Se vi dicessi che l’idea del libro c’era sin dall’inizio, quando in una grigia mattina d’autunno ho deciso di lanciarmi in questa avventura zaino in spalla, darei l’ottima impressione di chi nella vita ha sempre tutto sotto controllo. Ma le bugie, si sa, hanno le gambe corte, e allora vi dirò la verità. Questo libro è nato per caso, quasi senza accorgermene, macinando passi e pensieri in città sconosciute, fino a quando un giorno mi son detta: e se questi miei pensieri diventassero parole?
Il più delle volte è proprio così che funziona con le cose belle della vita; non pensi affatto che possano accaderti e invece, oh, accadono eccome.
Tutto è iniziato con un biglietto aereo in tasca e lo zaino azzurro in spalla. Ad aspettarmi dall’altra parte c’era Lisbona, con le sue luci forti e una serie inaspettata di meraviglie e incontri; impossibile non scriverne. Poi, di città, ne son venute altre, e tra andate e ritorni, insieme a me è volato anche il tempo. Giorni, settimane, mesi…
Un anno.
476.079 passi.
Sei città.
Ogni volta, in fuga con me stessa.
LISBONA
16-19 gennaio 2018
Prendere la vita un po’ a caso è un concetto che mi piace. Così, due mesi fa, ho comprato un biglietto aereo a caso, appunto, dicendomi che al viaggio avrei pensato poi; ma quel poi è arrivato più veloce di quanto immaginassi, e guarda un po’, è esattamente oggi. Allora metto lo zaino in spalla e via, verso l’infinito e oltre.
Non so di preciso dove si trovi questo infinito, ma di sicuro per raggiungerlo si passa da Bologna. Arrivata all’aeroporto, appena entro mi coglie un senso di smarrimento tale che trovo conforto solo nel pesante zaino sulle mie spalle. Del resto, ne abbiamo viste più io e lui che tante coppie d’innamorati: il cammino portoghese verso Santiago, la Liguria a piedi; per non parlare di quando insieme ci siamo spinti fino in Islanda. È stato un bel girare, il nostro, anche se dall’ultima volta che ho preso un aereo son passati quasi due anni e adesso mi sento arrugginita e un tantino vecchia. Ma questo forse non dovrei dirlo, in fondo è solo da un anno che sono entrata nei trenta. Allora chissà… sarà che per la prima volta ho l’imbarco prioritario?
Prima, però, devo passare dal gate; ché va bene l’esser vecchi e arrugginiti, ma i passi da compiere per salire sull’aereo sono rimasti gli stessi di qualche anno fa e stando ai ricordi, be’, anche l’aria mi pare quella tesa di sempre; ma è una tensione composta, che non vuol dare troppo nell’occhio. A parte le eccezioni, ovvio. Come chi, prima di dire addio alla sua bottiglietta, tracanna acqua manco fosse il giorno del castigo.
Finito il serpentone, mi trovo davanti a una macchinetta automatica che mi chiede di mostrarle la carta d’imbarco. Mi sembra di ricordare che l’ultima volta ci fossero uomini e donne, mani e sguardi veri, ma a quanto pare alle persone non è più consentito fare neppure questo. Ho un moto di sdegno; per carità, ben venga la tecnologia, ma mi chiedo dove siano andate a finire. Avranno ancora un lavoro? Uno stipendio? Però, al primo contatto con gli umani che popolano questo luogo, mi dico, be’… forse a volte è davvero meglio affidarsi alla tecnologia. Sono di fronte a questa macchina parlante e non so cosa diavolo fare, quando un’addetta ai lavori grida qualcosa da lontano. Parla con tre o quattro persone contemporaneamente, e tra le parole che sta pronunciando ce ne sono alcune anche per me, ma io non lo capisco. Allora si avvicina e stizzita mi chiede: «Ma lei parla italiano?!».
Dev’essere uscita dal liceo, sì e no, tre giorni fa, con la sua lunga coda di cavallo sopra la testa e un’altezza tale da arrivarmi all’ascella.
«Sì» rispondo. Te? Ma questo non glielo dico.
Come non le dico che forse, tra le due, la stupida non sono io, anche se mi guarda in quel modo. Lo penso, certo, ma se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è proprio farmi gli affari miei. E poi, riflettendoci bene, mi appresto a vivere giorni di sano egoismo, tanto vale che inizi a tenere tutte le cose per me sin da adesso. Non vi pare?
Superato l’impasse, finalmente salgo a bordo. Una volta su, però, non faccio in tempo ad allacciarmi la cintura che si siede accanto a me un indiano; dico io, ma ti pare il caso di mangiare una zuppa di cipolle prima di un volo? Chissà, magari ha pensato di godersi l’ultimo pasto, metti che qualcosa vada storto… Non come me che ho soltanto un misero pacchetto di crackers. Li butto giù uno a uno, quasi di nascosto, non s’abbia a vedere che ho lo stomaco debole di una vecchia. Ma il mio sforzo è vano perché un attimo dopo – sarà l’entusiasmo del viaggio, sarà l’alta quota che dà alla testa –, le due signore in là con l’età alle mie spalle decidono che è giunto il momento di una bella botta di vita e si lanciano nell’acquisto di un nuovo profumo. Che fortuna, eh!
Così, tra una fragranza e l’altra, nell’euforia generale che si scatena alle mie spalle, mi sale una nausea che la metà basterebbe. Trattengo il fiato, leggo, cerco di dormire. Le provo davvero tutte, ma è un’agonia. Per fortuna il volo è breve e ben presto tocchiamo terra.
Un sobbalzo, oplà, e ci siamo.
E adesso?
Be’, adesso siamo soli, io e il mio zaino. Che poi soli è una parola grossa, manco fossimo dall’altra parte del mondo, nel nulla. Non sono mica il Cero che l’estate scorsa se n’è andato da solo in Sudafrica o l’Eli che ha mollato tutto ed è andata a vivere a New York. Io in confronto sono una dilettante e pure a tempo determinato. Per quanto ami partire e perdermi in luoghi mai visti, confondendomi tra gente sconosciuta, da scoprire o semplicemente da sfiorare per qualche istante, col mio lavoro di segretaria, i giorni liberi a disposizione son quelli che sono, così tocca sempre tornare e, ahimè, anche alla svelta.
C’è chi dice che non sono abbastanza ambiziosa, che potrei fare anch’io come i miei amici e acquistare un biglietto di sola andata per una nuova vita. Be’, forse hanno ragione, ma intanto domani mi sveglierò a Lisbona.
Mica poco.
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