Certamente, le dissi, quando vuoi fare ?
Mi dava del lei, a me era venuto naturale darle del tu.
“Non darmi del lei”, mi sentii di dirle, “non ho nemmeno cinquant’anni”.
Si scusò, quasi volesse schermirsi dalla propria avventatezza e alzò la mano sul viso.
Il lunedì successivo Elena si fece viva per organizzare l’intervista. Le fissai un appuntamento da me in via Morimondo , uno spazio che un tempo era un vecchio magazzino che sapeva di catrame.
Feci molta fatica ad acquistarlo , non avevo un soldo all’epoca.
Vittorio, il proprietario, me lo aveva proposto e quando mi disse il prezzo pensai a uno scherzo.
Valeva almeno il doppio e comunque non avevo il becco di un quattrino.
Ma lui mi disse di non preoccuparmi, che lo avrei pagato coi miei quadri, poiché era sicuro che un giorno sarebbe stato lui a fare un buon affare.
Vittorio aveva fiuto, investiva sui giovani artisti e la sua sensibilità veniva poi quasi sempre ripagata dal loro successo.
Alla fine concludemmo l’affare, ed emozionati, quel giorno, stappammo insieme una bottiglia di champagne.
Aveva da poco tempo venduto la sua azienda a una multinazionale tedesca, poteva così finalmente godersi la vita e dedicarsi alle sue passioni, prima su tutte la musica.
Suonava il piano maledettamente bene, credo che se avesse scelto quella strada sarebbe diventato un musicista affermato.
Amava il jazz , alla tastiera era più uno sperimentatore che un interprete, con un orecchio eccezionale riusciva a improvvisare fraseggi davvero originali.
“Suono come le balene artiche, non so leggere lo spartito ma compenso con l’orecchio”, diceva spesso scherzando.
“ Sei in buona compagnia, anche Buddy Bolden non sapeva leggere la musica”, gli rispondevo ridendo.
Lo aveva scoperto durante un viaggio in Groenlandia, era stata per lui un’esperienza straordinaria, i microfoni sotto il ghiaccio registravano un canto inimmaginabile, suoni simili al jazz.
Era contagioso ascoltarlo, raccontava quella storia con l’entusiasmo dei bambini, gli luccicavano perfino gli occhi.
Quante volte avrei voluto essere là con lui mentre continuava a raccontarmi che i maschi mettevano addirittura in scena una competizione canora per attrarre le compagne. Insomma, la solita vecchia storia della seduzione, perfino nel profondo dell’Artico, commentavo divertito.
Spesso, in quei momenti interveniva Susanne, sua moglie, che da giovane doveva essere stata una donna bellissima. Lo intuivo da alcune fotografie incorniciate sopra un piccolo tavolo impero. Me ne piacevano due in particolare, una dove erano abbracciati di notte, in riva al mare con un panama in testa, entrambi vestiti di bianco.
L’altra era dentro una cornice d’argento. Tutta la famiglia era in abito da sera, Vittorio e il figlio Leonardo in smoking, Susanne con un vestito lungo rosso e due orecchini d’oro a candelabro che le accarezzavano il volto. Avevano un’espressione felice e Leonardo assomigliava molto a suo padre, quando sorridevano erano come due gocce d’acqua. Finito il liceo era andato a studiare medicina a Boston, poi dopo la laurea si era fidanzato con una compagna di corso e trasferito a New York.
Susanne mi invitava spesso a colazione , credo le andassi a genio, forse perché io e Vittorio un po’ ci somigliavamo, lei era convinta che due nati sotto lo stesso segno non potevano che andare d’accordo. Sosteneva che avessimo gli stessi gusti e che anche suo marito era un artista anche se la vita aveva scelto diversamente per lui.
L’ultima volta che vidi Susanne era serena, non avrei mai immaginato che sarebbe morta di lì a pochi mesi.
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