5 agosto 1964, ore 04:45
«Pronto? Chi parla? Sì, sono la signora Angela Lovati. Sì, mia figlia si chiama Sara, e suo marito Angelo. Ma cosa è successo? Come un incidente! E dove li hanno portati? Al policlinico? Dieci minuti e sarò lì!»
Nonna Angela mi aveva raccontato decine di volte quello che era accaduto in quella terribile notte in cui ero nato.
Non che fosse terribile il fatto che io fossi venuto alla luce, anzi. Tutti in famiglia erano in trepidazione per la mia nascita, ero il primogenito e la gioia di tutti era incontenibile. Ma nessuno, dico proprio nessuno, si sarebbe mai immaginato che la mia nascita sarebbe stata associata a uno degli eventi più terrificanti per la mia famiglia.
«Sono la signora Angela Lovati, mio marito sta pagando il taxi che ci ha accompagnati qui. Mi avete chiamato perché mia figlia Sara e suo marito hanno avuto un incidente, ma non mi avete saputo dire nulla di più. E il bambino come sta? Posso vederli? Con chi posso parlare?»
L’infermiera, tempestata di domande da nonna, cercò per prima cosa di calmarla e poi l’accompagnò in una saletta dove ad attenderla c’era un medico, o meglio un chirurgo d’urgenza.
«Quanto è grave, dottore? Cosa è accaduto? Come stanno mia figlia e suo marito? Come sta il bambino? Sa, oggi scadevano i termini per il parto…»
«Si calmi, signora. Stiamo cercando di fare tutto il possibile per salvare sua figlia e il bambino.»
«E Angelo? Mio genero?»
A quella domanda mia nonna mi raccontava che il volto del chirurgo cambiò espressione, passando dallo sguardo rassicurante e professionale a quello del cordoglio e della tenera compassione.
«Purtroppo per lui non c’è stato nulla da fare. Mi spiace, signora, ma vedrà che faremo di tutto per sua figlia e il bambino. Ora devo andare, ma un’infermiera le terrà compagnia. È venuta da sola?»
«No, mio marito sta arrivando» rispose nonna cercando di trattenere le lacrime e mostrarsi forte.
E il mostrarsi forte fu proprio la principale caratteristica di nonna Angela per tutta la sua vita, per tutta la mia vita.
5 agosto 1964, ore 05:30
«Signori Lovati?» chiese un’infermiera entrando nella sala d’attesa dove i miei nonni attendevano notizie di mia madre Sara e di me, che ancora dovevo nascere.
«Sì, siamo noi. Ci sono novità?» chiesero all’unisono.
«Il bambino è nato ed è sano come un pesce. Si tratta di un bel maschietto!» disse l’infermiera con un sorriso che nonna non dimenticherà mai, perché non era un sorriso colmo di gioia, ma un sorriso triste, che subito la mise in allarme.
«E mia figlia? Come sta? Che sta accadendo? Perché non mi dice nulla di lei?»
E, prima ancora che la giovane e addolorata infermiera potesse rispondere, nonna Angela si lasciò cadere su una sedia, con la testa tra le mani, scoppiando in un pianto dirotto.
«Mi dispiace tantissimo, ma i traumi subiti nell’incidente erano troppo estesi e i chirurghi non sono riusciti a salvare entrambi. Sono addoloratissima, signori Lovati. Vi volevo solo dire che vi siamo vicini e che il bambino è comunque salvo, sano, bello, e che appena vorrete vi accompagnerò alla nursery per poterlo vedere.»
Nonna mi raccontava che per un tempo che a lei sembrò infinito non riuscì a far altro che piangere, mentre nonno le stava accanto in silenzio, accarezzandola piano sul capo, gesto che gli avrei visto fare tante altre volte. Nonno era proprio così: c’era sempre ma non si faceva mai sentire. Eppure, se ti trovavi in difficoltà, bastava girarti per ritrovartelo accanto pronto a darti sostegno nel momento giusto.
Terminato di dar sfogo a quel dolore che le opprimeva il petto, o forse esaurite le lacrime, nonna chiese a quella giovane infermiera di accompagnarli alla nursery per conoscermi.
«Che nome gli darete?» chiese con grande delicatezza l’infermiera, dopo aver visto gli occhi dei miei nonni passare dal buio più profondo del dolore alla luce più intensa della gioia.
«Samuele… era il nome che mia figlia e mio genero avevano scelto per lui.»
E così, in una notte tragica, orfano di genitori, ma accolto da due persone straordinarie, eccomi diventare Samuele Parodi, il cognome di mio padre, anche se per molti il cognome fu quello dei nonni, cioè Lovati: tre chili e mezzo di voglia di far sapere a tutti che ero arrivato. Nella nursery non si sentivano altri pianti che il mio, con un tono davvero potente.
Mentre nonno rimase a osservarmi prendere confidenza con il mondo, nonna chiese all’infermiera a chi potesse rivolgersi per sapere quanto fosse accaduto in quell’incidente che aveva cambiato la vita di così tante persone.
Accompagnata al posto di polizia del policlinico, venne fatta accomodare nell’ufficio dove un funzionario le raccontò quanto era avvenuto, racconto che nonna più volte mi avrebbe narrato appena raggiunta l’età per comprendere il perché tutti avessero una mamma e un papà e io no. Storia che continuò a raccontarmi man mano che crescevo, affinché non dimenticassi mai quei dettagli, perché mi rimanessero impressi nella memoria, come i tanti particolari e le tante storie che mi raccontò a proposito di mamma e papà e che, purtroppo, diventarono, a un certo punto della mia vita, fin troppo reali. Ma questa è un’altra storia.
I miei genitori erano usciti di casa per recarsi al policlinico perché a mamma si erano rotte le acque e, quindi, nel giro di poche ore io sarei dovuto nascere. Si erano preparati a quel momento per tanto tempo ed erano estremamente tranquilli: papà aveva più volte provato il percorso fino all’ospedale, temendo che in preda all’agitazione potesse sbagliare strada o infilarsi nelle strade più trafficate, visto che il policlinico sorgeva proprio accanto al centro della città, e in pieno giorno quella zona era davvero un incubo per gli automobilisti.
Ma per fortuna io avevo deciso di venire alla luce in piena notte, quindi il traffico era quasi zero: che grande scelta la mia, no?
Non andavano di fretta, ed erano ormai in prossimità dell’ospedale, quando un camionista, che evidentemente non era al corrente del fatto che avessi scelto di nascere proprio quella notte, né tantomeno si curava di rispettare limiti di velocità e gli stop, aveva attraversato un incrocio ad alta velocità, speronando l’auto dove mamma e papà stavano viaggiando. La macchina era letteralmente volata sull’altra carreggiata, capovolgendosi come se fosse stata un modellino di cartone, mentre l’autista del camion vide bene di non fermarsi per prestare soccorso.
I soccorsi erano arrivati in modo tempestivo, ma papà era morto sul colpo e quello che accadde dopo in ospedale ve l’ho già raccontato. Del camionista più nessuna traccia, e la polizia, nonostante le ricerche, non riuscì mai a risalire a chi si era portato via la cosa più bella che un bambino abbia nella vita: l’amore dei propri genitori.
Nel ripensare a quell’evento mi rendo conto oggi, a quasi sessant’anni di distanza, del perché una delle mie grandi fobie ancora oggi è quella dei camion, tanto che quando uno di essi si accosta all’auto su cui viaggio, sia che guidi o che a guidare sia un altro, comincio a sudar freddo, e quando ero bambino strillavo come un disperato.
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