ANTEPRIMA NON EDITATA
1. Dal fallimento al ponte della rinascita
Il viaggio che ci ha condotti in questa città è stato lungo e straziante.
Era il 18 febbraio del 2013. Avevamo noleggiato un furgone per il trasloco, di quelli grandi, difficili da governare per uno abituato alle auto piccole. Io guidavo avanti, da solo, mentre mia moglie mi seguiva con la nostra macchina insieme ai nostri due figli, all’epoca piccolissimi: Andrea aveva tre anni e Luna poco più di uno.
Durante il tragitto regnava un silenzio innaturale, come se l’A1, anziché condurci a Reggio Emilia, ci stesse portando in una destinazione buia e inospitale, pronta a fagocitarci. Percepivo le lacrime di mia moglie mentre ci stavamo allontanando dalla nostra prima casa. Una casa che avevamo voluto, amato, e nella quale erano nati e cresciuti i nostri figli.
Modesta, sì, ma nostra. Ci aveva ospitati per circa sette anni, durante i quali ci eravamo impegnati ad arredarla e a renderla un ambiente accogliente. C’era un bel giardinetto che avevo curato con il mio pollice verde e aveva accolto i nostri amici per delle grigliate di carne, pieno di alberi da frutto e fiori, con un prato inglese e una piscina montabile blu della Intex, molto utile per alleviarci dalla calura estiva in quelle insopportabili giornate afose.
È sempre difficile lasciar andare ciò che si è amato così tanto. Ma la vita non è mai un percorso rettilineo, privo di ostacoli. Quando ne compare uno, bisogna saperlo saltare.
Bisogna accettare il cambiamento senza voltarsi indietro, perché se non lo fai, rischi di restare imprigionato nelle abitudini di una vita incentrata sulla paura e la rassegnazione.
Così, con la speranza che quell’autostrada ci stesse conducendo verso una vita migliore, o quantomeno più vicina alle nostre prospettive lavorative, guidavo senza neppure guardare lo specchietto retrovisore per il timore di scorgere un passato che stavo tentando di lasciarmi alle spalle.
Ancora non sapevo se quella scelta fosse giusta o avventata. Forse dettata da un impeto di rabbia, o da un’innata voglia di respirare un’aria nuova. Gente nuova. Strade nuove. Discorsi nuovi. Ce l’avrei fatta a sostenere tutto questo?
A pensarci bene, non ricordo nemmeno se fu una decisione veramente ponderata, o solo il frutto di una lunga gestazione interiore, di un malessere così soffocato da togliermi ogni progetto per il futuro.
Mi sentivo spento.
Avevo trascorso gli ultimi due anni tra un’esperienza lavorativa allucinante con mio cugino e un’altra al ristorante che avevamo preso in gestione, dilapidando tutti i nostri risparmi e sprecando ogni singola cellula del mio corpo tra quelle quattro mura, cercando di accontentare ogni cliente che entrava, dimagrendo dieci chili per la malnutrizione, lo stress, i problemi da risolvere, le fatture dei fornitori da pagare e, dulcis in fundo, tra le divergenze di idee con mio fratello Stefano, che gestiva il locale con me, procurandomi una fitta alla bocca dello stomaco costante.
Non fraintendetemi: non è stata un’esperienza del tutto negativa.
Custodisco ricordi molto belli delle persone che ho avuto il piacere e l’onore di incontrare in quel luogo.
Come Aldo e Gigliola, che erano diventati clienti abituali e mi arricchivano con i loro racconti e la loro immensa cultura. Gigliola ordinava sempre una fetta di pastiera napoletana, prima di lasciare il locale.
O come Lisa, l’ex ballerina russa che aveva danzato alla Scala di Milano ed era stata amica intima di Federico Fellini, il quale le aveva regalato un carrozzone usato in uno dei suoi film. Lisa lo custodiva nel grande giardino di casa e lo mostrava solo agli amici più stretti.
Io ero tra questi.
O come i Natali e i capodanni festeggiati con la mia famiglia, i miei genitori, mio fratello, le nostre cameriere e i clienti che decidevano di onorarci della loro presenza, a ballare intorno ai tavoli, a cantare a squarciagola con Marco, il cantante che chiamavamo per questi eventi, a scambiarci gli auguri allo scoccare della mezzanotte e ad ammirare con tenerezza i miei figli dormire nel magazzino come dei ghiri, nonostante il frastuono e i fuochi d’artificio provenienti da fuori.
E poi c’erano i complimenti quotidiani di chi scopriva, in mezzo a un bosco di castagni secolari, un’ottima cucina di pesce mediterranea.
Io e mio fratello Stefano avevamo compiuto un’impresa titanica: riportare ai vecchi fasti un ristorante ormai screditato dalle precedenti cattive gestioni.
Insomma, pur amando quel mestiere a me inizialmente sconosciuto, come ho amato quasi tutti i lavori della mia vita, il bambino con lo sguardo incantato, il ribelle, l’anticonformista che aveva scelto studi artistici e sognava di diventare un artista, era diventato invisibile.
Ero tristemente ordinario, e senza accorgermene avevo messo da parte i miei sogni, soffocati da un senso di responsabilità più grande.
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Quando siamo arrivati in prossimità della nostra uscita, la prima cosa che mi ha colpito è stato il ponte centrale di Reggio Emilia (conosciuto anche come Ponte di Calatrava): un ponte imponente e modernissimo, lungo 221 metri, progettato da uno degli architetti più famosi della Spagna, Santiago Calatrava.
Quella visione mi ha suggerito che Reggio Emilia non era un piccolo paese dal quale stavamo scappando, ma una città abbastanza grande da riuscire a contenere la mia curiosità.
Ma a parte queste suggestioni architettoniche, tutto il resto ci sembrava estraneo.
Lontanissimo.
Nei primi giorni abbiamo vagato come zombie per le strade del centro storico, cercando quel senso di appartenenza che sarebbe arrivato solo molti anni dopo.
Un trasloco è come una separazione: per settimane, a volte mesi, ti trascini dietro un peso gigantesco. Gli sguardi dei passanti sembrano giudicarti, come se ciascuno dicesse: Chi sei? Che ci fai qui? Tornatene indietro, questa non è la tua città.
Ti senti rifiutato da un mondo che non ti appartiene, perché a prevalere è la tristezza, uno stato d’animo perennemente negativo.
Non vi nascondo che, in quel periodo, ho pensato più volte di aver commesso un grave errore. Di aver condannato mia moglie e i miei figli a causa di una decisione presa, in fondo, per un mio capriccio.
A complicare quel grigiore umorale fu anche il lavoro da caposala che trovai fortunosamente in una nota pizzeria della zona che poi ha chiuso. Mi assorbiva totalmente. Dopo il primo mese di lavoro, i due proprietari mi comunicarono che non avrei ricevuto lo stipendio, e che avrei dovuto aspettare il mio turno.
Il mio turno, capite?
Tutto ciò accadeva mentre loro giravano in macchine costose e sperperavano denaro in futilità.
Potete immaginare com’è andata a finire quella storia della pizzeria: non potevo aspettare i comodi di quei due furbetti, avevo una famiglia da mantenere. Così, senza troppa esitazione, ho lasciato il lavoro da caposala.
Per i tre mesi successivi mi sono dovuto umiliare, andando a elemosinare quello stipendio che mi era stato negato. Me lo diedero poco alla volta, come fosse una tangente.
Nel frattempo, abitavamo temporaneamente con i miei genitori e mio fratello Dario, che già vivevano a Reggio da un po’ di tempo. Ma avevamo perso completamente la nostra privacy, le nostre abitudini familiari, l’equilibrio che ci eravamo costruiti.
Io ero nervoso, sgarbato con mia moglie e con i miei figli. E questa è una cosa che ho odiato.
Credo che quello sia stato il periodo più mortificante. Avevamo così pochi soldi che una volta, convinto di avere credito sulla carta, portai mio figlio Andrea al McDrive per fargli una sorpresa. Dopo aver ordinato, mi accorsi di non averli.
Non dimenticherò mai il suo sguardo quando gli dissi che non potevamo più prendere l’Happy Meal perché avevo dimenticato i soldi a casa. Fu la prima scusa che mi venne in mente. Non potevo dirgli che suo padre era sopraffatto dalle preoccupazioni tanto da essersi dimenticato di controllare il conto, prima di uscire.
È strana, la vita.
Ti mette in ginocchio, poi ti costringe a fare una scelta: soccombere o reagire. Io decisi di reagire, lo feci vendendo alcuni oggetti di valore, tra cui un portatile bianco in buone condizioni che mi servì per acquistare la mia prima macchinetta per tatuaggi. La conservo ancora, su una mensola del mio studio come una reliquia.
L’idea di tatuare mi era venuta guardando in tv programmi come L.A. Ink e Miami Ink, e leggendo riviste specializzate. Ero affascinato dalle storie dei clienti che si recavano in quegli studi americani pieni di oggetti strani appesi alle pareti, e da quello stile di vita libero e creativo dei tatuatori. Col senno di poi, ho capito che quei programmi erano mistificati, costruiti per lo spettacolo.
Una delle star, Kat Von D – acclamata tatuatrice e icona mondiale del settore – si è persino fatta rimuovere i tatuaggi sul collo, contraddicendo il principio fondamentale di questo mondo: essere un segno indelebile, da non rinnegare.
Avrà avuto i suoi buoni motivi, ma dopo aver edificato la sua fortuna sulla divulgazione del tatuaggio e averla sentita dire spesso ai clienti che visitavano il suo studio che il tatuaggio è sacro, non è stata un buon esempio di coerenza.
Ma se non avessi creduto all’empatia che traspariva da quelle storie, idealizzandola, forse non avrei mai intrapreso questa nobile professione. Come si dice: non tutti i mali vengono per nuocere.
Quando dissi a mia moglie che volevo diventare tatuatore, non era molto d’accordo. Temeva fosse una perdita di tempo, un inutile dispendio di energie. Sperava piuttosto in un posto fisso, che ci permettesse di uscire dal pantano e ritrovare un pò di serenità familiare. E non potevo certo darle torto. L’avevo convinta io a trasferirsi, lasciando le poche certezze che avevamo costruito a Bracciano. Questa è stata una delle leve motivazionali più forti che mi ha spinto a impegnarmi, con una fame quasi implacabile. Volevo apprendere tutto il possibile e dimostrarle che si sbagliava.
Ma non era l’unica spinta.
All’epoca avevo quasi quarant’anni, e sognavo di essere un artista da quando ne avevo dieci. In quei trent’anni di vita spesa prevalentemente a rincorrere me stesso, avevo accumulato tante esperienze artistiche: molte delle quali gratificanti. Tutte mi avevano insegnato qualcosa, e tutte mi dicevano che quella era la mia strada. Dovevo solo seguirla. Dovevo realizzare il mio daimon – come direbbero i Greci – facendo finalmente la cosa giusta. Superando il timore di rischiare, di fallire, un’altra volta.
Perché, per inseguire i propri sogni serve un pizzico di sana follia. Non sempre ciò che desideriamo si realizza, ovvio. Ma la sofferenza che provavo io in quel periodo ha dato una spinta, un’energia nuova. Mi ha messo alle strette, e mi ha permesso di tentare il tutto per tutto.
Potrà sembrarvi banale – ma per me e la mia famiglia non lo è -, c’era una canzone di Renato Zero che ascoltavamo sempre in macchina in quel periodo nero. Era il nostro leitmotiv, il nostro piccolo inno alla rinascita.
La canzone si intitola La vita che mi aspetta.
Una delle strofe diceva:
“Ma la vita che mi aspetta non mi fa paura,
il domani che mi aspetta non mi fa paura.
C’è una forza che fa superare ogni barriera,
così vera e dura come una preghiera.
È la vita che mi aspetta… e non mi fa paura.”
Quando oggi ci capita di riascoltarla, restiamo tutti in religioso silenzio. Quella musica, in qualche modo, ci ha traghettati dall’altra parte del fiume. Ha messo in salvo me, e con me la mia famiglia.
Un traghettamento che non è avvenuto immediatamente, ma che ha richiesto il suo tempo. Per riuscire a guadagnarmi un “nome” in una Reggio Emilia già affollata di tatuatori, più o meno bravi, ho dovuto avere tanta pazienza: i reggiani non erano pronti ad accogliere un nuovo esponente della tattoo art proveniente dal sud e mi guardavano, comprensibilmente, con diffidenza.
Una volta scelta e acquistata la macchinetta, una Cheyenne Thunder color alluminio, e tutto il necessario per muovere i primi passi, avevo bisogno di informazioni pratiche, perché di quelle teoriche avevo fatto incetta dalla TV, dalle riviste di settore e dai libri. Puntai quindi sulle convention di tatuaggi, che all’epoca non erano così numerose e frequenti come oggi.
La prima convention alla quale ho partecipato in veste di “visitatore apprendista tatuatore” è stata quella di Roma. Quando ho messo piede per la prima volta in quel circo variopinto di personaggi eccentrici e inquietanti, non ho avuto una buona impressione, lo ammetto. Ero disorientato, perché da alcuni ero attratto, in quanto mi rimandavano vibrazioni positive; altri mi sembravano proprio usciti da un film horror e mi facevano paura.
Alcuni stand particolarmente funerei esibivano teschi, cuori trafitti e campioni di pelle sintetica o animale, utilizzati per esercitarsi, dentro ad alcuni barattoli di vetro illuminati, che davano la sensazione di trovarsi su una scena del crimine, a casa di un serial killer che aveva conservato pezzi di carne delle sue prede.
Insomma, faticavo a identificare una qualche sensazione buona, probabilmente perché mi ero fatto un’idea del tatuaggio più rassicurante. Ciò nonostante, avevo trovato appiglio in alcuni stand dove gli artisti stavano realizzando un tatuaggio realistico, e mi ero fermato per osservarli con meticolosa attenzione ai particolari. Scrutavo ogni movimento per carpire i segreti di quei gesti così precisi e così sicuri.
Mi sembrava di stare nel Paese delle Meraviglie, dove io ero un’Alice curiosa e vivace, mentre loro erano il Bruco saggio e misterioso che fuma narghilè.
Sono sempre stato bravo ad apprendere osservando. Ricordo che, quando appena quindicenne mi recavo nell’atelier del mio primo e grande maestro di pittura, riuscivo a memorizzare la sua tecnica e a riprodurla molto fedelmente a casa. Tanto che lui stesso, vedendo i miei quadri, si rese conto che avevo questa singolare qualità.
Per questa ragione non ci misi molto ad appropriarmi delle basi tecniche del tatuaggio, ma ci vollero almeno una decina di convention dislocate in varie regioni d’Italia per riuscirci davvero. E naturalmente, questi viaggi – che facevo quasi sempre in solitaria – mi costarono sia in termini economici che personali.
Le ultime convention le feci in compagnia di Raffaele, un ragazzo che si era mostrato da subito interessato alla mia avventura e che era appassionato anche lui a quel mondo. In seguito siamo diventati buoni amici.
Le convention si concentravano nei fine settimana, e per poterle raggiungere ero costretto a viaggiare per centinaia di chilometri, lasciando mia moglie e i miei figli da soli.
Sacrifici, Luca, sacrifici!
Questo era il mantra che mi ripetevo mentalmente ogni volta che ero costretto ad allontanarmi per studiare. Sì, perché avevo preso seriamente la faccenda delle convention. Le vivevo come una scuola vera e propria, dove mi recavo per “stalkerare” gli artisti presenti.
Non sempre la mia diligenza veniva apprezzata, e ricordo che una volta un noto tatuatore italiano – di cui non farò il nome – mi allontanò in malo modo dalla sua postazione perché, a detta sua, gli davo fastidio. Ma fortunatamente, nella maggior parte dei casi, la mia presenza non veniva vista come una minaccia.
Oltretutto, all’epoca non esistevano tutti quei corsi o accademie di tatuaggio che oggi si fa fatica a distinguere. E se c’erano, vi confesso che non mi sono mai interessato più di tanto a cercarli. Ciò che riuscivo ad apprendere dall’osservazione mi bastava, mi appagava, e dava i suoi frutti.
I primi esercizi che facevo sulla cotenna – la pelle di maiale – non erano così terribili. Quello che invece era terribile, anzi nauseante, era la puzza di quella pelle, che a volte, distrattamente, dimenticavo di buttare nel pattume. L’odore ristagnava nella piccola stanzetta del garage che avevo adibito a studio, uno spazio che misurava tre metri quadrati e il giorno dopo non si riusciva a metterci piede.
Anche se sono passati tanti anni, quella puzza non la dimenticherò mai più.
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