Il 31 dicembre del 1999 i napoletani non sembravano troppo impensieriti dal “baco”. Gelide decorazioni natalizie ancora strizzavano l’occhio ai passanti dalle vetrine delle attività commerciali in via Toledo, mentre gigantesche luci urbane vegliavano dall’alto sui ritardatari che rimettevano tutte le proprie fantasie culinarie nei pescivendoli, tenacemente ancora aperti. Con l’approssimarsi del countdown finale, per le strade e nelle case si percepiva un’insolita euforia. L’uomo, in una forma o nell’altra, ha sempre bisogno di credere in qualcosa e un millennio bis era prossimo ad affacciarsi dai calendari.
Una fine e un inizio possono generare illimitate possibilità di dimenticanza e alimentare le attese per quello che verrà, trascinando con sé il germe del timore dell’immutabilità. In fondo, il futuro non è altro che il nome che gli uomini danno alla speranza che le cose cambino o restino come sono.
Nel Medioevo, con il sopraggiungere dell’anno Mille, crebbe la paura della parusia, di una seconda venuta di Cristo, che sarebbe ritornato per presentare il conto agli uomini. La comparsa di una miriade di santoni millenaristi generò un’isteria comune in tutta Europa, ovvero ci si preparava al peggio. Questa volta, però, le persone erano pronte a un nuovo inizio, ma anche a qualcosa in più per le proprie vite e per il genere umano, e il 2000 si presentava come una gustosa occasione. Grazie soprattutto al flop delle previsioni catastrofiche dei precedenti dieci secoli, anche se solo simbolicamente, il Capodanno del ’99 appariva più degli altri come una stella cadente, al cui passaggio tutti quelli che si sarebbero trovati a guardare il cielo avrebbero affidato i propri sogni a una speranza fatta di luce.
Questi nuovi mille anni, come un asino da soma, furono caricati con pesantissimi sacchi di aspettative. La venuta del nuovo millennio fu salutata dalla città partenopea con sfolgoranti bombardamenti pirotecnici e fragorosi boati di bombe carta. Nel rumore assordante procurato dalle deflagrazioni all’unisono di migliaia di botti, erano udibili i colpi di pistola esplosi da scellerati cowboy improvvisati. I più incivili, con la scusa di liberarsi del “vecchio”, lanciavano dalle finestre ogni sorta di robaccia che avevano preventivamente accatastato sotto la finestra: dagli avanzi del cenone alle navigate suppellettili della casa, tra cui spiccavano i materassi con l’inconfondibile alone di urina, i water scheggiati e piccoli mobili sgangherati. Questa pioggia di oggetti ricordava con meno fierezza le scene viste in città durante la Seconda guerra mondiale, quando i nazisti furono cacciati via dal popolo a calci nel sedere. Dal largo di san Martino, sulla collina del Vomero, anche il centro storico, con il Vesuvio sullo sfondo, eruttava luci colorate: la polvere nera, abbinata al litio, al sodio, al bario e al rame, tinteggiava il fuoco di rosso, giallo-arancione, verde e blu. Una densa coltre di fumo grigio dal sapore sulfureo avvolgeva ogni elemento della città. Nei vicoli non si riusciva a distinguere il proprio dirimpettaio. Alcune esplosioni erano così forti da far tremare di spavento anche i muri delle case. Una persona non abituata all’esagerazione festaiola dei napoletani avrebbe potuto pensare che i vulcani della zona avessero deciso di risvegliarsi tutti insieme proprio quella notte.
Nel primo giorno del 2000 in città si sarebbero contati più di cento feriti a causa dei festeggiamenti, molti di più rispetto ai Capodanni precedenti.
Erano più di settecento anni, ovvero da quando gli angioini avevano deciso che Napoli sarebbe stata la capitale del Meridione, che la basilica di San Domenico Maggiore, edificata in quello stile gotico tanto caro ai francesi, regnava su quei vicoli che una volta formavano la rete stradale dell’antica Neapolis.
Le plateiai e gli stenopoi greci erano diventanti i decumani e i cardi romani, e in latino sarebbero stati ricordati a lungo.
Gli aragonesi, negli anni successivi, avrebbero creato uno slargo davanti all’abside della chiesa, in modo che “’a Regina”, come solevano chiamarla i napoletani, con la sua corona di tufo, potesse osservare imperturbabile la vita frenetica che si divincolava intorno a lei. Il convento era stato una fucina di ribelli del pensiero filosofico. Tra le sue mura san Tommaso D’Aquino aveva tenuto lezioni di teologia, mentre le sue stanze avevano ospitato studenti illustri come Giovanni Pontano, Tommaso Campanella e Giordano Bruno, il quale proprio qui si era imbattuto in una copia del proibito De rerum natura di Lucrezio, testo che contribuì a dare forma ardente alle sue elucubrazioni sull’infinito.
Padre Aspreno, da quando era stato designato bibliotecario del tempio domenicano, trascorreva la notte di san Silvestro in solitaria, fuori dalla sua cella, meditando e pregando nella vacuità della chiesa orfana di fedeli, nell’attesa e nel timore che fosse giunto il giorno per cui si preparava da tempo.
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