Quando Angelika, astrofisica di fama mondiale, riceve dalla Specola Vaticana l’incarico di monitorare il misterioso Pianeta X, presunto in rotta di collisione con la Terra, non immagina che la sua vita prenderà una piega drammatica e imprevedibile. Al ritorno da un viaggio a Roma, scopre che suo figlio Albert è stato rapito. Nel disperato tentativo di salvarlo, Angelika viene trascinata in un intrico globale di segreti, sperimentazioni genetiche e complotti che coinvolgono i potenti del mondo. Da Edimburgo a Torino, dall’Australia all’India, la sua ricerca la conduce al cuore di un piano inquietante: la creazione dell’essere umano perfetto, destinato a sopravvivere oltre l’apocalisse. Mentre Angelika si addentra in una rete di segreti, poteri occulti e scoperte sconvolgenti, deve affrontare non solo forze sovrumane, ma anche i propri limiti e paure. Tra tradimenti, rivelazioni scioccanti e sacrifici estremi, la protagonista si scontra con i demoni del passato e le ombre del presente, decisa a portare alla luce ciò che i potenti vogliono occultare.
Prologo
Stava guardando il calendario. Era il 6 aprile di un anno che difficilmente avrebbe potuto rimuovere dalla memoria. Ci sarebbe mai stato per lei un futuro tanto remoto da riuscire a stemperare le tracce di quel drammatico presente? I suoi occhi stavano suggellando un patto col tempo: il ricordo in cambio del riscatto da una sofferenza immensa, incontenibile in alcuna logica di pensiero e di cuore. L’immagine di quel tulipano, impronta di sangue impressa sulla pagina del mese, avrebbe costituito per sempre l’ombra dolorosa della terribile esperienza che stava vivendo.
Esattamente due anni addietro se ne era andata da Cracovia, dalla sua casa, dai suoi affetti, lasciando di sé solo una lettera indirizzata alla famiglia. Un pezzo di carta, una lama, un filo d’Arianna affidato alla nostalgia.
Capitolo 1
Quel pomeriggio lasciò presto il dipartimento di Astronomia Stellare ed Extragalattica.
Contrariamente al solito, invece di concludere le normali ore di lavoro, si accomiatò dai colleghi adducendo come scusa un improvviso malore, eclissandosi subito tra i protettivi meandri della solitudine per non dover dare ulteriori chiarimenti, e soprattutto per cercarvi coraggio e volontà da anteporre ad amore e rimpianti. Percorse i consueti otto chilometri fino al centro cittadino in uno stato di lenitiva astrazione; quindi, anziché dirigersi verso casa, deviò per la ulika Golebia, fermandosi qualche minuto a discorrere con il simulacro di Mikołaj Kopernik, posto di fronte al Collegium Novum dell’Università Jagellonica.
Era stato in occasione del suo settimo compleanno che per la prima volta aveva avvertito la presenza di quella statua, benché ci passasse davanti ogni domenica per andare a messa con la famiglia nella basilica di Santa Maria. O forse era stato lo stesso grande scienziato ad accorgersi di lei. Fatto sta che, prima con discrezione attraverso i libri scolastici, poi via via sempre più a forza con i più esaustivi testi universitari, Copernico e l’astronomia si erano insinuati nella sua esistenza, fino a divenirne l’unico faro cui appoggiarsi per non vagare alla deriva in quel mare di disillusioni in cui si era andata inesorabilmente trasformando.
Erano trascorsi ormai dieci anni dalla morte della sorella minore Paulina, impiccatasi appena quattordicenne al lampadario della propria stanza, e lei ne pagava ancora il fio. Il rimorso per aver scelto di andare a trascorrere il pomeriggio da un’amica lasciando la sorella sola in casa e il peso di doversi all’improvviso gestire autonomamente di fronte alla compatita latitanza del padre e della madre avevano scandito ogni istante di quel lunghissimo decennio, facendole venire spesso dei dubbi sull’utilità di quella vita senza vita. Era come se il dramma esistenziale di Paulina, invece di risolversi con la sua morte, si fosse propagato come un morbo in tutta la famiglia. La medesima angoscia, che aveva probabilmente indotto la sorella a uccidersi, si era fagocitata l’anima dei genitori, trasformando le sue esigenze di emozioni, di interscambi di affetto, di luci e ombre in un lento e inesorabile sopravvivere.
Parlare con una statua era dunque l’unica stravaganza che Angelika ancora si concedeva. Quel giorno, tuttavia, neppure il vecchio, leale amico di bronzo riuscì a scacciare i fantasmi che da giorni ormai le stavano trasformando in incubi i pensieri. Se ne andò quasi subito, oppressa da una spiacevole sensazione al petto, lottando, così come l’ultima neve ai lati delle strade, contro il profumo della primavera che in altre occasioni l’avrebbe con facilità lusingata.
Un ultimo, rapido saluto alla Vistola, agli schizzi bianchi dei cigni in lontananza, al castello di Wavel sulla collina col suo principe immaginario e i sogni e la fanciullezza. Indossò l’abituale maschera dell’indifferenza e raggiunse la propria abitazione, dove attese la complicità rassicurante della notte per dare l’ultimo mediato saluto ai genitori.
Scendendo in strada, si sforzò di abbandonare su ogni scalino un po’ di peso di quegli anni.
Il taxi prenotato la stava aspettando. Vi salì senza rimpianti, percorrendo quindi i circa undici chilometri che la separavano dall’aeroporto Jana Pavla II, non ancora del tutto libera da paure e frustrazioni, ma assai più serena.
Seduta su un muretto a contemplare il sopraggiungere di quella nuova alba carica di speranze, attese pazientemente l’apertura del volo per Edimburgo, prenotato una settimana prima. Giusto un mese dall’arrivo in facoltà dell’offerta di lavoro da parte del centro astronomico britannico al quale si era rivolta, affidando a quella risposta tutta la responsabilità del proprio futuro.
Capitolo 2
Il suo sbarco a Edimburgo, dopo la sofferta fuga da Cracovia, fu accolto da una splendida giornata di sole. Segno che anche la natura, a volte, ama prendersi gioco della nostra credulità in fatto di segni del destino.
Appena due giorni addietro Angelika era riuscita a trovare, tra i tanti bed and breakfast, ostelli, guest house che aveva visitato su Internet, una stanza a mezza pensione per una cifra ragionevole. Si era affrettata a prenotarla, dopo di che era andata in banca per chiudere il conto e ritirare i pochi frutti ancora rimasti dei propri risparmi. Anche se a malincuore, quel giorno, per assicurarsi un taxi che la conducesse fino al centro della città, decise di sacrificare parte del prezioso raccolto.
Venticinque minuti durò il tragitto, e li trascorse tutti tra propositi di forzati digiuni e speranze affidate al buon cuore e alla pazienza della locatrice nell’attendere almeno l’arrivo del suo primo stipendio in terra scozzese.
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