Gianni ha quarant’anni, è molto legato ai suoi genitori e innamorato di Sara. La sua storia è fatta di tentativi, determinazione e tanta, tantissima ironia, presente in ogni aspetto della sua quotidianità. Dal ruolo di lavapiatti a quello di speaker radiofonico in un programma tutto suo, le battute, le barzellette e gli aneddoti lo condurranno ad avanzare con spirito e leggerezza, senza mai abbandonare lo slogan che più lo rappresenta. Un pensiero di cui ormai, dopo tanto lavoro su di sé, va più che fiero: “Io non sono normale”.
Capitolo 1
Io non sono normale. Stamattina mi è tornata in mente questa frase mentre bevevo il caffè.
Guardavo fuori dalla finestra, sorseggiando, e mi gustavo lo spettacolo del cielo grigio, di quel grigio che solo Milano riesce a regalare.
Mi chiamo Gianni e ho quarant’anni, e anche qualche capello brizzolato che comincia a spuntare, però il fisico è ancora quello di quando avevo vent’anni: leggermente sovrappeso e col mal di schiena.
L’altro giorno, mentre riordinavo degli scaffali, mi sono capitati in mano i vecchi diari su cui annotavo di tutto: piccoli avvenimenti, cose curiose, dialoghi divertenti, insomma buona parte di ciò che mi è capitato, in questi primi quarant’anni, che fosse degno di nota.
Fra le tantissime cose che c’erano scritte, mi è balzato agli occhi proprio quel “Io non sono normale”. E me lo sono ripetuto giusto ieri, quando mi è venuto a trovare un amico. Lavoro in una radio, faccio lo speaker e lui è un mio collega. Passava da queste parti così ha pensato di farmi una visita. Si lamentava di tutte le varie incombenze familiari, delle scadenze col fisco e col lavoro e io pensavo tra me e me che se vai da qualcuno a trovarlo non devi portare con te tutti i tuoi problemi, perché magari si può pensare che la visita sia solo per scaricare le tue preoccupazioni sull’amico.
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Tra una lamentela e l’altra, guardando Fromm, il mio gatto steso sul calorifero, ha detto: «Certo che fanno una bella vita i gatti… Guarda il tuo! Mi piacerebbe essere come lui».
«Lo abbiamo fatto castrare» ho risposto, così, senza riflettere. Anche in quel momento, mi sono ripetuto: No, io non sono normale. Ma subito dopo ho pensato: E meno male! Per esempio, quando qualcuno dice di essere una persona solare, io mi chiedo subito, sorridendo, dove diavolo possa avere messo i pannelli fotovoltaici. Non sopporto quelli che ci tengono tanto, tanto, tantissimo a dirti come la pensano su qualunque cosa, perché loro sanno di qualunque cosa, dalla fisica nucleare alla lattoneria… perciò credo che debbano essere laureati in lattoneria nucleare: cioè, nel piegare ogni cosa alle loro teorie del cavolo.
Sì, io non sono normale e d’altronde si sa che visto da vicino nessuno lo è.
Così, quasi senza volerlo, più leggevo quei diari e più mi trovavo a ripensare alla mia vita fin qui e come negli anni questa frase abbia cambiato senso, dall’originale significato spregiativo all’attuale assolutamente positivo.
Quando sei un ragazzo vorresti tanto essere come i tuoi compagni, i tuoi amici, che ti sembrano tanto incredibilmente perfetti, mentre tu ti senti un gelato alla vaniglia e cozze. La verità è che se sono quello che sono lo devo ai miei genitori, che mi hanno sempre lasciato libero di essere e di fare, libero di trovare la mia strada e si sono fatti in quattro per permettermelo.
Mio padre si chiama Franco e faceva il magazziniere, mia madre Maria e faceva la sarta. Ora sono in pensione.
Il senso dell’umorismo l’ho certamente preso da loro. D’altronde l’ironia non credo che si possa imparare, si può certo affinare imparando i cosiddetti trucchi del mestiere, ma penso che sia una dote naturale, un modo di pensare alternativo; ecco, un pensiero laterale. Per farvi capire, vi riporto un breve episodio che ho appena letto su uno dei miei diari e che, secondo me, rende bene l’idea di quello che intendo dire.
Una sera stavamo guardando la televisione, o meglio i miei guardavano un noiosissimo programma e io disegnavo. Il programma parlava del fatto che i padri dovrebbero passare più tempo con i figli, portarli da qualche parte solo per il piacere di stare un poco insieme, così mio papà se ne uscì con una battuta. O almeno ci provò.
«Mio padre, da piccolo, mi portava sempre nel bosco…»
«Ma tu ritrovavi sempre la strada di casa» lo interruppe mia madre. «L’hai fatta almeno un milione di volte questa battuta… Ogni tanto potresti anche rinnovare il repertorio.»
«Eh lo so, ma è che ci sono affezionato… è uno dei miei cavalli di battaglia!»
«Guarda che il tuo cavallo somiglia più a un asino» intervenni io, alzando appena gli occhi dal foglio. Ero piccolo, sì, ma evidentemente dotato di un innato, bastardissimo senso dell’umorismo.
Un’altra volta mio padre mi raccontò del suo primo colloquio di lavoro. Giurò che si era svolto esattamente in questo modo, anche se io non gli credetti. Accomodatosi davanti a un tizio coi capelli grigi, vestito con un completo grigio in un ufficio grigio, e con la pelle del viso e delle mani piuttosto biancastra, questo gli chiese: «Livello di inglese?».
«Ottimo!» rispose mio padre.
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