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Il Sentiero delle Ombre

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Consegna prevista Dicembre 2025

Non impiegò molto ad accorgersi di essere seguito. Lo aveva udito bene quel rumore. Nel pallore di una luna velata dalle nubi, individuò una sagoma scura all’altezza di una lapide di cui nessuno ricordava neppure l’esistenza. Ogni volta che muoveva un passo, l’ombra faceva altrettanto.
Si spostava con agilità, come sapesse dove mettere i piedi. Ebbe l’impressione che avrebbe potuto raggiungerlo in pochi istanti, avesse inteso farlo. Eppure, quando si fermava l’ombra si fermava.
«Chi siete?», urlò. «Badate, sono armato!».
Si chinò e afferrò una pietra. Lo fece in modo che lo sconosciuto se ne avvedesse.
L’ombra si mosse. Altri due gradini. Ormai pochi passi separavano i due. Per un attimo emerse l’impulso di gridare. Arretrò, incespicò in una radice e cadde seduto. Chinò il capo tra le ginocchia e portò le braccia sopra la testa. Per un lungo istante percepì solo i colpi del cuore picchiare nelle tempie.
Quando trovò il coraggio di aprire gli occhi, lo sconosciuto era scomparso.

Perché ho scritto questo libro?

Per secoli il Sentiero, oggi segnalato da un cartello turistico, è stato percorso da generazioni di persone, per lo più contrabbandieri e finanzieri, alimentando storie e leggende.
Ho sempre pensato fossero favole. Fino a quando sono venuto a sapere ciò che ho raccontato in queste pagine. Una vicenda non solo ispirata a fatti accaduti, ma riportata anche dalla stampa locale.
Forse su quel Sentiero, una notte del 1862, accadde davvero qualcosa che neppure le conoscenze attuali saprebbero spiegare

ANTEPRIMA NON EDITATA

PROLOGO – REVORIASTAGNA – Primi di maggio 1862

Non impiegò molto ad accorgersi di essere seguito. Lo aveva udito bene quel rumore. Neppure il gocciolio dell’acqua e il sibilare del vento erano riusciti a coprirlo.

Ottavio De Giorgis, il falegname del paese, nel pallore di una luna velata dalle nubi individuò una sagoma scura all’altezza di una lapide di cui nessuno ricordava neppure l’esistenza. Ogni volta che muoveva un passo, l’ombra faceva altrettanto.

Percorreva di rado quel sentiero, se non quando era costretto a farlo per questioni di lavoro. Di quei luoghi, nelle serate invernali trascorse davanti al fuoco, gli anziani raccontavano di streghe, di sabba, di mostri che rapiscono i bambini cattivi. Storie di fantasia, nate con lo scopo di rubare i silenzi al crepitio della legna. Ma che resistevano ai secoli, alle generazioni. Ai ricordi.

Ansimando, il falegname raggiunse un larice e vi si aggrappò, in modo da non scivolare. Si voltò. Notò che l’ombra si era spostata. Si muoveva con agilità, come sapesse dove mettere i piedi. Ebbe l’impressione che avrebbe potuto raggiungerlo in pochi istanti, avesse inteso farlo. Eppure, quando si fermava l’ombra si fermava.

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Decise di salire ancora. Poco più in alto il tracciato cambiava direzione, puntando verso nord. In quel punto offriva un appoggio sicuro, che gli avrebbe permesso di fermarsi ad attendere il suo inseguitore.

Lo osservò inerpicarsi sul sentiero. Per un attimo emerse l’impulso di gridare. Ancora una volta, vedendo che Ottavio si era fermato, l’ombra si arrestò.

«Chi siete?», urlò il falegname. «Badate, sono armato!».

Accennò a voltarsi per riprendere a salire. Poi ci ripensò. Si chinò e afferrò una pietra. Lo fece con movimenti lenti, in modo che lo sconosciuto se ne avvedesse.

«Cosa volete da me?».

Questa volta l’ombra si mosse. Ottavio strinse la selce nella mano. Altri due gradini. Ormai pochi passi li separavano. «O vi decidete a rispondere o vi prenderete una pietra in fronte!».

«Ottavio, non dovresti andare in giro a quest’ora della notte».

Una voce stridula, nel pronunciare quel nome, ma profonda nel resto della frase. Come se a parlare fossero state due persone diverse. Un cappello calato sulla fronte celava il volto dello sconosciuto.

Ottavio dovette aggrapparsi a un arbusto per evitare di cadere. Puntò lo sguardo verso il basso, ma si pentì di averlo fatto. Ebbe l’impressione che due zoccoli sporgessero sotto al mantello al posto dei piedi.

«Come sapete il mio nome?». Arretrò di un passo, incespicò in una radice e cadde seduto.

Chinò il capo tra le ginocchia e portò le braccia sopra la testa. Per un lungo istante percepì solo i colpi del cuore picchiare nelle tempie.

Quando trovò il coraggio di aprire gli occhi, lo sconosciuto era scomparso.

ERBLATTEN – Maggio 1862

Gertrude chiuse la porta e infilò la chiave nella tasca della gonna. Afferrò un bastone, che l’avrebbe aiutata ad arrampicarsi sul pendio che portava al sentiero alto, allacciò l’ultimo bottone della maglia di lana che aveva infilato sopra al vestito e si incamminò.

Dopo uno strappo iniziale la pendenza si addolciva, e il sentiero correva ai piedi delle rocce che delimitavano il paesaggio. Si voltò verso la valle. Diede un ultimo sguardo alla baita dove viveva da anni e si accorse che Frangia, il suo pastore tedesco, era in procinto di arrampicarsi sul prato per seguirla. Lanciò un urlo per attirare la sua attenzione, poi con un gesto gli intimò di tornare indietro. Il cane si arrestò, reclinò il capo di lato e ubbidì.

Percorreva il sentiero alto una volta a settimana per portare la corrispondenza da una parte all’altra del confine. Il sentiero attraversava la valle passando sopra le case, sfiorando le prime propaggini delle montagne. Un secondo sentiero faceva lo stesso percorso più sotto, tra i boschi che delimitavano la vallata. Entrambi attraversavano il confine, quello svizzero e quello italiano. Le guardie di frontiera, che pattugliavano i boschi alla ricerca di contrabbandieri, conoscevano Gertrude e il più delle volte la ignoravano.

Riprese a camminare senza l’ausilio del bastone, considerato che in quel tratto il sentiero non presentava difficoltà. Fece pochi passi, poi dovette fermarsi. Non mangiava dal giorno prima, e le forze cominciavano a venir meno. Sperava di riuscire a trovare qualcosa, e magari di portare un tozzo di pane a Frangia, che a causa della scarsità di cibo versava in pessime condizioni. Si rialzò, tirò un lungo respiro, stette immobile per un istante in modo da sincerarsi di reggersi in piedi, poi si mise in movimento.
Privilegiava il sentiero alto per due motivi. Il primo perché era più breve, sebbene più impegnativo. Il secondo perché di rado succedeva di incontrare viandanti, e quindi evitava l’incombenza di dover salutare.

Da qualche mese c’era anche una terza ragione. Un uomo, italiano, che aveva preso a frequentare di nascosto, e con cui si incontrava a metà strada, in una zona dove dal percorso principale se ne staccava un secondo che, a ripide balze, portava a una radura circondata da rocce.

Quella mattina di maggio il sole era già alto quando la donna arrivò al luogo dell’appuntamento. L’aria era gelida. La neve tutt’intorno nelle ore più calde cominciava a sciogliere, ma era ancora presente su buona parte del terreno.

L’incontro con Renzo era per ogni martedì mattina. Lei arrivava dalla Svizzera, lui dall’Italia. La loro alcova era una stuoia di paglia, gettata sul terreno dopo aver rimosso la neve. Renzo non mancava di portare con sé qualche genere alimentare. Una sorta di contratto non scritto. Uno scambio di merce.

A Gertrude quell’uomo di quasi settant’anni non piaceva. Soprattutto, a non piacerle era il rischio che correva nel concedersi a un parroco. Sebbene non si trattasse del prete del paese, ma solo di un rimpiazzo mandato dalla Curia a sostituire il vicario ufficiale, da qualche settimana ricoverato in un ospedale di pianura, era pur sempre un sacerdote.

Il timore della donna non era solo quello di venire bollata come prostituta, ammesso che già non fosse considerata tale, ma anche di essere accusata di sacrilegio.

D’altro canto era una delle poche possibilità di sopravvivenza di cui poteva disporre. A parte la casa, il cane e una capra, lasciti del marito passato a miglior vita, non possedeva nulla. L’incarico di postina le fruttava poche decine di lire l’anno, riconosciutole dalla Regia Collettoria Postale, e qualche franco in capo alle Messaggerie Svizzere. Non abbastanza per consentirle di mangiare ogni giorno. Era consapevole di rischiare la morte per inedia. Avrebbe desiderato trovare un uomo da maritare, che la potesse mantenere. Ma la reputazione di cui godeva, vera o falsa che fosse, precludeva di fatto questa possibilità, sia con gli uomini del posto sia con quelli oltre frontiera.

Don Renzo arrivò puntuale, con il consueto bagaglio di mercanzia appresso. Il più delle volte si trattava di un pezzo di formaggio, che i parrocchiani gli consegnavano per dire una messa o per la festa del patrono. Qualche salume, un poco di latte. Era sempre stato generoso, gli andava riconosciuto. Anch’egli viveva della carità della gente, che di sicuro sarebbe venuta meno se si fosse scoperta la tresca. A giudicare dalle dimensioni del ventre, tuttavia, non sembrava passarsela male.

«Come va, Gertrude?» si limitò a domandare, quasi si sentisse in dovere di dire qualcosa prima di passare ai fatti.

La donna sciolse i capelli biondi, che teneva raccolti dietro la nuca. Sapeva che a Don Renzo piaceva così.

«Buongiorno» si limitò a ribattere, con spiccato accento germanico.

Il sacerdote la scrutò da capo a piedi, operazione che eseguiva a ogni appuntamento. Una sorta di rito, che a suo dire serviva per riscaldare l’ambiente. Gertrude era una donna sui trentacinque, ancora gradevole, seppur magra. La sua altezza era superiore rispetto a quella delle altre femmine della zona. Gli occhi chiari, insieme al colore dei capelli, rivelavano le origini nordiche. Proprio la sua avvenenza era spesso oggetto delle conversazioni maschili nelle osterie e di quelle femminili nel lavatoio del paese. La tedesca, la puttana bionda, la volpe, erano alcuni degli epiteti più frequenti. Era rimasta vedova dopo soli due anni di matrimonio. Il marito era morto contorcendosi dal dolore, forse per aver mangiato funghi velenosi. Qualcuno aveva messo in giro la voce che la moglie ne sapesse qualcosa, visto che aveva ereditato la baita e la capra. Nulla più che illazioni, considerato che le autorità elvetiche non avevano preso alcun provvedimento, ma comunque in grado di aggiungere all’elenco anche l’epiteto di avvelenatrice.

Abbassando gli occhi, tolse la sottana e si sdraiò sulla stuoia. Era abituata al freddo, considerato che di rado riusciva a procurarsi la legna per scaldare la casa. Don Renzo sfilò l’abito e le mutande, ma tenne addosso le calze e la canottiera. Si sdraiò sopra la donna.

Gertrude voltò lo sguardo di lato, e se ne accorse. Qualcuno li stava spiando, acquattato dietro a un masso. Respinse l’uomo, che si ritrasse indispettito, pronto a protestare per il venir meno dell’accordo pattuito. Senza proferire parola, con un gesto del mento lei indicò la pietra, e don Renzo si voltò in quella direzione, cercando con una mano di abbassare la canottiera e con l’altra di recuperare le mutande.

«Dio mio! Che vergogna!».

Afferrato l’abito talare lo portò sui genitali, piegando il busto in avanti in un goffo tentativo di coprirsi. Un ragazzo prese a correre sul sentiero, ridendo. Lo riconobbe. Era Fernando, il figlio del salumaio. Frequentava l’oratorio.

«Disgraziato!», urlò Don Renzo. «Aspetta che lo dica ai tuoi genitori!». Si rese conto dell’assurdità dell’affermazione. L’unica cosa in cui poteva sperare era nel silenzio del ragazzo, che a quel punto avrebbe dovuto comprare a caro prezzo. Si voltò verso la donna, che nel frattempo si era rivestita e teneva lo sguardo rivolto a terra.

«Mi dispiace», farfugliò il prete. «Chi poteva pensare che sarebbe arrivato fin qui? Deve avermi seguito. Ora lo vado a cercare e mi sincererò che non racconti nulla. Non temere, nessuno verrà a sapere di questa cosa. Non ci saranno conseguenze. Purtroppo, per un po’ non ci potremo vedere». Incespicò in una pietra e, allacciando gli ultimi bottoni, sparì in direzione del paese.

Rimasta sola, Gertrude recuperò la sottana, che Don Renzo nell’euforia del momento aveva scagliato sul ramo di un abete. Si rivestì. Infilò i calzari e fece per allacciare le stringhe. Ma gli occhi gonfi di lacrime le impedivano di vedere. Cercò di asciugare le guance con il palmo della mano, poi con l’orlo del vestito. Se l’episodio fosse diventato di dominio pubblico sarebbe stata additata come prostituta per il resto dei suoi giorni. Di sicuro, il sacerdote l’avrebbe accusata di essere una strega e di averlo irretito. Gli echi dei roghi erano un lontano ricordo, ma il marchio di strega l’avrebbe emarginata da qualsiasi attività, si trattasse di recarsi al lavatoio piuttosto che al forno per cuocere il pane. Oltre ai compensi del ministro di Dio, avrebbe perso anche quel poco che riusciva a guadagnare recapitando la corrispondenza.

Si mise seduta su una pietra, appoggiò i gomiti sulle gambe, piegò il capo e pianse.

2025-03-29

Evento

Trasquera (VB) Presentazione del libro IL SENTIERO DELLE OMBRE. Periodo storico, ambientazione, personaggi, riferimenti a fatti realmente accaduti. Un mio omaggio personale a tutti i presenti che avranno pre-ordinato il libro

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Roberto Zaretti
Roberto Zaretti nasce a Varzo, in Ossola, nel 1960. Risiede a Como.
Nel 1979 intraprende l’attività di scrittore tecnico e fonda la società editoriale EDIT. In campo letterario nel 2008 pubblica Il libro della Vita e Lavorare in Franchising, editi da Bruno Editore.
Dal 2009, per due anni, tiene una rubrica per il mensile Canale Formazione, un magazine dedicato al mondo della formazione.
Il primo romanzo è del 2010, si intitola Holzomono ed è pubblicato da Seneca Edizioni di Torino. Un romanzo storico ambientato nell’Ossola del XVI secolo, sotto la dominazione spagnola. Sei anni più tardi, nel 2016, pubblica un secondo romanzo, intitolato Il Momento di Volare.
La terza pubblicazione è del 2018. Si tratta di Relax Trading, un manuale tecnico che nel 2020 viene tradotto in lingua inglese per il mercato americano.
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