione riecheggiò per tutta casa. La riaprii per gridare un “vi odio” ascoltato da tutti gli abitanti di Casalpalocco e la richiusi con forza persino maggiore della precedente.
«L’adolescenza è così.» sentenziò mia madre dopo che i muri smisero di tremare.
Purtroppo, riuscii a sentirla. Tornai in cucina con l’intenzione di strangolarla ma mi trattenni.
«L’adolescenza non c’entra un cazzo! Mi avete rovinato la vita!» le urlai in faccia.
Mio padre mi guardò come fossi stata posseduta da uno spirito malvagio. Non aveva mai considerato l’eventualità che anch’io potessi esprimermi in modo colorito, come se avesse firmato un contratto che gli garantiva l’esclusiva del turpiloquio in casa. Anche mia madre era sbigottita, ma almeno aveva capito che la ferita che mia aveva inferto doveva essere profonda.
«Ti pare che ti vogliamo far del male?» protestò. «Non ti accorgi che per quei maledetti mosaici stai lasciando andare tutto alla malora? A parte la scuola, non dai nemmeno corda a quel tuo compagno che ha una cotta per te. Si vede che è timido, se lo incoraggiassi un po’…»
Stavo per rispondere che potevo garantire che il timido non aveva bisogno di tutto questo incoraggiamento, ma riuscii a controllarmi, replicando in altra maniera:
«C’è tanta gente che coltiva una passione e ha una vita normale, non vedo perché non posso riuscirci io.»
«Quando avrai dei figli, capirai.» profetizzò mio padre.
Lo ingiuriai col pensiero, perché se avessi espresso tutti gli insulti che avevo in mente, forse avrebbe davvero chiamato un esorcista. Ritornai in camera sempre più furiosa e bloccai l’accesso spostando il tavolo dietro la porta. Fino a notte fonda, Valentino e Bruno chiesero il permesso di entrare in stanza per consolarmi, ma non volli parlare nemmeno con loro.
Da quel giorno assunsi un’aria malinconica e rassegnata. Mi lasciai col ragazzo, non mi ricordo più per quale motivo. Bruno, come un ometto, provò a convincermi che, una volta promossa, dopo la fine della scuola avrei riottenuto il permesso di ricominciare a occuparmi dei mosaici, ma ormai non mi importava più nulla. Valentino, preoccupato per il mio stato di prostrazione, andò persino a parlare con la mia maestra, ma lei gli ricordò che ero minorenne e lei, per quanto dispiaciuta, non poteva certo intromettersi nelle decisioni prese dai miei genitori, a parte confermare la sua disponibilità a seguire gratuitamente la sua allieva più dotata.
Al successivo compito di greco, presi nove.
«Se sei contenta così…» dissi a mia madre dopo averle comunicato il voto senza alcun entusiasmo.
La odiavo. Incolpavo i miei genitori per essere stati la causa del mio senso di desolazione, ma in fondo loro credevano veramente di agire per il mio bene. Non potevano immaginare i drammatici effetti della loro decisione.
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