CAPITOLO UNO
14 aprile 1978
«Cristo, ma è una pazzia!»Quando, qualche giorno prima, si erano incontrati, Andrea era preparato a tutto. Almeno così pensava. Nell’istante in cui Teresa era giunta alla conclusione dei suoi ragionamenti, però, non era riuscito a trattenersi. Era balzato in piedi abbandonando il comodo divano di pelle marrone dove era rimasto inchiodato tutto il tempo. Nello stesso momento Teresa aveva pensato di aver fatto bene a chiedere a Margherita di lasciarle il suo appartamento per qualche ora, visto che in un altro posto, come un bar, non sarebbero passati inosservati.
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Sul volto di Andrea erano dipinti i lineamenti della costernazione e dello stupore assoluti. Lei non si era mossa. Era preparata, al contrario di lui. Ormai aveva riflettuto e studiato il problema: ogni gesto, ogni parola, ogni cosa insomma, era frutto del suo paziente e allucinante progettare. Anche con Andrea, soprattutto con lui. Questo non significava che fosse tranquilla, men che meno certa del risultato. Gli sedeva di fronte ed era rimasta nella stessa posizione, facendo uno sforzo incredibile per non stringerlo tra le braccia e rassicurarlo. Quando lui era finalmente tornato a sedersi, guardandola negli occhi in preda a un’evidente agitazione, Teresa aveva sorriso. Quasi timidamente, comprensiva, complice.«Ti capisco, ma viste le circostanze vedi altra scelta?»Senza aggiungere altro aveva lasciato che gli occhi parlassero per lei. Quegli occhi di un verde intenso che era convinta avessero conquistato da tempo Andrea. Ora ne aveva la certezza.Come era bella, pensava Andrea ritornando con la mente a quell’incontro e a quella sensazione che provava ogni qual volta Teresa era presente.
Here, making each day of the year,changing my life with a wave of her hand,nobody can deny that there’s something there…Come faceva a negarlo?Erano fredde, le sentiva gelide sulla pelle, qualcosa di estraneo e innaturale ai polsi.I want her everywhere,and if she’s beside meI know I need never care.Per qualche istante aveva rimosso quel pensiero, come se immaginare di non averle potesse far scomparire le manette e liberarlo. Era un fatto. La sua vita aveva repentinamente cambiato dimensioni, si era ristretta all’improvviso in un angusto spazio. Ma lui lo aveva scelto.Ti ci devi abituare, almeno per un po’, e speriamo che sia veramente così.Questo pensava Andrea mentre davanti ai suoi occhi scorreva la vita di tutti i giorni, le vetrine illuminate dei negozi, i marciapiedi affollati dal passeggio centrale. Quella zona della Città Eterna la frequentava poco, ma gli aveva sempre dato un gran senso di sicurezza, con il suo popolo di impiegati, conduttori dei mezzi pubblici, ferrovieri, operai, commesse, massaie piene di buon senso. Vedeva le ragazze chescherzavano, spensierate e irrequiete. Ne era certo, con i diari pieni di ritagli su Battisti e Baglioni nella borsa e nella testa. Sì, gli sarebbe piaciuto essere nato e vivere da quelle parti. Una delle poche cose su cui non aveva mai avuto dubbi era che la gente del popolo mette paura solo a chi ha la coscienza sporca. Vivere senza doversi guardare continuamente intorno come faceva da tempo. Senza la paura di sconfinare dove capelli un poco lunghi e arruffati o una borsa di tela verde non passavano inosservati. Dove incappare in qualcuno intenzionato a dare una lezione a un “rosso”.«Volante 23 a Centrale. Ripeto, Volante 23 a Centrale.»«Volante 23, qui Centrale.»
«Centrale, volevamo comunicarvi la nostra posizione.»«Avanti, Volante 23.»«Centrale, siamo sulla Tiburtina, a pochi minuti dal carcere. Consegniamo l’arrestato e torniamo in questura.»«Ricevuto, Volante 23, e vedete di fare in fretta. Abbiamo molte richieste di intervento. Qui c’è un grande viavai e, detto tra noi, non si è mai vista tanta confusione.»«Va bene, Centrale, torniamo al più presto. Non ci dovrebbero essere problemi.»«Hai fatto una bella stronzata, figliolo!» disse l’agente mentre la radio riprendeva il suo incessante gracidare indicazioni alle altre volanti della polizia di stato.Aveva parlato senza voltarsi. Non c’era astio nel suo tono. Andrea non poté fare altro che scrollare le spalle e stamparsi sul volto un sorrisetto ebete. Non sembrava l’atteggiamento di uno che poche ore prima era entrato in una gioielleria e aveva sparato al malcapitato gioielliere. Forse avrebbe dovuto calarsi di più nella parte, tipo “faccia dura” e un bel “fatti i cazzi tuoi” stampato sopra. Ma francamente, giunto quasi al termine della giornata, gli sembrava di aver già fatto abbastanza per la causa.«Ma ti pare che proprio di questi giorni vai e combini un simile casino?» riprese il poliziotto a fianco al guidatore, il caposcorta evidentemente. Sembrava avesse intuito la sua alzata di spalle e il suo sorrisetto cretino, tanto da considerarli un’autorizzazione a proseguire nella disamina della situazione. «Qua è tutto così sottosopra, che Valle Giulia e l’Autunno caldo del ’69 uno se li ricorda con nostalgia. Persino il ’77 e gli autonomi… almeno allora sapevi come stavano le cose. Guarda che io nonho i paraocchi, anche se hanno cercato di metterceli. Avresti dovuto leggere e sentire le porcherie che ci hanno rifilato per anni. Altro che 1984e il Grande Fratello. Ho fatto la mia parte, è vero. Le ho prese e le ho date. Ma anche noi abbiamo un cuoree un cervello. Be’… almeno quelli di noi che hanno fondato il sindacato» esclamò, non senza una punta di orgoglio, rivolto ad Andrea ma anche ai colleghi, temendo che lo prendessero per scemo.
alfio.pulvir
Il romanzo fornisce svariati spunti di riflessione antropologica. Pubblicato nel 2022, rivolgendosi ad una società lontana dai fatti da cui trae spunto, propone contenuti e valori su cui riflettere. Volerci vedere chiaro, questa era l’esigenza dell’infermiere del policlinico che uccideva il “barone”, il professore la cui autorità era indiscussa. Si trattava dell’espressione di un’umanità populista, dell’operaio, del suddito che vuole indagare, partecipare, ribellarsi ad un potere. L’esperienza del carcere, l’incontro con quell’umanità, che per diverse ragioni si trovava in quel luogo, lo pone a confronto con il suo accaduto. Il clima politico descritto riguarda gli anni di piombo, i fermenti rivoluzionari, le riflessioni e le azioni conseguenti. Il senso pratico, come viene riportato a pagina 92, caratterizza il movimento rivoluzionario. I componenti di questa espressione rivendicativa venivano, forse a ragione, definiti “sindacalisti armati”. Il rapporto fra l’arma e il suo possessore viene paragonato al prolungamento di una parte di se. (pag. 95, ultimo capoverso). Un rapporto simbiotico o, considerando il retaggio culturale e di vita degli autori, potremmo paragonarlo alla protesi di un arto che, per le caratteristiche funzionali, deve integrarsi con le altre componenti somatiche. L’arma non come un mezzo ma, piuttosto, come una parte di se. Un altro aspetto interessante riguarda la riflessione sul canone dei valori condivisi e apprezzati dalla classe dominante, dal potere, e lo scostamento dai valori che costituiscono il retaggio ideologico dei componenti del movimento rivoluzionario. Come è affermato a pag. 104, malgrado l’essersi conformati e omologati al volere della società dominante, continua a vivere in ognuno “quel giovane che prese il fucile e si diede alla macchia”. Il conformismo consiste nell’essere “diventati organici a questa tela di ragno che abbiamo contribuito a creare in questi decenni”. Nel contesto del carcere, a cui fa riferimento il romanzo, vi erano i detenuti e il personale di custodia. L’ottica conformista li avrebbe voluti gli uni contro gli altri ma l’umanità va oltre questo schema, si intessono delle relazioni orientate diversamente, “apparentemente strane per chi ne è al di fuori” (pag. 123). C’è un progetto da realizzare nel concreto, far morire uno statista, e tante sono le riflessioni. Giuseppe, un professore di provincia, cosi lui si definiva (pag. 156), figlio di militanti del movimento armato, deve trasportare un “messaggino” rischiando di morire e di essere ricordato per questa ragione. Ancora una volta viene proposto il rapporto tra il conformismo e il suo sistema valoriale e la necessità di svolgere un compito che si discosta dall’immaginario collettivo. Un professore, colui che ha studiato tanto per istruire molti ora deve fungere da trasportatore di un messaggio scritto su un foglietto di carta. L’appartenenza al gruppo doveva prevalere su tutto (pag. 137), nel gruppo Giuseppe non era il letterato, il pedagogista ma il portatore del messaggino. Il gruppo era vasto e comprendeva vari livelli culturali e ruoli nel sistema sociale. Vi erano magistrati, poliziotti, giornalisti, tipografi, uomini, donne e l’efficacia dell’azione è affidata alla coesione del gruppo. L’episodio della recita di Proietti, laddove “aveva interrotto l’usuale copione” impone un’inevitabile riflessione: è possibile cambiare il copione quando questo è scritto in una determina maniera? Lo statista democristiano doveva morire e la conclusione del romanzo, definito una favola (pag. 213), è l’illusione o, ciò malgrado può costituire il volano per la speranza?
Roma 5 maggio 2022
Alfio Pulvirenti