SALA D’ATTESA.
“Prego, si accomodi, si può sedere qui. Tenga, questo è il suo numero”.
1810.
“Mi dispiace, non so dirglielo, io sono una semplice assistente. Quando dalla direzione diranno che è il suo turno, verrà chiamato con un altoparlante. Qui, si sa, è richiesta pazienza. E poi lei è parecchio in ritardo, credevamo che ormai non arrivasse più”.
“Le assicuro che non è dipeso da me questo ritardo”.
Fortuna che l’ambiente, seppure immenso, è accogliente e luminoso: si trova sull’attico del grattacielo più alto della città. Arrivare fin lassù è un’esperienza emozionante, l’ascensore schizza veloce come un razzo; sarà forse la propulsione a idrogeno, ma la sensazione è quella di stare dentro un liquido sospinto da uno stantuffo dolce e insieme energico. Il Ritardatario appena entrato si muove con passo incerto, soggiogato dal panorama che riesce a carpire con la coda dell’occhio; nello stesso tempo però l’onnipotenza visiva gli dà un senso di dominio sul mondo intero. Peccato soffra di vertigini.
E’ incantato da queste architetture ardite, generate da menti visionarie che, avventurandosi nella sfida a viso aperto alle leggi strutturali, e sfruttando senza pietà tutte le caratteristiche – fisiche, chimiche, meccaniche – dei materiali, regalano spazi sensazionali all’umanità.
Modulare o malleabile, quella materia si plasma per assecondare forme immaginate, è sostanza che rende i pensieri costruzioni tattili; quei contenitori giganti, a volte possono trasformare un filosofo in un architetto e un architetto in un compositore di musiche impercettibili, che fanno vibrare note intime in chi li vive, li abita, li attraversa.
Il Ritardatario, col suo immaginario, erge a impavidi cavalieri di un’Apocalisse spaziale, i creatori di quegli involucri placentari, i demiurghi che avvolgono in membrane palpabili il vivere quotidiano, regolando le frequenze del benessere psico-fisico.
Non è solo il più alto, ma è anche il più avveniristico edificio dell’intera nazione; è una città verticale che svetta in mezzo alla città orizzontale; tre volumi architettonici: due torri cilindriche vicine, una a sezione crescente verso l’alto, l’altra, speculare ma opposta, a sezione crescente verso il basso. Sull’apice di quest’ultima torre, l’ultimo piano diventa il bellissimo ambiente in cui si trova adesso; a vederlo dall’esterno sembra un disco volante, che si amplia fino a compenetrarsi parzialmente nella torre più alta, quella con l’ascensore a razzo. Paradossalmente ad una sofisticatissima tecnologia nei giochi strutturali e nell’uso di materiali innovativi, si unisce una perfetta armonizzazione nel contesto.
Lo chiamano la Magnolia: in effetti la torre più alta richiama un tronco d’albero e, al di sopra del disco volante in cui si trova il Ritardatario, la struttura si ramifica e termina con tantissime capsule semisospese, di dimensioni e colori diversi in trasparenza, come dei frutti gelatinosi senza buccia, in fase di maturazione.
Alla base delle torri un isolotto di terra, e tutto intorno mare.
Lì è davvero sottilissimo il confine tra opera dell’uomo e creazione della Natura.
Un’architettura organica in cui ogni parte è imprescindibile dall’altra, e il tutto da ogni singola parte.
Dall’esterno, tra tanti “edifici muti”, la Magnolia è un “edificio che parla”; al suo interno, è un “edificio che canta”, che avvolge e muove gli uomini come l’oggetto amato .
“, di un compositore giapponese, Yiruma”, gli risponde l’assistente, ricomparsa per accompagnare in sala due ragazzine, quando il Ritardatario le chiede che musica sia quella che si sente in sottofondo nella sala.
“E’ vero, sembra di sentire proprio l’acqua che scorre, tra le note di quel pianoforte”!
La signorina è molto carina, ha gli occhi a mandorla, forse è anche lei giapponese, ma lui non osa chiederglielo; quando la intercetta deve centellinare e concentrare le parole, perché coi suoi passetti rapidi e ravvicinati, lei non si ferma mai, come le sue ave fasciate nei kimono lucidi, con le infradito a zeppa ed i calzini bianchi, o come una bambolina da carillon, sempre sotto carica.
Lei però indossa un abitino bianco di cotone, che le segna garbatamente i piccoli seni, la vita stretta e i fianchi; scarpe basse e comode, i lisci capelli neri raccolti in uno chignon. Trucco molto leggero, ha già un incarnato naturale da bambola di porcellana.
E’ seria e professionale, ma quando muove le sue labbra rosee per proferire qualunque parola, emana una femminilità sempre in bilico tra tenerezza e sensualità.
“Mi scusi, ma potrei almeno sapere a che numero sono arrivati? Giusto per regolarmi…”
“Mi dispiace, non lo so, io sono preposta solo ad accompagnare le persone dall’ascensore a questa sala e poi alla porta d’uscita”. Mentre lei fa spallucce e accenna un sorriso costernato, lui frena l’impulso di abbracciarla, poi con lo sguardo cerca un display alle pareti o uno sportello informazioni. Invano.
Non vi è nulla di tutto ciò nell’intera Sala. Neanche un orologio. Del resto la Sala non ha pareti cieche, è tutta finestrata e dalle vetrate si accede ad un anello esterno, un bel balcone circolare che gira tutto attorno al perimetro, quello che visto dall’esterno ricorda un disco volante.
Lui però non esce, a quest’altezza solo pensare di affacciarsi lo manda in apnea.
In quell’ambiente tutto curvo, a pianta circolare, la porta d’ingresso e due porte girevoli sulla parte opposta sono i soli riferimenti, l’unico punto rassicurante è il centro.
Così piazza proprio lì la sua poltroncina blu cobalto. La sceglie tra tante libere, tutte di colori diversi, design ergonomico, scocca in una lega leggera ma molto solida. Sono comodissime, hanno un ripiano richiudibile incorporato, un utile piano d’appoggio.
Vorrebbe altre tre paia di occhi per guardare contemporaneamente tutto intorno, per osservare i mille spunti offerti da questo ambiente: le persone, il panorama, i particolari interni della Magnolia, lì nulla è casuale e, al di là delle apparenze, tutto è dinamico.
Intanto la traiettoria del suo sguardo punta dritta a due nuove arrivate: due ragazzine appena entrate dalla porta e accolte dall’assistente giapponese.
Pelle chiara, tratti somatici dell’est, così come l’abbigliamento e l’odore speziato che evapora dalla loro pelle quando si muovono.
Hanno l’aria smarrita, si tengono per mano, guardano i numeretti consegnati loro dall’assistente, sembrano perplesse confrontandoli, forse non sono numeri molto prossimi, chissà. La più grande simula un’espressione altera, sfidante, abbraccia la piccola con intento protettivo e, dopo averle sussurrato qualcosa all’orecchio, le consegna una bambolina tozza, sembra una matrioska; la piccola la prende e la ripone in una bustina blu che tiene in mano.
Non si somigliano moltissimo, ma hanno colori, espressioni e un’intesa tali da indurlo a ritenere che siano sorelle.
Le ragazzine si sentono osservate, lo fissano con sguardo interrogativo, corrugando la fronte e indurendosi in volto; allora lui sposta subito la traiettoria dello sguardo e lo dirige verso l’alto, la poltrona è reclinabile, la sala si oscura e su uno schermo gigante calato dal soffitto comincia la proiezione di un film.
Ottimo: in dotazione, nella tasca in tessuto apposta sul retro dello schienale della poltrona, un paio di occhiali per la visione in 3D.
“Omnia Tempus habent” – PRIMO TEMPO.
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