Maledetto freddo! Maledetto inverno! Maledetto telefono! Non voglio rinunciare a cercare Sara, non posso assolutamente rinunciare a cercarla, ma oramai sono rimasto solo. Non voglio assolutamente credere a quello che il capo del gruppo di ricerca della Guardia Forestale mi ha detto qualche ora fa, prima di fermare le ricerche e mandare tutti a casa.
«Samuele, deve rendersi conto che sono oramai più di dieci ore che stiamo battendo questa zona; gli uomini e i cani da ricerca sono esausti e credo proprio che dobbiamo accettare il fatto che le speranze di trovare Sara ancora viva sotto questo disastro siano davvero ridotte al lumicino. Non voglio dire che sia tutto finito, ma ci vorrebbe davvero un miracolo ed io, nella mia trentennale esperienza, di miracoli non ne ho visti accadere proprio mai!»
Anche Andrea e Stefano hanno rinunciato, almeno per questa notte, anche se mi hanno promesso che domattina all’alba torneranno, e hanno cercato in ogni maniera di convincermi a tornare a casa con loro per riposare un poco. Ma io non posso riposare, non posso smettere di cercare, perché non voglio che anche questa volta mi senta schiacciare dal peso di non aver fatto abbastanza…
Maledetto inverno!… Maledetto telefono!…
“Possiamo ancora vedere la luce di stelle che non esistono più da secoli. Così ancora ti riempie e folgora il ricordo di qualcuno che hai amato per poi vederlo andar via.”
(Khalil Gibran)
5 agosto 1964, ore 4:45 del mattino…
Drin! Drin! Drin!…
«Pronto? Chi parla?… Sì sono la signora Angela Lovati. Sì mia figlia si chiama Sara e suo marito Angelo. Ma cosa è successo?… Come un incidente! E dove li hanno portati? Al Policlinico? dieci minuti e sarò lì!»
Nonna Angela mi aveva raccontato decine di volte quello che era accaduto in quella terribile notte in cui ero nato io!
Non che fosse terribile il fatto che io venissi alla luce, anzi. Tutti in famiglia erano in trepidazione per la mia nascita, ero il primo nipote per nonna Angela e nonno Vittorio, il primo figlio per i miei genitori e la gioia di tutti era davvero incontenibile, ma nessuno, dico proprio nessuno, si sarebbe mai immaginato che la mia nascita sarebbe stata associata ad uno degli eventi più terrificanti per la mia famiglia.
«Sono la signora Angela Lovati, mio marito sta pagando il taxi che ci ha accompagnati qui… Mi avete chiamato perché mia figlia Sara e suo marito hanno avuto un incidente, ma non mi avete saputo dire nulla di più. E il bambino come sta? Posso vederli? Con chi posso parlare?»
L’infermiera, tempestata di domande da nonna, cercò per prima cosa di calmarla e poi l’accompagnò in una saletta dove ad attenderla c’era un medico, o meglio un chirurgo d’urgenza.
«Quanto è grave dottore? Che è accaduto? Come stanno mia figlia e suo marito? Come sta il bambino? Sa, oggi scadevano i termini per il parto…»
«Si calmi signora. Stiamo cercando di fare tutto il possibile per salvare mamma e bambino…»
«E Angelo? Mio genero?». A quella domanda mia nonna mi raccontava che il volto del chirurgo cambiò espressione, passando dallo sguardo rassicurante e professionale a quello del cordoglio e della tenera compassione.
«Purtroppo per lui non c’è stato nulla da fare! Mi spiace signora, ma vedrà che faremo di tutto per sua figlia e il suo bambino. Ora devo andare, ma le lascerò un’infermiera che possa tenerle compagnia. Ѐ venuta da sola?»
«No, mio marito sta arrivando», rispose nonna cercando di trattenere le lacrime e mostrarsi forte. E il mostrarsi forte fu proprio la principale caratteristica di nonna Angela per tutta la sua vita, per tutta la mia vita!
5 agosto 1964, ore 5:30 del mattino
«Signori Lovati?», chiese un’infermiera entrando nella sala d’attesa dove i miei nonni attendevano notizie di mia madre Sara e di me, che ancora dovevo nascere.
“Sì, siamo noi? Ci sono novità?», chiesero all’unisono.
«Il bambino è nato, è sano come un pesce, direi proprio che si tratta di un bel maschietto!», rispose con un sorriso, che nonna non dimenticherà mai, perché non era un sorriso colmo di gioia, ma un sorriso triste, che subito mise in allarme nonna.
«E mia figlia? Come sta? Che sta accadendo? Perché non mi dice nulla di lei?» e, prima ancora che la giovane e addolorata infermiera potesse rispondere, nonna Angela si lasciò cadere su una sedia, con la testa tra le mani e lasciandosi andare ad un pianto dirotto.
«Mi dispiace tantissimo, ma i traumi subiti nell’incidente erano troppo estesi e i chirurghi non sono riusciti a salvare entrambi. Sono addoloratissima, signori Lovati, vi volevo solo dire che vi siamo vicini e che il bambino è comunque salvo, sano, bello, e che appena vorrete vi accompagnerò alla nursery per poterlo vedere».
Nonna mi raccontava che per un tempo che a lei sembrò infinito non riuscì a far altro che piangere, mentre nonno le stava accanto in silenzio, accarezzandola piano sul capo, gesto che avrei visto fargli tante altre volte. Nonno era proprio così: c’era sempre ma non si faceva mai sentire: eppure, se ti trovavi in difficoltà, bastava girarti per ritrovartelo accanto pronto a darti sostegno nel momento giusto!
Terminato di dar sfogo a quel dolore che le opprimeva il petto, o forse esaurite le lacrime, nonna e nonno chiesero a quella giovane infermiera di accompagnarli alla nursery, per fare finalmente conoscenza con me!
«Che nome gli darete?», chiese con grande delicatezza la giovane, dopo aver visto gli occhi dei mei nonni passare dal buio più profondo del dolore alla luce più intensa della gioia.
«Samuele… era il nome che mia figlia e mio genero avevano scelto per lui!»
E così, in una notte tragica, orfano di genitori, ma accolto da due persone straordinarie, eccomi diventare Samuele Lovati: tre chili e mezzo di voglia di far sapere a tutti che ero arrivato io! Infatti nella nursery non si sentivano altri pianti che il mio, con un tono davvero potente!
Mentre nonno rimase ad osservarmi prendere confidenza con la mia nuova realtà, nonna chiese all’infermiera a chi potesse rivolgersi per conoscere quanto fosse accaduto in quell’incidente che aveva cambiato tutto nella vita di così tante persone.
Accompagnata al posto di Polizia del Policlinico venne fatta accomodare nell’ufficio dove un funzionario le raccontò quanto era avvenuto, racconto che nonna più volte mi avrebbe narrato appena raggiunta l’età per comprendere il perché tutti avessero una mamma e un papà ed io no, che continuò a raccontarmi man mano che crescevo, affinché non dimenticassi mai quei dettagli e rimanessero impressi nella mia memoria, come i tanti particolari e le tante storie che mi raccontò a proposito di mamma e papà e che, purtroppo, diventarono ad un certo punto della mia vita fin troppo reali. ma questa è un’altra storia.
I miei genitori erano usciti di casa per recarsi al Policlinico perché a mamma si erano rotte le acque e quindi nel giro di poche ore io avrei dovuto nascere. Si erano preparati a quel momento per tanto tempo ed erano estremamente tranquilli: papà aveva più volte provato il percorso fino all’ospedale, temendo che in preda all’agitazione potesse sbagliare strada o infilarsi nel percorso più trafficato, visto che il Policlinico sorgeva proprio accanto al centro nevralgico della città, e in pieno giorno quella zona era davvero un incubo per gli automobilisti.
Ma per fortuna io avevo deciso di venire alla luce in piena notte, quindi a traffico quasi zero: che grande scelta la mia no?
Non viaggiavano quindi di fretta, ed erano oramai in prossimità dell’ospedale, quando un camionista, che evidentemente non era al corrente del fatto che io avessi scelto di nascere proprio quella notte, né tantomeno si curava di rispettare limiti di velocità e stop agli incroci, aveva attraversato un incrocio ad alta velocità, speronando l’auto dove mamma e papà stavano viaggiando. L’auto era letteralmente volata sull’altra careggiata, capovolgendosi come se fosse stata un modellino di cartone, mentre l’autista del camion vide bene di non fermarsi per prestare soccorso ed era fuggito via.
I soccorsi erano arrivati relativamente in modo tempestivo, ma papà era morto sul colpo e quello che accadde dopo in ospedale ve l’ho già raccontato. Del camionista più nessuna traccia e la Polizia, nonostante le ricerche fatte, non riuscì mai a risalire a chi si era portato via la cosa più bella che un bambino abbia nella vita: l’amore dei propri genitori!
Nel ripensare a quell’evento mi rendo conto oggi, a quasi sessant’anni di distanza, del perché una delle mie grandi fobie fu, e purtroppo ancora oggi è, quella dei camion, tanto che quando uno di essi si accostava all’auto in cui viaggiavo, sia che guidassi io o che a guidare fosse un altro, cominciavo a sudar freddo e da bambino a strillare come un disperato!
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