L’uomo maldestro
Un uomo maldestro, posato il cappello, si lascia andare seduto contro una porta. Sono due ore che aspetta. Si è seduto con l’intenzione di aspettare, lo sapeva. In cuor suo, si dice, regna la più nobile mitezza, egli sa che dovrà attendere, non se ne fa segreto, e non è in pensiero per conto dell’attesa. D’altra parte, l’uomo maldestro è preso da un insistente tremore, quando si adagia la mano sul petto, e tasta il pettorale premendo la cassa toracica, percepisce i saltini frettolosi del cuore. Così l’uomo appoggiato alla porta cerca di respirare, tira grandi boccate di aria e le esala con un fremito che gli percorre tutto il corpo, quasi gli cadono gli occhiali da vista dalla punta del naso. Vicino a lui pensa esserci un gattino. Il gattino non c’è, si intende. Ma la pena della solitudine gli è sempre stata indigesta così ché ha deciso, in questa sua attesa, di evaderle. Si è immaginato un bel gattino, col visino un po’ schiacciato come un’ellisse, un po’ a mandorla, e due piccoli occhietti languidi e fuggenti, che nel folto del pelo irto si intravedono appena.
Vieni qui, gattino, dice. Su su, gattino, vieni un po’ qui, vieni, su, gattino. E il gattino, presosi il tempo di decidere se dar o meno confidenza all’uomo maldestro, si avvicina, infine, e miagola. Oh, bel gattino, dice l’uomo maldestro.
Con la mano destra fa i grattini al bel gattino, però, dopo un poco ad annaspare nell’aria la mano si stanca pure. Così l’uomo maldestro cessa di fare le care al suo gattino, e dopo poco si dimentica anche della sua esistenza. Passata un’altra ora controlla l’orologio. L’orologio, pensa, è un bugigattolo di insensatezza, e il tempo, tralasciando che è un concetto obsoleto, può solo che aumentare la mia ansia. Così l’uomo maldestro si risolve a concentrarsi che non gli caschi il respiro. Certo, essendo egli maldestro per definizione il rischio di un rovesciamento del respiro è sempre dietro l’angolo. Si concentra per bene, sa che per rimanere concentrato si rivela spesso assai propizio intonare una canzoncina. Siccome l’uomo maldestro non ha una buona voce, per non dire che è irrimediabilmente stonato, mugola con la gola. Passa così un’altra oretta dove l’uomo maldestro, accasciato contro la porta, attende armato di molta pazienza e ammazza il tempo canticchiando. Di colpo, come se l’avvenimento fosse terribilmente singolare, nonostante la natura stessa delle porte che sono concepite al fine di essere aperte, ecco che la porta su cui si era accasciato l’uomo maldestro si apre. Appare lei, finalmente. Ma accanto a Lei c’è Lui. E lui chi? – direte voi. Bene, ciò non è importante, può essere un Lui qualsiasi, magari molto vecchio e canuto o proprio un giovanotto imberbe, a volte anche una lei.
L’importante è che lì, con Lei, c’è Lui. L’uomo maldestro rimane di stucco, si concentra più che può ma più di tanto non può, e si lascia cadere il cuore di mano. Quello si sfracella al suolo e va in mille pezzi. L’uomo maldestro, misurando lo scempio del suo cuore infranto, arretra di qualche passo. Arretrando pesta la coda del gatto, che come un cane, guaisce, poi con un pizzico di conforto si ricorda. Il gatto non c’è.
Lettere d’amore come rondini
Le sue lettere d’amore, signore, sono rondini in un sacco e lei spreca francobolli che scivolano come l’olio sulla carta.
Scivolano anche le sue parole, signore, nella testa di lei che le anella alla rinfusa, l’una dopo l’altra, sul ripiano dell’incertezza, nel conto a suo nome che ha aperto una notte che puzzava di alcool.
Le calle di Montevideo squarciano la terra a colpi di passeggiate e i piedi di un uomo pesante hanno disegnato i suoi sentimenti, signore, sul selciato della cattedrale dove lei va a pregare ogni mattina.
Le sue lettere d’amore sono rondini in un sacco, signore, e i suoi punti di domanda stanno soffocando nell’asfissia del silenzio radio del cuore di lei, ma non si abbatta, ricercheremo il segnale, signore, indovineremo la frequenza.
Nel frattempo, nutra le rondini, il suo buon affare sarà credere nel potere del tempo, investa nella speranza perché è a fondo perso, signore, ne può attingere finché vuole.
E dorma sogni tranquilli, signore, le sue lettere sono in volo, i suoi piedi possono riposare, o finiranno per essere i ciechi a leggere le sue rime baciate sul selciato della cattedrale.
Mi raccomando, signore, non prenda a sassate il cielo, un giorno per caso potrebbe colpire la sua lettera d’amore, nel caso non si allarmi, ci penseremo noi a riferirle quanto amore nutre, del resto lo sanno già tutti.
Le calle di Montevideo hanno la bocca larga, signore, e la sua lingua disegna parole d’amore in un orecchio che ha fame di rondini, ma questo cosa, signore, facciamo sì che rimanga tra noi due.
Hanno rubato le nuvole
Il Buon Signore ci portò via le nuvole un pomeriggio come tanti che da quel momento in poi fu inesplicabile, indefinibile. Le testate dei giornali titolavano Hanno Rubato Le Nuvole, davano la colpa alla Multinazionali. Ma noi in fondo sapevamo, ce lo eravamo meritati. Ora accadeva quello che era giusto, quello per cui avevamo trafficato tanto, per cui si erano calpestate come foglie marce sul selciato l’etica e l’empatia.
Mia zia uscendo in strada aveva bestemmiato le sue divinità orientali, le sue erbe profumate e il mal di schiena che le fulminava le vertebre lombari da trentadue anni.
Io mi sono chiuso in questa stanza, e ho buttato la chiave. Da allora ti aspetto. Forse ti sono giunte le mie lettere, forse qualche voce, un messaggero involontario che conversando mi estrae dalla foschia in cui sono sicuro tu mi abbia lasciato per pormi nudo di fronte a te, nella luce accecante delle parole “c’è un uomo che si è chiuso in una stanza ad aspettare una donna perché gli hanno portato via le nuvole”.
E d’altronde non potrei aspettarmi di più, né da te né dall’umanità. Ho le mani sporche e i muscoli come rotti, te lo dico perché magari ti chiedi cosa sia successo alla mia calligrafia. Sembrava tirata al righello, ora punta il fondo come le gambe penzoloni di un impiccato.
E ti ricordi quando un romanziere vinse le elezioni e noi ci mettemmo a camminare tutta la notte finché all’alba trovammo un baretto del porto e delle sedie comode, un vento di primavera che ci spuzzava sulla schiena?
Dalla mia finestra vedo la città e il bosco, le luci smorzate dal cielo orfano di nuvole.
Mi mancano le nuvole. Mi manchi anche tu, forse perché mi mancano le nuvole, forse le due cose sono biunivoche, o contingenziali, o sei solo tu, ovunque tu sia, che mi manchi disperatamente. Pensa che faccio fatica a trovare una posizione in cui stare comodo. Siete spariti tu, tutti i miei cuscini buoni e le nuvole in cielo. Sono rimasto io nella mia stanza, la gente fuori che si rintana in discorsi che perdono interesse sul nascere, e l’odore delle magnolie, come una strada di limoni arsi nel sole. Poi di nuovo tu e le nuvole. Forse mi manchi solo tu, e se mi consegnassero le nuvole di colpo, così come se nulla fosse stato, non me ne importerebbe neanche, e ci sto facendo caso perché non ho nient’altro con cui distrarmi.
Ho perso le tue foto, sai? Ero sicuro di averle messe sotto il divano. Ho guardato l’altro giorno e non c’erano. Hanno fatto come le nuvole, un momento prima ci sono, poi si spaccano piano piano, in una pomata di luce, nel tuo tubetto abbandonato sul comodino, un paio di ciabatte adagiate ai piedi del letto non lontano dalla forma del tuo corpo sul materasso. Scomparse.
Se ci tieni comunque mi metterò a cercarle, altro da fare non ho, e non mi rincresce, vorrei trovarle anche io, per sentirmi meno solo, sai?
Il giorno che ci hanno portato via le nuvole non so chi sia stato ma qualcuno deve aver detto per fortuna ora esce il sole. Non lo sapeva, chiaramente, che le nuvole non sarebbero più tornate. Al telegiornale stasera hanno annunciato che finanziano una spedizione interspaziale per trovare le nuvole e riportarle a casa. Io non ci credo molto, io aspetto te. Finché non torni dubito possano tornare anche le nuvole. Che senso avrebbe, non trovi?
Mi manchi, sai, forse te lo ho già detto. Ho bevuto un po’. Beccato. Alzo bandiera bianca, e poi lo sai che non reggo molto l’alcol. Solo che pensavo che mi avresti fermato prima. Invece non ci sei più, e anche le nuvole, insomma. Non so dove si sia cacciato il mondo ma è come se finora ci fosse stato un castello, là fuori dove finisce il bosco e le dita pelose delle piante di faggio, e il castello era fatto di stuzzicadenti e colla e carte napoletane. Poi il castello è crollato, io sono rimasto alla frana, nell’attimo esatto in cui la struttura si sbraca, la terra si apre per accogliere i detriti e le nuvole pouf!, come se nulla fosse, spariscono.
Tu come ti senti a riguardo? Sei sempre dell’idea che valgono poco le mie metafore?
Perché io le sto rivalutando, l’altro giorno per esempio, parlavo con un signore in cucina che faceva il romanziere, poi ha vinto le elezioni e si è innamorato perdutamente, le tre cose in quest’ordine di importanza, dalla meno alla più importante, e questo signore dice che lui la sera non beve mai meno di due tisane prima di addormentarsi. Io gli ho risposto che non dormo di notte, come una nottola, solo che anche di giorno non dormo, come un leone, e non faccio neppure la siesta. Il signore ha espresso qualche perplessità. Non me la sento di dargli torto, del resto.
Ti ricordi cosa abbiamo bevuto quel giorno al porto? Io me lo ricordo bene, e tu anche dovresti, o la tua memoria ha fatto come le nuvole.
Io non voglio rimanere qui per sempre, lo sai. Però come faccio a uscire, con il cielo così, dai! cerca di capirmi, Buon Dio, non è vita.
Mi sono spaccato le ossa per trovare le nuvole, non scherzo. Secondo la mia modestissima opinione è qui che verte l’ago della bilancia della questione, Tutto molto semplice. Trovo le nuvole e trovo te. Non dico che le due cose debbano avvenire l’una conseguentemente dell’altra, per carità, tanto non ho mai preteso dal karma. Ma io ci credo lo stesso. Te e le nuvole, insieme, ovunque voi siate finite. Magari ti ho persa perché tu potessi portarmi le nuvole. Se è così sappi che ti perdono e ti aspetto, ti aspetto qui. Anche questo forse te l’ho già detto. Be’, ho alzato un po’ il gomito, perdonami. Giuro che, se torni quella robaccia non la tocco mai, mai più nella mia povera vita, anima mia. Dammi le nuvole, Signore, ti sto chiedendo troppo?
Il giorno che ci hanno portato via le nuvole i giornali titolavano questo e quello e per strada c’era un baccano inquietante, sembrava di stare al circo, e poi sui social si sono accusati tutti a vicenda, il riscaldamento globale e i gay, i trans, le forze militari cinesi hanno fatto irruzione a Singapore?
Non lo so, anima mia, io non ci ho capito un cazzo lo stesso. Però ho avuto paura, questo sì, me lo ricordo proprio bene. Tu eri…be’, eri dove sei adesso, cioè dove io non sono e dove io non posso sapere, evidentemente, tu hai voluto così. Insomma, io ero dove non eri tu, e questo è bastato, forse, perché mi trovasse la paura. Tu avresti dovuto essere lì, dov’eri?
Quando l’ho sentita arrivare ero in piazza, vicino al chiosco del thè con le palline e non mi sono neanche posto molti dubbi, non ho messo tempo in mezzo, ci ho pensato poco. Sono corso a casa e ho chiuso tutto, poi ho buttato la chiave nello scarico e ho aperto le persiane per vedere il cielo, così se le nuvole tornano io le vedo. E tac! Ti trovo!
Lo so che forse non ti vuoi far trovare, e magari io non ti manco affatto. Però sento che esiste qualcosa nel mondo, come una corda invisibile che ci lega, e che l’aria che respiro senza questa corda si trasforma in ossigeno in prestito che presto o tardi renderò alla terra con gli interessi della carne; invece, questa corda c’è e mi tiene legato, a te, anima mia, che sei ovunque tu sia, altrove, in ogni caso, e non qui con me. Bene, questo è vero, ma è vero anche che la corda si stringe e prima o poi smetterai di correre e di portarti via le nuvole, perché la coperta del cielo è bella lunga e puoi tirarla a volontà ma non è infinita. Di infinito qui c’è solo il mio affetto per la tua non presenza, ovunque tu sia, anima mia, io ti aspetto con ansia, e se torni salutami le nuvole, che il sole sarà anche bello ma ha preso a spaccare le rocce, la strada è fatta in mille pezzi, poverina, mi ricorda quasi una foto che ho visto stamattina. L’ho scattata io, in sala operatoria, c’era molto sangue e la canna del fucile copre buona parte del petto, però il cuore si vede lo stesso, è spezzato, certo. Però se torni giuro che ricucio tutto, lo sistemo in qualche modo. Una soluzione si trova. Tu comunque fai in fretta, io ti aspetto anima mia, e non ho mai amato tanto l’attesa.
P.S.: Non ti dimenticare le nuvole, ok?
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