«Mi chiamo Alice Bower». La donna si avvicinò per stringergli la mano. «Le chiedo scusa se sono venuta fin qui e l’ho disturbata. Vorrei parlarle di una certa questione…».
«Non le ho detto ancora il mio nome. Come fa a dire che sono io Marco Herins?».
«Il suo cognome, Herins, è una garanzia: studente modello, lavoratore saltuario, vive nel suo piccolo monolocale fatiscente, a soli ventuno anni è laureando in storia medievale. Non sono in tanti ad avere il suo curriculum. E poi il suo amico ci ha lasciato soli…».
Marco rimase sorpreso da quelle parole. Tuttavia, continuava a nutrire diffidenza. «D’accordo, sono Marco Herins. Lei chi è? Che cosa vuole da me? Come fa a conoscere queste notizie sulla mia persona?», domandò piccato. Non sapeva se fidarsi o no.
«Ha ragione, mi deve scusare». La donna continuava ad avvicinarsi. «Rappresento la Fondazione Prisma. È un’organizzazione fondata per il recupero di reperti archeologici. Collaboriamo con gli studenti più meritevoli, premiamo la lena con cui si adoperano nello studio».
«Sembrate più una classe di mecenati che una fondazione no profit. Penso che questo recupero archeologico dovrebbe essere
condiviso con il resto del mondo. Inoltre non ho mai sentito nominare questa Fondazione Prisma, in nessun ritrovamento archeologico. Chi finanzia ricerche così onerose dovrebbe avere un minimo di titolo o risonanza. Non mi pare che il vostro nome sia mai stato menzionato. Come posso fidarmi di voi, e soprattutto cosa ci guadagnerei in cambio? Non sono un archeologo».
«Signor Herins, posso capire il suo parere. Posso assicurarle che la nostra fondazione desidera il meglio per cultura, però a volte preferiamo rimanere nell’ombra. E poi mi sarei prodigata a venire qui per nulla? È vero, abbiamo preso informazioni su di lei, ma è stato fatto a fin di bene. In questi mesi è stata intrapresa una collaborazione italo-belga, per scambi d’informazioni culturali e notizie su ritrovamenti archeologici».
«D’accordo, voglio crederle, ma cosa volete da me? Non sono ancora laureato, come potrei aiutarvi?».
Le labbra della donna erano socchiuse. Marco le guardò con ammirazione, sembravano un gioiello.
«Venga, usciamo». Alice sorrise.
Fuori dall’aula, Marco notò la presenza di due energumeni. Seguivano ogni loro passo. «Sono suoi questi angeli custodi?», domandò sarcasticamente con un cenno ai due uomini.
«Sì, sono con me. Sono miei collaboratori».
Aveva smesso di piovere, ma l’umidità nell’aria, il cielo plumbeo e il freddo annunciavano nuovi piovaschi.
«Marco». La donna chinò il capo. «Ho avuto l’onore di conoscere suo padre. Ci siamo conosciuti quando conduceva gli scavi archeologici in Italia… nella sua seconda terra di
origine, la Puglia. Un uomo straordinario. Il suo lavoro è stato eccellente. Ha dato un grande contributo all’umanità».
Il viso di Marco si adombrò. «Lo descrive come se lo conoscesse a fondo, ma ne è sicura? Non ci metta la mano sul fuoco, mi creda».
Alice comprese che quelle parole avevano incupito il ragazzo. Cambiò argomento. «Vuole che le parli del nostro progetto?».
«D’accordo, Alice… è così che si chiama, giusto?».
«Diamoci del tu, non bado a formalità», rispose lei in tono amichevole.
«Va bene, voglio ascoltarti. Il progetto e le tue parole sembrano “sinceri”, ma non voglio parlarne qui».
«Vogliamo fissare un appuntamento per questa sera? Solo tu e io?».
«Sì, va benissimo», disse Marco senza battere ciglia.
«Alle venti e trenta al Plaza Room ristorante, mi raccomando: puntuale».
Marco giunse al ristorante con qualche minuto di anticipo e osservò l’ambiente: tavoli imbanditi, profumi delicati di pietanze, i camerieri in divise scure e guanti bianchi. Si sentiva a disagio, anche l’abbigliamento dei commensali non gli apparteneva. Lui indossava jeans e camicia, con l’unico tocco di classe in suo possesso: una giacca nera, sfoggiata per le occasioni mondane. Era imbarazzato nel sentire il peso di sguardi inquisitori gravare su di lui.
Il maître si avvicinò. Il garbo e le poche parole che gli rivolse lo rasserenarono, ma fu una sensazione effimera. Disse
il suo nome al caposala, che controllò sulla lista, gli fece un cenno di cortesia e lo fece accomodare al tavolo.
Sopraggiunse Alice. Toltasi il cappotto, mostrava femminilità e sobrietà. Bella, elegante, seducente, indossava un vestito color porpora aderente che lasciava la schiena nuda, i piedi calzavano tacchi neri vertiginosi. La donna osservò Marco mentre si avvicinava al tavolo, poi si sedette con eleganza innata.
«Ciao, Marco, è tanto che aspetti?», domandò con un sorriso.
«Sono appena arrivato». Anche Marco le sorrise, tentando di reprimere l’irrequietezza.
Alice se ne accorse. «Sei elegante, ti dona la giacca. Beviamo qualcosa prima? O hai ancora da smaltire la sbornia di ieri sera?».
«Come, scusa…?»
«So riconoscere i postumi di una sbornia. Tranquillo, ogni tanto bisogna concedersi un po’ di svago». Gli fece l’occhiolino.
«Grazie, a volte devo evadere. Devo riconoscerlo, sei elegante anche tu. Del vino rosso andrà benissimo. A te la scelta».
Dopo alcuni bicchieri, il ghiaccio si sciolse e gli animi si rallegrarono: i fumi dell’alcool avevano già fatto effetto.
«Bene, veniamo a noi», disse Alice venendo al punto per cui Marco era seduto lì. Puntò le verdi iridi dritte negli occhi del ragazzo. «Sei un brillante studente. Abbiamo eccellenti valutazioni sulla tua persona, giudizi impeccabili. Ciò di cui ti parlerò è qualcosa legato alla tua laurea in storia medievale».
Marco era rimasto in silenzio, poi con curiosità, senza però abbandonare la diffidenza, domandò: «Di cosa si tratta?».
«Ha a che fare con i templari. La loro storia per certi versi può sembrare assurda». La sensualità della donna lasciò posto a una personalità impostata e più autoritaria. «Dalle nostre fonti e ricerche c’è una possibilità remota che le vicende dei templari non siano andate così come insegnerebbe la storia».
«A quale teoria o leggenda vi siete ispirati? Di leggende o miti sui templari ne esistono di svariati: l’arca dell’Alleanza, il sacro Graal, la Sacra Sindone…». Marco voleva sondare la conoscenza della donna sull’argomento.
Alice non era una semplice rappresentate in gonnella, per ammaliare il ragazzo giocò a carte scoperte. «Sappiamo tutti com’è andata. La prima crociata terminò con l’assegnazione della moschea di Al-Aqsa da parte di Baldovino I. Durante la seconda crociata scortarono gli eserciti francesi sino al porto di Antalya, per difenderli dagli attacchi dei turchi. La terza ebbe a capo Federico Barbarossa, Riccardo Cuor di Leone e Filippo II Augusto. Occuparono Cipro e Acri dove poi si stabilirono. Giusto, professore?».
Marco accennò un sì.
«La loro fine fu a opera, se ben ricordo, di Filippo il Bello. L’ordine si era inimicato l’imperatore, che chiese l’appoggio di papa Clemente V. Con la bolla Vox in excelso quest’ultimo ordinò la dissoluzione e lo sterminio, tra il 1312 e il 1314».
«Giusto, vedo che sei preparata sull’argomento. Però… c’è un però, giusto?».
«Dalle nostre fonti risulterebbe che non sia andata così».
Marco mandò giù un altro bicchiere. Poi rise.
Alice lo scrutò sorpresa. «Perché ridi?».
«Scusami. Va’ pure avanti, ti prego».
«Il nome Felipe de Monie ti dice qualcosa?».
«Sì, lo conosco. Fu una figura vicino ai templari… anzi, perché non me lo dici tu chi era in realtà?».
Alice decise di accettare la sfida. «Negli anni precedenti alla disfatta dell’ordine Felipe de Monie era un tuttofare, diciamo. Uomo dotto, curava trattative delicate tra i rappresentanti di governi. Era molto vicino al gran maestro Jacques de Molay. S’impegnò a mantenere vivi i rapporti tra curia e impero, facendo spola tra l’Italia e la Terrasanta».
Marco ascoltava in silenzio.
«Grazie ad alcuni devoti all’ordine, de Monie scoprì il malcontento che cresceva negli ambienti di corte, e che prosperava a causa del loro potere sempre maggiore, tale da paventare la caduta dell’imperatore. Tornò in Terrasanta e informò il tutto al gran maestro».
Mentre assaporava una succulenta bistecca, Marco interloquì: «Cosa fece il gran maestro assieme alla sua cerchia di cavalieri?».
«Ordinò di spostare molti dei loro beni in un posto più sicuro, lontano da occhi e orecchie indiscreti. Ti risulta, Marco?».
«Sì, è tutto giusto, pochi conoscono questa parentesi», rispose lui sorreggendo il mento con una mano.
«Tu sapevi tutto, quindi!».
«Sì, sapevo tutto. Volevo capire fino a che punto eravate voi al corrente. La frase Tan in via l’hai mai sentita?». Sorrise divertito.
Rispose Alice, per sedare quella che sembrava diventare una situazione rovente: «Indizi pochi, tutte le nostre capacità ci hanno portato a qualche supposizione, ma non riusciamo a venirne a capo».
«Lo credo bene», asserì Marco. «I templari non erano così ingenui».
«Sapresti indicarci tu la strada?», gli chiese Alice.
«Si narra che quando Felipe de Monie ricevette dal gran maestro l’impegno così gravoso, quest’ultimo pronunciò una frase, come se fosse un lasciapassare. Molti non sono informatidi questa vicenda, perché pochi assistettero a questo doloroso ma giustificato addio».
«Quale frase disse de Molay?», domandò Alice.
«Tan in via. Significa “segui la via”. Ne eravate a conoscenza?».
«Sapevamo che il de Molay disse qualcosa porgendo un oggetto al giovane de Monie, ma di preciso non sapevamo cosa», rispose Alice.
« Da dove dovremmo cominciare?».
«Dall’unico indizio che la storia ci abbia lasciato. La famosa frase Tan in via».
Posò sul tavolo una scatola color bronzo.
Marco aprì la scatola e al suo interno trovò qualcosa che lo sorprese.
Una spessa lastra di ferro su cui erano incise figure che avevano attinenza con le loro ricerche: un ottagono con inscritto un sole; al lato opposto una croce, ricordava lo stemma legato a un ordine monastico. Al centro un triangolo con all’interno una T rovesciata. Ciò che folgorò Marco fu la frase in cima ai tre simboli: Tan in via.Volle guardare la lastra da vicino, toccandola e soffermandosi sulla frase. Soltanto dopo averla studiata, si pronunciò: «Questa è la chiave di volta, ciò di cui si parlava.Il sito da dove cominciare le ricerche. San Pietro in Consavia ad Asti. Il triangolo con la T rovesciata al suo interno e la croce delle beatitudini sono segni di appartenenza all’ordine, mentre il sole inscritto in quell’ottagono è un chiaro segnale che il possessore, o a chi fosse destinata questa lastra come un lasciapassare, voleva comunicare qualcosa che non è comprensibile a tutti. Lasciate che vi spieghi. De Monie raggiunse le coste veneziane, forse come clandestino o con la complicità di qualcuno; in ogni caso sapeva che giunto sulle coste italiane avrebbe ricevuto asilo politico da qualcuno che comprendeva questi simboli. Non a caso questa è la stessa frase che il gran maestro Jacques de Molay pronuncia al suo pupillo».
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