Mi chiamo Ludovico Bonelli. Giornalista freelance. Trentacinquenne, single.
Questo testo racconta la storia di un uomo. Una storia come tante altre, oppure no. Una storia che andava raccontata.
Lui lo voleva, ma l’avrei raccontata anche se non me lo avesse chiesto.
Non sono stato tanto combattuto nella scelta del “Lo faccio o non lo faccio?”, quanto invece in quella del “Come lo faccio?”.
Sapete, raccontare una storia come questa, la storia che state per leggere, non è stato facile. La difficoltà è stata soprattutto nel trovare parole speciali, per una storia altrettanto speciale. Quando, però, si ha l’occasione di raccontare qualcosa che è così al di sopra delle righe, le parole nascono da sole. Così un giorno mi sono messo davanti al portatile, abbandonando a tempo indeterminato la mia professione e i miei articoli, e ho iniziato a scrivere.
A chiunque stia per intraprendere la lettura di queste pagine, auguro di trovare in se stesso la sua dote, capirla e metterla a disposizione della propria persona, ma soprattutto a disposizione del prossimo.
Così ha fatto Jaime e per questo non posso esimermi dal raccontare la sua storia.
PROLOGO
Il 2 aprile di quest’anno, il 2011, fui svegliato alle sei e trenta del mattino dallo squillo del mio cellulare. Non riuscii ad alzarmi e lasciai squillare il telefono, che non impiegò molto a smettere.
Un quarto d’ora dopo decisi che era ora di calar dalle brande e mi avvicinai al cellulare per controllare chi fosse lo scocciatore. Numero sconosciuto, per fortuna, e non privato.
Richiamai, ma era spento.
Mi avvicinai alla finestra, scostai le tende e mi accorsi che un fumo nero e denso si levava in cielo.
Vivo a pochi passi da piazza Diaz, ad Ancona, lungo il viale della Vittoria. Dalla mia abitazione, situata all’incirca a metà del viale stesso, riuscivo a vederne l’inizio e la fine. Il fumo proveniva dalla zona iniziale. Per gli anconetani il viale della Vittoria comincia subito dopo aver attraversato la strada che lo divide dal palazzo del comune e da quello delle poste, uno di fronte all’altro, e termina al Passetto con il Monumento ai Caduti e la grande scalinata che porta al mare.
Jaime era un mio coetaneo, spagnolo, che avevo intervistato solo qualche giorno prima. Avevo già buone offerte dalle testate locali. Essendo lui un personaggio molto noto, per quanto avvolto in un alone di mistero, sarei riuscito a guadagnare bene vendendo quel lavoro.
Ero stato contattato da Jaime stesso tramite una lettera, una di quelle che ultimamente non si vedono più in giro. La nuova tecnologia ha radicalmente cambiato il modo di rapportarsi; oggi con un clic in internet non è molto difficile reperire il cellulare di qualcuno, specie se questo qualcuno di professione fa il giornalista freelance e quindi ne trae vantaggio dall’essere facilmente contattato. Comunque – tornando a noi e tralasciando le mie considerazioni sulla nuova Era delle macchine – nella lettera mi richiedeva se poteva farsi intervistare e disse che mi avrebbe consegnato del materiale importante. Non esitai a rispondere a quella che sembrava presentarsi come un’occasione d’oro per un giornalista che vive di occasioni. Il perché era molto noto in città lo capirete in seguito, ma ora torniamo all’incendio.
Le autopompe dei vigili del fuoco che erano già sul posto illuminavano a intermittenze blu le prime ore della mattina. Decisi, da buon giornalista, di recarmi sul luogo dell’incendio. Indossai i primi indumenti che trovai, agganciai al guinzaglio Romeo, il mio cane, e ne approfittati per fargli fare la passeggiata mattutina.
Uscito di casa e attraversata la strada, cominciai a camminare al centro del viale, sotto un corteo di alberi che a breve avrebbero indossato l’abito primaverile.
Il cielo era sporcato da qualche nuvola poco gentile e propensa a lasciare una buona quantità d’acqua sulla città. L’aria fresca del mattino era in lotta con il diossido di carbonio sprigionato dal grande incendio che aveva svegliato la zona. Arrivai a un centinaio di metri dal luogo che era già stato transennato dai pompieri e che stava richiamando sempre più persone.
La torre della villa che stava finendo di bruciare era quella di Jaime. Era una bellissima costruzione di fine Ottocento che faceva angolo tra via Orsi, dove si trovava l’entrata del garage, e il viale della Vittoria dove era situato il cancello principale. Un muro e una ringhiera di cemento, entrambi di un grigio chiaro che uniformava il tutto, sovrastati da una siepe di circa un metro, rendevano l’ambiente interno della villa completamente isolato dalla realtà esterna.
All’angolo, la fila di piante andava a costruire un arco profumato da oleandri, rosa e bianchi, e fiori viola. Sotto l’arco, una panchina e una piccola fontana rendevano quel piccolo angolo un lascito fiabesco del romanticismo ottocentesco. Jaime chiamava quel luogo “il giardino dei pensieri”. La parte opposta non era nascosta dalla siepe, ma sovrastata da una grande magnolia e un’immensa palma che accompagnavano chiunque fosse entrato, con sguardo vigile e attento, lungo le scale fino alla grande porta d’entrata. Gli esterni erano dipinti di un bordeaux ormai sbiadito dagli anni. Dall’esterno si poteva dedurre che il primo piano fosse immenso, per poi passare a un secondo più piccolo, ma con un ampio terrazzo dalla parte che si affacciava su via Orsi. Sopra quel terrazzo, c’era l’unica stanza del terzo piano e la più importante di tutta la villa, dove Jaime incontrava le “sue donne”, come amava chiamarle; dove si spogliavano di tutto e si facevano imprimere nella tela, per sempre. Sopra quella stanza, però, c’era l’area più bella: il terrazzo panoramico sovrastato da un tetto in legno e tegole sorretto da otto colonne, due per angolo. Da quel punto, in due particolari momenti della giornata, alba e tramonto, l’immagine non poteva suscitare altro se non il sorriso di cuore e sensi per quanto bello e immensamente mozzafiato fosse lo spettacolo offerto dalla natura. Dal terrazzo del secondo piano si accedeva alla torre che comprendeva il terzo piano e la terrazza panoramica, la parte che stava andando a fuoco in quel momento.
Cominciai a preoccuparmi. Aumentai il passo e non lasciai possibilità di sosta a Romeo.
Terminata l’intervista, Jaime mi aveva poi consegnato un plico di lettere che mi aveva chiesto di aprire e, se avessi voluto, spedire solo nel momento in cui a lui fosse accaduto qualcosa. Non feci caso a quelle parole, rivelatesi ora tristemente profetiche.
In realtà, non potevo tirare queste conclusioni in quanto non sapevo nulla, ma di solito ero portato a pensare sempre al peggio. Così, munito di tesserino dell’ordine dei giornalisti sempre nel mio portafoglio, avvicinai uno dei vigili.
«Salve, mi scusi, cos’è accaduto?» chiesi preoccupato.
Uno sguardo veloce al tesserino che mostravo nella mano destra e il vigile, vistosamente contrariato a darmi informazioni, disse che i vigili del fuoco erano stati avvertiti da un passante che aveva dato l’allarme intorno alle sei e un quarto.
«Sapete se ci sono morti, feriti o intossicati?»
«Voi giornalisti dovete sempre tampinarci quando siamo più indaffarati?!» sentenziò scocciato.
In realtà, mi ero avvicinato proprio perché in quel momento non stava facendo altro se non guardare i pompieri all’opera. Decisi di non rispondergli e continuai a guardarlo per fargli intendere che aspettavo una risposta alla mia domanda, lecita, soprattutto perché non ero un semplice impiccione. Era una sfida di sguardi a chi cedeva prima. Il sopracciglio destro di quell’uomo era rimasto alto, mentre quello sinistro aveva accompagnato il suo occhio in uno sguardo inquisitorio e interrogativo. Si accarezzava nervosamente i folti baffi e le sue pupille castano-verdi cercavano di trovare la giusta angolazione per spaventarmi e farmi desistere.
«No, ancora nulla…» disse, accettando la sconfitta. «Un paio di vicini dicono di aver visto rientrare l’unico inquilino intorno alla mezzanotte.»
«Signore, all’interno, nell’unica stanza di quella torre, tutto è bruciato!» intervenne un pompiere. «Il fuoco ha mangiato tutto, i soffitti sono neri visto che le finestre erano tutte chiuse e il fumo non ha trovato vie di fuga. Degli interni non è rimasto altro che cenere. A prima vista sembra che ci vivesse un pittore…»
«Sì, è così. Trovato qualcuno?» chiese il vigile.
«No, signore, nessuno. La cosa strana, però, è che la porta fosse chiusa dall’interno. Comunque, noi terminiamo di spegnere gli ultimi focolai e poi mandiamo qualcuno per controllare la sicurezza della struttura. La villa era di fine Ottocento, se non erro.»
«Esatto» risposi intromettendomi.
«Può andare, ottimo lavoro, la ringrazio.»
Congedato il pompiere, il vigile volse lo sguardo verso di me, come se volesse farmi capire che era ora di togliermi di mezzo: «Allora? Ha sentito, no? Non hanno trovato nessuno al momento, nonostante qualcuno abbia visto rientrare il signor Cerezo. Su, vada».
Feci un cenno d’assenso col capo e porsi al vigile il mio biglietto da visita, pregandolo di farmi sapere qualcosa in serata. Sapevo che non lo avrebbe fatto, ma era mio dovere dargli quella possibilità.
Tornai dalle parti di casa allungando il giro fino a superare di poco lo stadio Dorico.
Se la chiamata di questa mattina fosse stata di Jaime? Gli orari più o meno coincidevano, così riprovai a chiamare quel numero. Era ancora spento.
Avevo messo quel plico di lettere che mi aveva lasciato in un cassetto della scrivania, nel mio studio. Avevo una piccola stanza al piano terra del condominio dove abitavo, che usavo come studio e condividevo con una giovane laureata in Storia Contemporanea.
Elisabetta, che si era laureata cinque anni prima, aveva conseguito un dottorato di ricerca ed era ancora in attesa di un lavoro. Il ministero non assumeva e un posto da insegnante, anche in supplenza, di quei tempi valeva più del tesoro di chi trova un amico. Forse anche più del Santo Graal. Grazie al patrimonio lasciatole in eredità dai genitori, tragicamente scomparsi pochi anni prima, divideva insieme a me quello studio che utilizzava come base operativa, nonostante fosse spesso fuori per ricerche e attività simili.
Sulla via del ritorno, vidi che le ultime autopompe se ne stavano andando, lasciando transennata la zona e riducendo il tratto di strada sottostante la villa a una corsia, invece che a due.
Riportato Romeo a casa, scesi in ufficio e feci qualche telefonata per iniziare a cavare i primi ragni da un buco che probabilmente si sarebbe rivelato molto profondo.
Polizia, carabinieri, vigili del fuoco, pronto soccorso, amici dell’ambiente, giornali che sapevano della mia intervista. Nessuno poteva dirmi più di quanto avesse fatto lo scorbutico vigile qualche ora prima. Così decisi di riprovare più tardi, se non addirittura il giorno dopo.
Forse avrei dovuto cominciare ad aprire quel plico di lettere che, secondo le sensazioni che avevo in quel momento, si sarebbe rivelato speciale. Ora, però, credo che sia giusto partire dal principio, raccontandovi come ho conosciuto quel pittore e, soprattutto, dirvi chi è Jaime Cerezo.
Nila Saraga (proprietario verificato)
Bellissimo libro, pochi mi catturano cosi. Di quelli che non ti stacchi fino a che non lo hai finito. Lo consiglio 👍