La neve cadeva lenta e i fiocchi si posavano come se il cielo volesse ricoprire ogni cosa. Annelise Fjell sentiva il gelo pungente sulla pelle, nonostante fosse ben coperta. Il vento le accarezzava il viso con una carezza crudele, portandosi via il calore residuo. Ma lei non si mosse, rimanendo ferma a osservare il fiordo sottostante poco più di 600 metri. Le acque nere erano immobili, come uno specchio che rifletteva un cielo grigio e senza vita. Per Annelise , quella distesa d’acqua rappresentava qualcosa di più di un semplice paesaggio. Era un confine, una linea sottile tra ciò che era stato e ciò che sarebbe potuto essere. Era partita da Oslo prima dell’alba, guidando senza una vera meta. Il bisogno di lasciare tutto alle spalle era diventato insopportabile nelle ultime settimane. Il lavoro, le responsabilità, le aspettative: tutto sembrava stringerle il petto come una morsa. Ogni chilometro percorso lungo le strade ghiacciate era stato un atto deliberato, come un rituale. Ogni curva, ogni tratto di asfalto scivoloso che tagliava la quiete bianca del paesaggio nordico, l’aveva avvicinata al suo scopo. La libertà che sentiva, se così poteva chiamarla, era quella di chi aveva smesso di combattere. Era una libertà fredda, distante… un passo, un unico passo che avrebbe annullato i chilometri percorsi, i ricordi, i dolori, tutto. Sotto di lei, il fiordo si apriva come un abisso senza fondo, immobile.
I suoi occhi vagarono sullo strapiombo, cercando un punto in cui il vuoto fosse perfetto, assoluto. Il fiordo scintillava in lontananza, un serpente argentato che si snodava tra le pareti rocciose, ma lei non vedeva la bellezza. Non la sentiva. Non più.
Il peso dei suoi pensieri, quelli che aveva cercato di lasciarsi alle spalle durante il viaggio, era più forte che mai. Le si aggrappavano alla pelle, al petto, come catene invisibili. Ma questa volta non c’erano promesse di un domani migliore, né speranze di redenzione. Solo la consapevolezza che tutto avrebbe trovato una fine in quel luogo.
Il freddo non le importava più. Guardava l’orizzonte con uno sguardo vuoto, come se cercasse un segnale, una conferma. Ma c’era solo il vento, il fiordo, e quel vuoto che sembrava invitarla con voce muta.
Avrebbe potuto essere tutto così semplice. Un passo. Solo uno. L’eternità era a un soffio, e la gravità avrebbe fatto il resto.
Annelise si accovacciò sulla neve, avvolgendo le ginocchia con le braccia. La neve sotto di lei era gelida, ma non tremava. I ricordi la travolgevano come un’onda gelida. Pensò alla sua infanzia, a quando suo padre la portava in montagna per insegnarle a sciare. Era un uomo severo, ma giusto. Ogni lezione era accompagnata da parole di incoraggiamento che sembravano dure, ma nascondevano un affetto profondo. Sua madre, invece, era sempre stata più distante, più concentrata su se stessa e sul mantenere un’apparenza impeccabile. Annelise aveva spesso avuto la sensazione di essere una figura marginale nella vita di sua madre, un accessorio che doveva semplicemente funzionare senza fare troppo rumore. Crescere in quella famiglia l’aveva resa forte, o almeno così aveva pensato per molti anni. Aveva costruito una carriera brillante nel settore della cybersecurity, lavorando per aziende di prestigio internazionale. Era diventata una leader rispettata, una donna che non si fermava davanti a nulla. Ma quel successo aveva avuto un prezzo. Le notti insonni, le relazioni fallite, la solitudine che la divorava dall’interno: tutto ciò aveva scavato un vuoto che nessun traguardo professionale poteva colmare. Il fiordo sotto di lei sembrava chiamarla, la sua superficie nera e immobile era ipnotica. Annelise si chiese cosa ci fosse al di là di quelle acque. Non in senso geografico, ma in senso simbolico. Era come se il fiordo fosse una porta verso qualcosa di sconosciuto, un luogo dove il tempo e lo spazio non avevano significato. Sentiva il richiamo, ma allo stesso tempo ne aveva paura.
Un rumore improvviso la fece sobbalzare. Si girò di scatto, cercando di individuare la fonte. Tra gli alberi, una figura si stava avvicinando. Era un uomo, alto e robusto, con una barba folta e un cappello di lana tirato giù fino alle sopracciglia. Portava uno zaino e un bastone da trekking, e ogni suo passo sembrava calcolato, come se conoscesse bene il terreno. Annelise rimase immobile, incerta su cosa fare. Non era abituata alla presenza di estranei, soprattutto in situazioni come quella. Il suo primo istinto fu quello di alzarsi e allontanarsi, ma qualcosa la trattenne.
“Ehi,” disse l’uomo con un sorriso leggero. La sua voce era calma, il tono amichevole.
“Ehi,” rispose Annelise , cercando di mantenere un tono neutro. Non era sicura di volere compagnia, ma non voleva nemmeno sembrare scortese. L’uomo si fermò a pochi passi da lei, guardandola con curiosità.
“Sei qui da sola?” chiese, senza alcuna traccia di giudizio nella voce.
“Sì,” rispose Annelise , stringendo le braccia intorno al corpo per il freddo. “E tu?” Lui annuì. “Anche io. Mi chiamo Eirik.”
“Annelise ,” rispose lei, senza stringergli la mano. Eirik sorrise di nuovo, un sorriso che sembrava nascondere qualcosa.
“Questo è un buon posto per pensare,” disse, indicando il fiordo con un cenno del capo.
“Già,” rispose Annelise , senza aggiungere altro. Non era sicura di voler condividere i suoi pensieri con uno sconosciuto. Ma Eirik non sembrava avere fretta di parlare. Si sedette sulla neve, a una certa distanza da lei, e si mise a osservare il fiordo. Era come se sapesse che il silenzio era la cosa di cui entrambi avevano bisogno. Il tempo passò, ma Annelise non lo percepiva. Era come se fosse intrappolata in una bolla, un luogo dove il passato e il presente si mescolavano. Ricordi di infanzia riaffioravano, mescolandosi con i suoi pensieri attuali.
Il volto di suo padre, severo ma giusto. Il sorriso di sua madre, sempre così distante. E poi, le persone che aveva perso lungo la strada. Amici, colleghi, amanti. Ognuno di loro aveva lasciato un segno, una ferita che non si era mai del tutto rimarginata.
Mentre Eirik parlava, la voce si fece distante, sfumando in un riverbero che risuonava nell’aria, e Annelise si trovò improvvisamente catapultata in un altro tempo, un altro luogo. La nonna, la sua nonna, seduta vicino alla finestra, le mani sempre in movimento mentre intesseva con maestria la lana per creare cappelli norvegesi. Cappelli che non vendeva mai, li regalava, come se la sua generosità fosse un dono sacro, quasi un incantesimo. Annelise la vedeva così, con i suoi occhi dolci e pazienti, sorridendo ogni volta che le chiedeva di insegnarle, ma lei non riusciva mai a imparare. Le sue mani si intrecciavano goffe e nervose, incapaci di riprodurre quei gesti così semplici, eppure così impossibili. Ogni volta, la nonna si chinava su di lei con calma, ripetendo, ma Annelise non riusciva a concentrarsi. Sembrava non volerlo, sembrava disinteressata, ma nel profondo, lo sapeva. La voglia di imparare bruciava in lei come una fiamma silenziosa, un desiderio di riuscire che non aveva mai avuto il coraggio di ammettere a voce alta.
Quella sensazione di impotenza, di non essere abbastanza, di non essere capace, tornava a tormentarla ancora oggi, come una cicatrice invisibile. Ma la nonna non l’aveva mai giudicata, nonostante tutto. Eppure, adesso, con il ricordo di quei cappelli che non aveva mai imparato a fare, sentiva come se una parte di lei fosse rimasta lì, congelata nel tempo, senza riuscire mai a liberarsi da quella frustrazione. Il volto della nonna, sereno e serafico, le sorrideva ancora, mentre Annelise provava a ricucire i fili spezzati della sua memoria.
“Non è facile, vero?” disse Eirik, interrompendo i suoi pensieri.
Annelise lo guardò, sorpresa. “Cosa?”
“Affrontare se stessi.”
Quelle parole la colpirono come un pugno. Non rispose, ma il suo sguardo parlava per lei. Eirik annuì, come se avesse capito tutto. Non c’era bisogno di spiegazioni.
“Non sei l’unica,” disse lui. “Tutti veniamo qui per lo stesso motivo, alla fine.”
“E quale sarebbe?” chiese Annelise , con un tono più duro di quanto intendesse.
“Per trovare pace. O per fare pace con qualcosa.”
…
Capitolo 2
La voce che non esce
(Flashback)
…
“Chi sa risolvere il problema numero tre?” chiese, guardando intorno. Il suo sguardo scivolò sui volti dei compagni, ma sembrava che nessuno sapesse la risposta. La tensione aumentava, l’aria si faceva pesante, e io sapevo la risposta. La sapevo bene. Ma qualcosa mi tratteneva. La mia mano, che sapevo avrebbe dovuto alzarsi, rimase schiacciata contro il banco, immobile.
Perché non riuscivo a sollevarla? Perché non potevo, come se un peso invisibile mi schiacciasse la spalla, come se qualcosa dentro di me si ribellasse. Ogni pensiero che cercava di spingermi a rispondere sembrava svanire, cancellato dalla paura che cresceva come un mostro nel petto. Ogni battito del mio cuore mi sembrava un tamburo che suonava per tutti, un rumore che mi faceva sentire più esposta. La vergogna mi avvolgeva, senza motivo apparente, come un velo che mi sprofondava sempre più nel buio. Non c’era una ragione logica per sentirmi così, eppure la vergogna c’era, tangibile, pesante come un macigno che mi schiacciava la gola, bloccandomi. Mi sembrava che tutta la classe mi stesse guardando, anche se nessuno mi stava veramente osservando. La mia mente urlava, ma la mia bocca non riusciva a emettere neanche un suono.
…
La gentilezza nella voce della maestra fu peggio di una frustata. Ogni parola era dolce, certo, ma quel dolce mi bruciava dentro, come miele caldo versato su una ferita aperta. Non volevo deluderla, davvero, ma qualcosa in me si era spezzato. E non riuscivo a muovermi, a parlare. Era come se fossi intrappolata in una gabbia di vetro, con tutti che guardavano dentro. Sentivo gli occhi dei miei compagni su di me, spilli che mi perforavano la pelle. Ogni sguardo gridava: “Hai fallito.” Li sentivo anche se non li vedevo, come se mi scavassero dentro. Paralizzata. Schiacciata. Soffocata.
Il fiato mi si fermava in gola, pesante come un nodo di ferro. La paura di sbagliare era una bestia che mi stringeva il petto con le sue zampe artigliate, e il terrore di essere derisa era un’ombra nera che mi sussurrava all’orecchio.
Alla fine, la maestra sospirò. Il suono sembrava venire da un altro mondo, lontano e cupo. “Torna pure al tuo posto. Ne parleremo dopo.”
Quelle parole non erano una via d’uscita. Erano una condanna. Mi trapassarono il cuore come un coltello gelido. Mentre tornavo al banco, con la testa bassa e il cuore che batteva come un tamburo rotto, qualcosa mi sembrava sbagliato. Ogni passo era un incubo rallentato, come se il pavimento volesse inghiottirmi. Gli sguardi erano ancora lì, appesi alla mia schiena come mani fredde. Ma forse erano solo nella mia testa. O forse no.
Arrivata al mio posto, mi accasciai sulla sedia, cercando di scomparire, di diventare un’ombra. E proprio in quel momento la vidi: una matita appuntita, scivolata sul bordo del banco, pronta a cadere. Non so perché, ma la vista di quella matita mi fece gelare il sangue. Era come se il mondo avesse trattenuto il fiato per un istante. Mi mossi d’istinto, la mano tesa per afferrarla, per fermare la caduta.
Solo che qualcosa andò storto.
La matita, affilata come una lama, non cadde a terra. No. Si conficcò nella carne morbida della mano del mio compagno di banco.
Lo sentii prima che lo vidi: un suono soffocato, un urlo trattenuto. Poi lui guardò giù, alla sua mano, e io seguii il suo sguardo. La matita era lì, con parte della punta dentro, con il legno che sembrava brillare nel sangue che cominciava a scivolare fuori, lento, rosso scuro.
“Oh mio Dio…” sussurrai. La mia voce tremava. Forse stavo tremando tutta. Non lo so. Lui mi guardò, gli occhi sgranati, pieni di qualcosa che non riuscivo a decifrare. Dolore? Rabbia? Paura?
“La tua… matita!” balbettò, la voce spezzata.
Mi venne da ridere. Non perché fosse divertente. Era una risata strana, nervosa, come un singhiozzo soffocato.
“Mi dispiace!” gridai, ma la mia voce suonava vuota, come un’eco in una caverna. Cercai di tirare via la matita, ma lui ritrasse la mano di scatto, urlando stavolta sul serio. Un suono acuto che spezzò il silenzio della classe come vetro infranto.
…
Antonio Cecere
“Non hai paura di cadere. Hai paura di scoprire che potresti volare”
Il romanzo “Il sussurro del fiordo” affronta temi profondi legati alla crescita personale, alla paura e all’accettazione di sé. La morale principale del libro ruota attorno al concetto di affrontare le proprie paure e vulnerabilità per trovare una vera libertà interiore. La protagonista, Annelise, si trova di fronte a sfide non solo tecnologiche e professionali, ma anche interiori, imparando che la forza non sta nel controllare tutto, ma nell’accettare anche le parti oscure di sé.