La mia risposta è stata sconfortante. Obbediente e ligio al dovere per natura, avevo il terrore di fare brutta figura. Soffrivo inoltre di una disabilità fisica che aveva creato in me un disperato bisogno di approvazione e riconoscimento. Avere buoni voti significava evitare sermoni e ramanzine. Significava compiacere l’insegnante che, con i suoi complimenti, mi avrebbe dato una temporanea iniezione di autostima. Da lì mi sono reso conto di essere rimasto invischiato in quel meccanismo per venticinque anni. Ero diventato un mero “esperto nell’imparare” come già scriveva John Dewey negli anni Venti. Il voto rappresentava la mia motivazione principale perché dal voto facevo dipendere la mia identità. Storpiando Cartesio: “Prendo (bei) voti dunque sono”. Tutto questo mi aveva reso un’anfora perfetta per il travaso di nozioni. O meglio, un colabrodo.
Le cose sono cominciate a cambiare con la scoperta della filosofia. Attraverso gli studi di etica, filosofia politica e teoretica, sociologia, neuroscienze e psicologia sociale sono riuscito a trovare una connessione coerente in ciò che studiavo. Mosso dall’ingenuo desiderio di riformare il mondo, avevo iniziato a leggere testi di mia iniziativa, a dialogare coi docenti, sino a pubblicare qualche articolo di ricerca. Speravo di utilizzare la neuropsicologia per promuovere un nuovo tipo di educazione morale ed ecologica, così che genitori e docenti potessero crescere cittadini meno egoisti, meno manipolabili e più felici. La motivazione non era più data dalla ricerca di approvazione, quanto da un crescente impegno sociale.
Il passo verso il mondo dell’insegnamento è stato inevitabile. Lasciato il settore della ricerca accademica, mi sono concentrato sugli alunni più giovani, perché in loro ho ritrovato il bisogno di una motivazione diversa dal voto. Prima come collaboratore alle scuole medie, poi come supplente alle superiori, ho avuto modo di mettere finalmente in pratica la teoria.
Questo libro nasce per raccontare proprio queste esperienze, che sono quelle di un giovane aspirante docente la cui prospettiva, da un lato, manca dell’esperienza e della competenza degli insegnanti più anziani, mentre dall’altro ha il vantaggio di comprendere un po’ meglio il linguaggio e la psicologia della cosiddetta Generazione Z.
Nel primo capitolo descriverò il percorso di studi che mi ha portato a interessarmi di questioni pedagogiche e psicosociali. Nel secondo racconterò i progetti sull’educazione digitale e il pensiero critico che ho condotto presso la Scuola Media Zanetti di Solignano. Nel terzo capitolo riporterò le prime esperienze di docenza presso vari istituti superiori della provincia di Parma. Gli ultimi due capitoli saranno dedicati rispettivamente alla didattica a distanza durante l’emergenza da Covid-19 e a una piccola parentesi sulle connessioni social tra insegnanti e studenti.
Quello che racconterò sarà un percorso ricco di difficoltà ed errori, ma pure di affetto e soddisfazioni. Questo libro non ha la pretesa di insegnare qualcosa ai professionisti del mestiere, né potrà offrire facili soluzioni a problemi fortemente radicati nel nostro sistema. Il mio intento vorrebbe essere quello di puntare i riflettori su alcune dimensioni del docente e dello studente affinché se ne riconoscano i profondi cambiamenti rispetto alle generazioni precedenti.
1. LA CONNESSIONE COERENTE
VALUTAZIONE, OBIETTIVI E AUTOSTIMA
Chiunque rifletta sulla propria esperienza da scolaro potrà ricordare che la dimensione della valutazione ha preceduto di gran lunga quella della consapevolezza. In prima elementare il bambino riceve una pagella in cui vede misurate le proprie abilità nelle varie materie ma non ha ben chiaro perché quelle materie siano importanti. Per quanto genitori e insegnanti s’impegnino a decantare il valore dello studio, questo tende a rimanere una cosa astratta. Il bambino impara a leggere, scrivere e far di conto prima di tutto perché deve. Perché è stato inserito nella scuola dell’obbligo. Egli non ha la minima idea di cosa potrà fare con quelle abilità, né è in grado di comprendere la portata culturale del diritto all’istruzione. Può sognare di fare l’astronauta, ma di certo non immagina che sapere l’inglese e la matematica sono precondizioni fondamentali per raggiungere l’obiettivo. Lui si vede già sulla luna e si preconfigura delle esperienze fantastiche, ignorando del tutto il percorso che sta nel mezzo. L’unica cosa che sperimenta con costanza sono lezioni, compiti, verifiche scritte e interrogazioni orali.
Il voto comincia a scolpire l’identità personale a partire da quel momento. Se positivo, contribuirà a mettere un mattoncino nel grande edificio dell’autostima. Se negativo, lo toglierà. Qualcuno allora vorrà mantenere standard alti, qualcun altro dormirà sugli allori, altri s’impegneranno per migliorare la propria situazione, oppure la trascureranno. Il ripetuto conseguimento di un certo tipo di voto sarà la calce che contribuirà a fissare una determinata immagine di sé.
La scuola dei nostri nonni faceva molto leva su questo meccanismo. La vergogna e le punizioni corporali erano considerate motivanti di per sé. Il bambino doveva studiare perché i genitori avevano fatto il sacrificio di pagar loro la retta, perché il maestro era un’autorità da rispettare e perché sarebbe stato disonorevole subire una punizione davanti a tutti. In più c’era una maggiore consapevolezza dell’utilità del titolo di studio. La terza media era un requisito per accedere ad alcuni concorsi pubblici e l’istruzione secondaria superiore apriva le porte a posizioni prima impensabili per le classi meno agiate. L’obiettivo primario dei docenti restava tuttavia quello di raddrizzare le “viti storte”, così da riversare in esse il loro sapere. Dopo tanti anni questa idea del travaso è ancora presente, anche a causa della difficoltà di progettare una didattica che sappia caricare di senso il noioso quanto necessario apprendimento di nozioni. È assai difficile concepire un’attività di studio che non comporti sforzo e le lezioni non possono tradursi in mero intrattenimento.
Avere cura
La mia carriera scolastica è stata contrassegnata da un’ossessiva corsa al voto. Ciò mi aveva permesso di apprendere con risultati eccellenti nel breve termine, lasciando tuttavia una voragine nel lungo periodo. Non trovando una connessione tra le materie curricolari e la mia vita quotidiana, dopo le superiori ho perso la quasi totalità delle conoscenze matematiche, storiche e geografiche di base. Me ne sono accorto con orrore quando ho dovuto aiutare alcuni bambini di terza e quarta elementare con i compiti. Io, brillantemente laureato, arrancavo tanto nelle divisioni a più cifre quanto nel ricordare i capoluoghi italiani. Imputo la colpa all’utilizzo della calcolatrice e alla mia scarsa propensione per il viaggio. Ciò tuttavia conferma che per me imparare a fare le divisioni da bambino e memorizzare i nomi della città non ha avuto senso se non all’interno del contesto voti-verifiche.
Fortuna ha voluto che durante tutto l’arco della scuola dell’obbligo io abbia trovato dei docenti con un’empatia fuori dal comune. Dai sei ai diciannove anni sono stato operato sei volte alle gambe e ho dovuto affrontare delle convalescenze molto lunghe. Prima le maestre delle elementari, poi il professor Lombatti alle medie, e infine molti docenti dell’I.T.S.O.S. Gadda di Fornovo Taro sono venuti di propria iniziativa a casa mia per permettermi di non perdere l’anno. Nell’epoca in cui non c’erano né smartphone né didattica a distanza io sono stato messo nella condizione di restare in pari con i miei compagni. Non so quanti studenti possano aver vantato un’esperienza simile. Di sicuro s’è trattato di qualcosa di eccezionale e strabiliante. Me ne sono reso conto meglio dopo essere stato io stesso supplente su sostegno.
Penso che questa esperienza abbia piantato un seme dentro di me. Un seme che non è perito, nonostante il mio rapporto con lo studio fosse da sempre viziato dalla dinamica disfunzionale del voto. Durante le elementari e le medie mi impegnavo per inerzia, così come alle superiori, dove ho sbagliato indirizzo scegliendo un tecnico informatico. Senza il calore dei miei insegnanti avrei sicuramente rischiato di prendere una deriva cupa e triste. Il seme da loro piantato conteneva invece un metodo, un modo di fare, un valore inestimabile che ho compreso solo verso i venticinque anni.
Ricordo il professor Lombatti, così attento alla dimensione della comunicazione e del pensiero critico, portare costantemente alla nostra attenzione temi riguardanti l’ecologia, la psicologia e l’educazione civica. Non usava mai i libri di testo ed evitava completamente la letteratura suscitando non poche proteste da parte dei genitori: mamme e papà mal tolleravano che si deviasse dalla programmazione standard. Questo professore aveva addirittura organizzato le lezioni domiciliari, portandosi di volta in volta un gruppetto di compagni perché io potessi mantenere un minimo di socializzazione. Purtroppo, essendo ancora inquadrato nei miei schemi, non ero stato molto recettivo nei confronti di quelle modalità didattiche. Studiavo per il voto, non per dire la mia opinione, né tantomeno per doverla giustificare. Dell’ecologia mi interessava poco, della politica ancora meno e la sofferenza fisica mi aveva portato a isolarmi più che a desiderare compagnia.
Ma ricordo anche i miei professori delle superiori che non hanno mai fatto venire meno il loro aiuto nonostante io, a un certo punto, avessi manifestato una certa ostilità nei confronti delle materie tecniche e matematiche. Loro hanno tutti pazientemente accolto l’adolescente che ero e mi hanno spronato a seguire la via che mi fosse più congeniale.
Se ho maturato un impegno sociale e un’attenzione particolare per le nuove generazioni è stato sicuramente merito di tutti questi mentori che mi hanno insegnato l’importanza del lato umano della scuola, di cosa significhi aver cura dello studente.
Valentina Riva
Come uscire da una visione scolastica che ci vorrebbe sempre performanti? Alunni e docenti sono uniti da difficoltà e frustrazioni che spesso non vengono riconosciute come condivise. Turchi ci narra la sua esperienza scolastica, come alunno prima è come insegnante poi, e cerca di dimostrare come comunicazione e relazione siano elementi imprescindibili in ambito scolastico.
Federico Dazzi
Come trasmettere il senso della scuola e dell’insegnamento? Se lo chiede Giuseppe Turchi, e ce lo racconta attraverso la sua esperienza di giovane docente. Con la prospettiva di uno sguardo interno ai processi reali del mondo scolastico è così possibile individuare i pregi e i difetti di un’istituzione che deve confrontarsi con le esigenze di un presente sempre in divenire. Solo vivendo dentro a questo mondo e raccontandolo, è infatti possibile comprendere a fondo le vere problematiche dell’universo della scuola.