La scena è definitiva: la nuda volumetria degli spazi, signoreggiata dai neri contorni del mobilio, risalta nella penombra generativa di tutte le assoluzioni; un gelo di morte contamina lo spazio spettatore con un drappo colloso di sgomento che sembra non conoscere confini.
Cala la pace, inaspettata, su ogni palpito che è stato.
La pace autentica, non una caricatura a carboncino, dove luci e ombre respirano la medesima caligine.
Un rivolo di sudore ghiacciato percorre la schiena, un sospiro sommesso sfugge di gola: non avrebbe mai immaginato che potesse essere così facile arrivare fin lì, che una manciata di secondi sarebbe stata sufficiente per rimettere in pari la bilancia, che quella vita miserabile non avrebbe opposto il benché minimo accenno di resistenza alla mano compassionevole che tante volte ha stretto, che per ultima la stringe.
Come un faro in rovina, che un'onda sconquassa.
Il corpo giace a terra, sgravato al pari dell’aggressore. La compostezza della postura, il candore delle mani, la mimica del volto: la ferocia della morte non è riuscita a scalfire nulla di tutto ciò in quel soffio di carne riverso al suolo. Non c'è nulla di impressionante in quel cadavere. Leggiadro, mantiene una grazia diafana, che la ferocia degli uomini non potrà contendergli: un esserino alato stremato da una migrazione controvento, questo sembra, che si conceda al rollio di un abbraccio. Fino ad annullarsi, in quell'abbraccio sovrano. Che lo protegge, e insieme lo fagocita.
Un sorriso sdrucciolevole solca il viso della donna, indomito: l’emicrania le è passata.
È tempo che ogni frammento della scena si aduni in un ritratto mentale definitivo.
L’assassina si china sulla vittima per accertarsi del decesso: un atto necessario, che trascolora la liturgia di movimenti puntiformi in un sollievo narcotico, e così facendo li rischiara alla scintilla del sublime.
Sublime come un principio che scaturisca da una fine, fino a confondersi con esso; come un acuto acquattato al fondo di un rantolo. Come la volontà di dire basta: basta menzogne, basta tentativi funambolici di capire, di capirsi.
Il trionfo della volontà sulla carne è una vittoria ai punti, il suo frutto più pregiato la donna lo stringe al petto: il respiro si placa, si smorza lo spasmo, la tensione dell'impeto svapora in una nuvola di piacere soffuso, inatteso.
Delizioso.
Sull’angusta vastità della stanza si staglia la banalità del male, di tutti i mali di oggi e di ieri: è la sua mano a disegnare una crepa dalla quale irrompe il silenzio, il grande Demiurgo. Adesso che il tempo delle parole è scaduto, adesso che l'estremo sacrificio alla Coerenza è stato immolato.
Più facile che sui libri, tra le cui pagine tutto sembra facile. Facile compiere un delitto, facile smascherarlo; facile assicurare alla giustizia il colpevole.
Facile identificarlo, il colpevole.
Ma la vittima… che dire della vittima? È anch’essa succube silenziosa di un incastro d’acciaio che la condanna allo svelamento? O può, lei per lo meno, con un colpo di reni sgusciare via dal fuoco della lente, dritta in bocca all’oblio?
Questione di una crucialità sorprendente, sulla quale ci si sofferma troppo di rado: se così fosse infatti, se sull’identità della vittima si potesse rimanere appesi a un punto interrogativo, sarebbe in fondo come lasciare oscillare, incagliata a quell’appiglio fatale, la stessa veracità del delitto.
Avrebbe mai avuto luogo, quel delitto? Quanta scelta rimarrebbe ancora in mano agli uomini?
Quanta luce, un istante prima del baratro?
Bisognerà adesso fare i conti con l'incombenza più ingrata: sbarazzarsi del cadavere; occorrerà agire in fretta con quel corpicino emaciato divenuto di piombo, perché nessuno abbia ad accorgersi di nulla. Quando tutto sarà finito, verrà il tempo di scavare una buca ben più grande, sufficiente questa volta a divorare le spoglie di un affetto viscerale come il tempo, che al tempo si è piegato.
Chissenefrega, le viene da sputare fuori.
Un refolo di vento: nella minuscola stanzetta l'oscurità soccombe alla saetta di luce sgorgata dalle persiane, tagliente come un verdetto. Gli zampilli di luce che filtrano dalla persiana, appena sufficienti a tagliare l'oscurità che regna nella stanza, investono per un attimo i lunghi guanti neri di neoprene spessorato: lasciare impronte digitali rappresenterebbe un passo falso imperdonabile.
C’è tutta la perizia dell’assassino, nascosta dietro quella cortina di neoprene.
Fuori i suoni e i colori del mondo, riluttante a sfiorare una vicenda fin troppo umana.
In piedi, la donna si fa scudo col cuscino, trattenendolo come fosse un naturale prolungamento del corpo, quasi un'appendice accordatale da un curioso deragliamento dell'evoluzione biologica.
Due passi sono sufficienti a raggiungere la sacca che ha portato con sé, da cui estrae un telo di cotone immacolato. Si accinge ad avvolgervi il cadavere, con una cerimoniosità loquace. Avvolto nel suo sudario, il corpo della donna dista adesso un passo dai suoi piedi.
Si guarda intorno: di certo tra un istante la stanza si riempirà di urla e di mani. Prova a spostare il corpo: dall’orizzonte del cotone si affaccia una tela triangolare di pelle, vi campeggia un monogramma incomprensibile.
Guarda meglio. A giudicare dai bordi sfrangiati deve trattarsi di un tatuaggio eseguito venti o trenta anni prima: raffigura una scimmietta, dagli occhi tondi e dalla coda lunghissima, ripiegata alla maniera di un pastorale; il tratto ingenuo col quale è realizzato ha qualcosa di ripugnante.
Meglio soffocarlo nel cotone.
Appena udibile, un rumore di passi in lontananza: tra una manciata di secondi qualcuno sbucherà dalla porta che dà sul corridoio.
Non c’è più tempo: questo no, non lo aveva previsto.
Non riuscire a trasferire quel blocco di tela e carne nel grembo della terra, al sicuro, ecco quello che davvero le dispiace. Per il resto, non che faccia chissà quale differenza: nascondersi ha per lei un’importanza relativa, le basta essere stata assolta con formula piena dal tribunale dentro la sua testa.
Adesso è il momento di fuggire da quel luogo pestilenziale, carico di passato e privo di futuro.
La porta cigola sui cardini, poi un istante eterno.
Gli sguardi si incrociano: forse no, non sarebbe stato così quella volta.
Forse quattro braccia sarebbero riuscite dove due erano sul punto di desistere.
Il lavoro viene portato a termine con pulizia e precisione, i movimenti lesti e concordi. C’è tanta sapienza spaziale in questa danza di corpi. Ogni insulso dettaglio di quel microcosmo le è noto: migliaia e migliaia di volte ha posato gli occhi sulla trama aspra di quei luoghi. Tanto quanto di chi li abitava. Un’ultima occhiata all’intorno, prima di scomparire: via, nella luce.
Dimenticare, per tornare a vivere.
2
Pagina bianca e rosa rossa
L'ogiva di metallo si alza e si abbassa. Come una belva messa alla prova da un lungo digiuno, attende il suo pasto. Il pungiglione lucente perlustra la distesa abbagliante di cellulosa. Fiuta il rigo. Sul pantano limaccioso del foglio è di scena il nulla; la disperazione manovra la mano che, con diligenza orfana di aspettative, impugna quella penna di piombo.
Vorrebbe essere altrove.
Appunta gli occhi sbarrati sulla pattumiera accanto al piede della piantana, ingombra di pallottole di carta. Scuote la testa: all’arte non si comanda. Come al cuore, con buona pace dei cultori della prima e del secondo. Del resto è certa che insistere sarebbe come tentare di cavare sangue dalle pietre. Sgorgasse almeno, il sangue: servirebbe a profanare l’ottusità immacolata di quel foglio che, dal cerchio di luce disegnato sulla scrivania, sembra sfidarla.
Sta provando a smaltire le scorie di un pomeriggio da dimenticare, trascorso in bilico su una sedia che mai aveva avvertito così scomoda.
Il campanello è un sussulto. La mano corre al petto. Non aspetta nessuna visita. Non riceve mai visite in quel luogo, sospetta che molti dei suoi conoscenti non ne conoscano neanche l’esistenza. Ama custodire quello spazio come un dominio esclusivo. Un po’ a fatica si alza dalla sedia e si trascina fino alla porta. Indugia a lungo con l’occhio francobollato allo spioncino. Perplessa, fa scattare la maniglia della porta blindata. Davanti a lei il solo zerbino. Si sporge per guardare a destra e sinistra, fino all’ascensore. Nessuno, la cabina è ferma al piano di sopra. Tende l’orecchio, prova a cogliere una scia di passi lontani, che la tromba delle scale avrebbe necessariamente amplificato. Nulla. Avrebbe bisogno di andare in pensione quello zerbino troppo malconcio.
Sullo zerbino, una nuvola rossa.
Solleva la rosa da terra tenendola con indice e pollice, con rispetto timoroso. Ha paura di pungersi.
Ne è attratta, allo stesso tempo, al punto di non fare caso alla stranezza di quella epifania.
Al fatto che la rosa non sia accompagnata da un biglietto, o da alcunchè.
Prova ad annusarla, l’odore che l’attraversa per poco non la stordisce.
La mano le trema: le viene da pensare che quella rosa potrebbe non essere lì per lei, in tal caso lei sarebbe benissimo una ladra. È sul punto di lasciarla cadere, ma poi ci ripensa.
Dubita possa esserle stata mandata dalla sua compagna, non ha mai avuto di queste attenzioni. Figurarsi in questi giorni, poi. Ci pensa su: non c’è alcuna ricorrenza all’orizzonte. Rimarrebbe comunque il problema di come abbia fatto la rosa a raggiungere il suo zerbino, dato che sembra l’unica anima viva in quel palazzo.
Decide di tenerla con sé, un istante prima di chiudersi la porta alle spalle.
Impiega il tempo dei passi che la separano dalla sua postazione per decidere che farne, poi si convince a riempire d’acqua un vaso di ceramica smaltata che da tempo reclama attenzioni. Poggia il vaso con la rosa su una mensola lontano dal camino, deve ammettere che insieme stanno proprio bene.
Decidere dove posizionarli non è difficile.
L’immensa sala è ammobiliata con spirito minimalista: un tavolo, un mobile basso, qualche mensola, un minibar in un angolo. Niente televisori o distrazioni elettroniche, di alcun tipo: in quel luogo non si scherza. L’atmosfera traboccante di vaniglia Bourbon è presidiata dal ticchettio guardingo di un orologio a parete, che scandisce una litania lontana: tutto, dalle luci agli odori, è stato studiato per solleticare i sensi e amplificare la percezione. Dalla moquette filtra adesso il suono appena udibile di una tromba, proviene dal piano inferiore.
La vita si rimette in moto, in quello spicchio di mondo.
Castrante, le viene da pensare: l’unica parola che, in quel pomeriggio di tedio, le sia venuta incontro tra quelle mura ovattate. L’unica che abbia il coraggio di spiegare le ali in quello spazio di melassa.
Ci sa fare con le parole, Steno.
Sa come prenderle, come tenerle in riga.
Le rispetta, non le teme, forse perché di loro ha imparato a fidarsi.
Perché da loro è sempre stata contraccambiata, in una corrispondenza d’amorosi sensi.
Ha imparato a maneggiarle a piacimento più o meno una vita fa, non era ancora una donna: aveva imparato a forgiarle dalla materia incandescente delle emozioni, a brandirle quando necessario, a ripararvisi sotto quando fuori continuava a piovere di brutto.
Le ha sempre considerate per quello che sono: porte. Alcune delle ampie porte a vetri, capaci di lasciarsi attraversare dalla cascata di luce del mattino. Altre delle porte di rappresentanza, levigate, austere, coi pomoli d’ottone tirati a lucido. Altre ancora delle porte blindate, buone solo a separare un dentro da un fuori, per evitare che vengano alle mani. Le sue preferite erano le parole – porte girevoli, capaci di mettersi in moto al minimo tocco, le peggiori le parole – porte scorrevoli, cedevoli ma infide, delle quali non si può far altro che servirsi, senza mai però sentirsene padroni. Parole randagie, cui è impossibile affezionarsi, pronte a mordere la mano del padrone. A occupare il gradino più basso della gerarchia sociale dei lemmi erano però le parole – botole: rozze e sconnesse, prive di alcuna attrattiva, hanno il viziaccio di cigolare sotto quintali di pregiudizi, inchiodate ai ceppi di un unico significato, il solo alla loro portata.
Torna al posto di combattimento, indecisa se arrendersi per quel giorno: no, c’è quell’aiutante misterioso adesso al suo fianco, le viene da pensare che non tutto magari è perduto.
Non è più una bambina, forse per questo la prospettiva di un ammiratore discreto e galante la seduce. La rosa, poi, è un fiore che concentra in sé un ventaglio di significati sterminato.
Chi gliela avrà mandata?
[…]
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