Eva è una giovane ragazza, intrappolata in una gabbia dorata costruita dal padre, un celebre pianista. Cresciuta con la sua musica a colmare ogni vuoto, scopre però un’ombra dentro di sé: nuovi interrogativi e nuove paure assillano ora Eva che, senza una bussola, è tormentata da un crescente senso di inadeguatezza che solo l’alcol sembra placare. Mentre scivola sempre più in basso, l’amica Lori e Ascanio, il misterioso allievo del padre, diventano i suoi punti di riferimento. Tra lei e Ascanio nasce un rapporto intenso, fatto di attrazione e scontri, amore e odio. Ma quando tutto sembra perduto, sarà proprio l’amore a indicarle la strada per risalire dall’abisso e ritrovare se stessa.
Capitolo uno
Ascoltavo spesso mio padre suonare. Non ci parlavamo molto, il pianoforte faceva da tramite. In base alle note riuscivo a decifrare i suoi stati d’animo. Ha dato l’anima per me, facendomi da madre e da padre, donandomi tutto ciò di cui avevo bisogno.
Da piccola mi portava sempre ai suoi concerti. Mi sembrava un eroe, dal mio posto seduta in mezzo al pubblico. C’era solo lui sul palcoscenico e tutta l’attenzione era rivolta esclusivamente alla sua figura illuminata dalle luci di scena. A fine serata, con la mia ingenuità da bambina, avrei voluto urlare a squarciagola a tutti i presenti che colui che applaudivano con tanta foga era mio padre. Volevo anch’io essere al centro dell’attenzione come lo era sempre lui.
Quando tornavamo a casa, esigeva sempre dei miei giudizi, quasi fosse più importante ciò che pensavo io rispetto a un intero pubblico che lo acclamava ogni volta.
«Sei bravissimo» gli dicevo sempre.
Lui era felice. Soddisfatto, iniziava di nuovo a suonare.
La sua musica era stata parte integrante della mia crescita; avrei potuto fare a meno anche del cibo, perché mi bastava mettermi con l’orecchio teso ad ascoltare quei suoni meravigliosi che la fame passava ed ero sazia.
Le cose iniziarono a cambiare quando compii diciannove anni e quella vita dedicata all’ascolto della musica di mio padre cominciò ad andarmi un po’ stretta. Avevo terminato le scuole superiori e la mia vita non era un granché entusiasmante.
«Papà che farò ora che ho finito le superiori?» gli domandavo sempre più spesso, desiderosa di una sua risposta.
Anelavo un cambiamento nella mia vita monotona e speravo che mio padre potesse indirizzarmi in qualche modo. Se pochi anni prima adoravo la mia quotidianità, oramai necessitavo qualcosa di più. La mia adolescenza stava per finire e io mi sentivo chiusa in una bolla, impossibilitata a cambiare, come se non avessi mai del tutto iniziato veramente a vivere la mia vita.
Nonostante il rapporto con mio padre fosse molto mutato e non avevamo più quella certa confidenza che ci aveva sempre contraddistinto, lui non voleva che me ne andassi di casa. Dato che eravamo solo noi due, aveva sempre cercato di farmi allontanare il meno possibile. Mi tratteneva in continuazione, con i suoi modi di fare e la sua musica. I suoni che produceva erano come una magia ammaliatrice che m’impediva di andarmene. Per fortuna con le sue serate guadagnava piuttosto bene e potevamo permetterci una vita modesta. Nonostante questo, non mi piaceva l’idea di “fare la mantenuta”, perciò mi ero messa prontamente in cerca di un lavoro. Mio padre si era subito mostrato contrario a questa mia scelta; voleva il meglio per me e, dato che il meglio era molto difficile da trovare, preferiva che restassi nel mio nido protetto per sempre insieme a lui.
La sera non uscivo quasi mai. Mi dispiaceva lasciare mio padre a casa da solo con il pianoforte, anche se affermava che era un ottimo amico per lui. Temevo che la solitudine gli potesse ricordare mia madre e il loro amore passato. Se ne era andata così presto, non avevo avuto nemmeno l’opportunità di conoscerla o di ricordarla. Il tempo se l’era divorata, distruggendo la sua giovinezza e portandocela via, per sempre.
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Passavo così la maggior parte delle mie giornate, vicino a una finestra a osservare la vita che scorreva all’esterno come una spettatrice svogliata. Scrutavo i miei coetanei che si divertivano e, a loro modo, vivevano la loro vita. Una sera come un’altra mi decisi a uscire per fare una passeggiata. Avevo bisogno di respirare un po’ di aria diversa ed ero del tutto ignara del fatto che stavo andando inconsapevolmente incontro alla mia rovina. Dopo essermi seduta su una panchina per godermi le stelle, notai che un uomo aveva preso posto accanto a me. Con la coda dell’occhio riuscii a intravedere che si trattava di un tipo trasandato e stravagante. Forse, a livello inconscio, quella sera speravo che arrivasse qualcuno a stravolgermi la vita, che qualcosa capitasse e mi scuotesse dalla mia routine monocorde.
«Tutto bene?» domandai per gentilezza, dato che non dava segni di volersene andare.
«E lei? Come mai è così triste?» Se ne uscì con l’ultima frase che mi sarei aspettata di udire da uno sconosciuto.
Rimasi spiazzata. Inizialmente mi arrabbiai, chiedendomi che cosa ne volesse sapere uno sconosciuto del mio stato d’animo, poi osservai ancora una volta l’uomo e cercai di trattenere i nervi. Riflettei attentamente sulle sue parole e cercai di trovare una spiegazione logica. Quell’estraneo aveva ragione, anche se la mia non era tristezza, piuttosto la consapevolezza di essere vuota e senza uno scopo preciso nella vita. Senza motivo iniziai a conversare con quell’uomo che, con ogni probabilità, era un senzatetto. Gli raccontai inspiegabilmente che mio padre era un pianista e che la sua vita era sempre stata dedicata al pianoforte. Gli confessai che dovevo stargli vicino perché mia madre non c’era più e che uscivo di rado di casa. L’uomo ascoltò le mie parole in silenzio, chiedendomi solo alla fine in maniera molto diretta: «È suo padre che le ha imposto di non uscire mai di casa e di sprecare la sua vita rinchiusa tra quattro pareti?».
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