PREFAZIONE
L’amore pensato, l’amore desiderato, l’amore che ti vincola e ti tiene stretto a sé. L’amore che ti delude e che ti lascia lo sconforto dentro. E non sai come fare per scrollartelo di dosso.
Cresce nel tempo, non curando che al suo fianco, prima o poi, irrompe la disperazione.
E poi chiudi gli occhi. Per farla finita.
Per non soffrire più e mettere a tacere, dentro di te, il fallimento.
Non capendo che ogni amore riserba in sé l’alternativa visione, quella da cogliere, rinnovare e custodire.
Fino alla fine.
Per aprire gli occhi. Per ricominciare ad amare. Ancora una volta.
L’amore conta.
L’amore conta.
Conosci un altro modo
per fregar la morte.
Ligabue, L’amore conta, Nome e Cognome,
Warner Music Italy, 2005.
Capitolo primo.
La scelta di Annette
La schiuma delle onde si faceva sempre più notare all’occhio fermo e stabile della spiaggia. Prendeva terreno, conquistava spazio e poi, ritirandosi, lasciava dei solchi e un rumore come di friabilità sulla battigia. Il vento di Tramontana ne sosteneva la gittata e troneggiava sul mare, quasi a incitare l’efficacia del suo agire. Era come un capovoga che detta la direzione e il ritmo fino al raggiungimento del traguardo.
Non si spiegava come, all’improvviso, il mare avesse deciso di mostrare quella faccia. Il giorno prima era stato incantevole e senza increspature e poi, già nella notte, aveva agitato i sogni delle persone.
Solo il mare conosceva il vero motivo per cui aveva assunto quelle sembianze: si era manifestato così a lei, per distoglierla da quell’intento contro natura che aveva lucidamente preparato. Per turbarla, impaurirla e alla fine terrorizzarla a non compiere quel gesto.
Aveva chiesto aiuto al vento e ai gabbiani che si erano posizionati in fila orizzontale quasi a formare una barriera che, come un frangiflutti, respingesse l’intento di morte. Anche il sole aveva deciso di unirsi a loro mostrando un pallore mai visto sino a quel momento.
Lei si alzò presto quella mattina.
Dopo una notte tormentata, passata in compagnia delle sue tristezze, stremata, aveva deciso di prepararsi, come sempre, una tazza calda di tè verde e poi, aprendo leggermente la porta della stanza dove la madre dormiva, di dare un ultimo sguardo – il più dolce che era riuscita mai a regalare – a chi le aveva donato la vita, fardello che adesso le era divenuto così insopportabile.
Chiusa la porta della stanza, il respiro iniziò a farsi corto. Forse perché la vita stava tentando un ultimo sforzo per farle cambiare idea e ingannare la sua attenzione così funestamente focalizzata.
Il cuore cominciò a batterle sempre più forte, ingrossandole le vene; il sudore a inumidirle le mani e un tremolio diffuso le provocava disorientamento alle gambe. Brividi di freddo percorsero il suo corpo e un senso di nausea l’avvolse. Quello stato mentale e fisico così fragile, che avrebbe fatto desistere chiunque dal compiere qualsiasi azione, non le impedì di aprire la porta e uscire di casa senza voltarsi indietro, verso la strada che l’avrebbe portata lì, davanti al mare.
La casa dove abitava non distava molto dalla spiaggia. Si trovava a tre isolati dal lungomare che, come un lungo serpente di cemento, univa la parte del vecchio porto a quella nuova, colonizzata da diversi locali. Lei non si lasciava sedurre da quel frastuono, ma preferiva posizionarsi come un’osservatrice esterna non partecipante. Non amava mischiarsi agli altri né condividerne le argomentazioni. Quando usciva, faceva delle lunghe passeggiate incurante della gente che le stava attorno e di tutte quelle relazioni che danno forma a una comunità.
Aveva un solo amore: Hop, il suo gatto siberiano.
Preso ramingo, salvato dalla fame e dalle angherie degli altri gatti, era divenuto il suo motivo di vita, il suo silenzioso compagno assieme al quale condivideva la quotidianità e a cui raccontava i lamenti della sua anima.
Hop l’ascoltava. Sempre. Con attenzione, senza interromperla. Le mostrava tutta la sua comprensione e il suo affetto stringendo gli occhi ed emettendo suoni d’amore.
Quella mattina Hop non si svegliò. Non era la solita mattina, quella dove miagolava incessantemente reclamando la doppia razione di “C”, cibo e coccole.
Quella mattina era diversa. Lei aveva deciso di farla finita.
Alison aveva deciso di tagliare definitivamente i ponti con tutti.
Anche con Hop.
Gli aveva messo delle gocce di anestetico nel cibo, quelle che si danno ai gatti al momento della castrazione, in modo che non si fosse potuto rendere conto della situazione. Per questo era rimasto quasi inerme, senza emettere alcun suono, quando lei gli mandò un ultimo bacio per dirgli addio.
In verità quello non era stato l’unico addio nella sua vita.
Ne aveva vissuto un altro che l’aveva condizionata per tutto il tempo; solo che lei, come il suo gatto, sul momento, non ne era consapevole.
All’età di sei anni, il padre aveva abbandonato lei, la sorella gemella e la loro madre ed era partito per un lungo viaggio dal quale non era più tornato. Sua madre da allora le aveva creato attorno una realtà fittizia, raccontandole che il padre era morto per via di un malore accusato in spiaggia. Questo aveva tramutato il pensiero d’amore in dolore e il dolore in angoscia.
La sua vita era stata per sempre segnata da quell’evento a cui lei non aveva potuto porre alcun rimedio. Nonostante fosse cresciuta in un luogo sicuro e affettivamente stabile, avesse portato a termini gli studi universitari e, poi, fosse diventata una rinomata psicologa, la bolla dell’abbandono che, di anno in anno l’avvolgeva, aumentava di spessore rendendo vani i tentativi di liberazione che saltuariamente aveva provato a mettere in atto.
Sulle sue minute spalle era riuscita a caricarsi le storie degli altri, a decomporle, sezionarle e poi con un’operazione di raffinato collage a rimetterle insieme per dare loro un senso, dando giovamento e rinnovata fiducia nei suoi pazienti. Ma con la sua, di storia, non era riuscita nell’operazione, né altri erano mai riusciti ad allontanarla da quella estenuante lacerazione che la mancanza del padre aveva prodotto.
Forse perché c’era qualcosa che ancora andava messo a fuoco, portato alla luce.
Ma lei non poteva esserne consapevole, non sapeva la verità di quel fatto che adesso pareva decretare irrimediabilmente la fine della sua esistenza.
La verità era che suo padre se ne era andato di casa, abbandonando all’improvviso i suoi cari e senza alcuna spiegazione. Il fatto era accaduto in una torrida estate, in un giorno qualunque, mentre, come d’abitudine, erano in spiaggia per passare un’altra giornata in compagnia del mare.
Il padre di Alison aveva già raccontato alla madre di quest’ultima lo sconforto che provava dentro, ma che questo suo sentire, un giorno, si fosse potuto tramutare in un abbandono era francamente difficile.
Nemmeno la madre di Alison aveva dato il giusto peso a quelle emozioni, o, forse, glielo aveva dato e proprio per questo le aveva allontanate dai suoi pensieri, tacendo. Le aveva detto che, prima o poi, sarebbe partito per un lungo viaggio alla ricerca di quella striscia che si intravede al limite dell’azzurrità posta in fondo al mare per scoprire se effettivamente ci fosse un qualcosa, una terra, un regno nel quale ogni dolore potesse perdere d’intensità e ogni amore potesse rivelarsi nelle sue vesti più dolci.
Più passavano i giorni e si avvicinava quello della sua fuga, più l’umore di Peter andava annerendosi e i suoi comportamenti acquistavano sempre più mistero.
Poi la preoccupazione divenne il sentimento perenne che imprigionò la madre di Alison quando Peter smise di parlare, di giocare con le bambine e cominciò farsi sempre più rabbuiato: della sua figura si vedevano soli i contorni. Nessuno riusciva a capire cosa avesse pervaso la sua mente. Se ne stava giornate intere nel salotto di casa con lo sguardo cupo e senza nessuna apparente vitalità.
Era come sospeso nel vuoto. Quello della sua anima.
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La mattina dell’abbandono si allontanò con la scusa di prendere per le bimbe un gelato al bar del lido, adiacente alla spiaggia libera, soffice come un morbido e caldo tappeto su cui i bagnanti poggiavano i piedi. Dopo circa venti minuti, Peter non era ancora tornato. Un po’ preoccupata, la madre di Alison si recò al bar con la certezza di trovare lì il compagno, solito intrattenersi con i gestori del locale.
Arrivata al bar, fece come un gesto d’interrogazione alla signora addetta ai caffè, la quale, con fare misterioso, le rispose con un cenno del capo – aiutandosi con le braccia – indicandole di avvicinarsi perché doveva riferirle qualcosa.
Annette, così si chiamava la madre di Alison, arrivò con non poca tensione al capezzale e attese le parole della barista in fremente silenzio.
«Annette, ho visto Peter. È passato poco fa da qui.»
«Be’, quindi, dov’è andato adesso?» le domandò.
La sua mente tornò, in un lampo, a qualche tempo addietro: mise a fuoco le parole che Peter aveva pronunciato circa la sua volontà di partire per un lungo viaggio alla scoperta del limite che, in fondo al mare, traccia una linea di confine tra il visibile e l’invisibile, tra l’azzurrità e l’oscurità, tra la certezza e l’arcano.
Forse era giunto proprio quel momento.
Deglutì con difficoltà e con voce rotta richiese alla barista: «Dov’è adesso Peter?».
«Annette, è passato da qui solo per lasciare questo biglietto per te… sembrava molto scosso emotivamente, ma allo stesso tempo deciso nel suo fare. Scusami, ma non ho potuto fare a meno di leggere il biglietto. Tieni. Mi dispiace» le rispose la barista con un senso di colpa e di tristezza che le tagliava il viso.
Annette le strappò il biglietto dalle mani e corse verso l’uscita. Il suo respiro si era fatto affannoso e le palpitazioni del suo cuore le preannunciavano, come un nefasto messaggero, l’infausta notizia. Aveva da tempo relegato nel dimenticatoio della sua mente quel volere che Peter le aveva dichiarato, e che adesso sapeva di abbandono. Forse aveva dato per scontato che con il tempo alcuni pensieri avrebbero potuto perdere d’intensità e che quelle spigolature che si erano create delle vie degli affetti di Peter si sarebbero limate.
Del resto, non gli aveva mai fatto mancare niente né come compagna né come madre delle bambine. Era divenuta la sua confidente, poiché maneggiava con facilità l’arte dell’ascolto, dando beneficio a chi aveva la fortuna di interagire con lei.
Ma questi ragionamenti, seppur basati su fatti incontestabili, persero solidità rispetto alla nuda realtà che aveva sempre, come una tenaglia, stretto la relazione con Peter, rendendola in alcuni momenti pericolosamente asfissiante. Peter e Annette erano due delle tre persone che sapevano. Erano i sultani di un segreto che custodivano con fermezza e gelosia. D’altronde, non avevano niente da nascondere agli altri, poiché nessuno poteva sapere.
I loro cuori erano gli unici che battevano all’unisono trasformando le sensazioni in comportamenti d’amore per le gemelle, Alison e Marion.
Già le gemelle… due meravigliosi fiori nella distesa primaverile, due timide farfalle nella sterminata azzurrità del cielo, due amori da amare… incondizionatamente. Peter, in particolare, nutriva per loro una specie di venerazione, un amore iconico che alle volte diventava spasmodico per via della verità che il suo cuore continuava affannosamente a respingere. Non era riuscito a mettere a tacere, una volta per tutte, quella voce che, nell’ultimo periodo, troneggiava nella sua anima e lo riportava alla gelida verità, trasformando il suo umore e infiltrandosi, come pioggia, negli anfratti dei suoi sentimenti.
Questo processo gli provocava turbamenti, ripensamenti e valutazioni, nonché sconforto e dolore.
Il dolore presto avrebbe lasciato il passo alla disperazione, che si era manifestata in tutta la sua impetuosità quel torrido giorno d’estate.
All’uscita del bar, Annette non ebbe il coraggio di aprire il biglietto, forse perché era ormai rassegnata al peggio e così si diresse di corsa verso l’ombrellone dove le bimbe stavano giocando con i secchielli.
«Mamma, e i gelati?» le domandarono. «Papà è tornato con i gelati?» incalzarono.
Annette, affidandosi alle residue forze che le erano rimaste, disse che papà si era intrattenuto con un amico al locale. Annette, infatti, prima di terminare la breve conversazione con la barista, acquistò due gelati per le bimbe, forse per alzare il sipario della messa in scena che avrebbe allestito da lì a poco, fino a un tempo che, in quel preciso momento, non avrebbe saputo quantificare ma che avrebbe sicuramente, come morfina, lenito il dolore della perdita. Diede i gelati alle bimbe e disse loro di andarli a mangiare in riva al mare, per stare più fresche, così da poter, finalmente, aprire il biglietto e in solitudine conoscere la verità.
E così successe: le bimbe si allontanarono e Annette aprì faticosamente il biglietto per via del tremolio che comandava i movimenti delle sue mani. Anche gli occhi, avvertito il momento, si preparavano a esternare le emozioni. Poi lesse il contenuto:
Amore mio, è giunto quel momento. Non ce la faccio a sostenere più il peso dell’incertezza. Amo te e le nostre figlie, anche se non sono le mie figlie. Non riesco più a sopportare il fatto di non essere il vero padre delle bimbe. Ho deciso di andare via per cercare di placare il mio senso di colpa. Voi non c’entrate. Mi sono appropriato di un diritto di cui non sono il titolare: il diritto di amare le bimbe e di essere amato da loro. Alison e Marion devono amare il loro vero padre, non me. Perdonami. Saprai trovare le parole giuste per loro.
Addio. Perdonatemi.
Quelle parole pesanti come macigni frantumarono definitivamente le residue speranze che Annette conservava. Aveva pensato al peggio, ma non si aspettava quella durezza, quella fermezza e quella risolutezza con cui Peter aveva preso una decisione i cui effetti sarebbero stati devastanti per lei, per le sue bambine e, forse, anche per lui.
Peter amava Alison e Marion. Erano, come lui sempre diceva, le sue gemme rilucenti. Come aveva potuto fare loro questo? Dove aveva trovato il coraggio per fare questa scelta? Dove era finito l’amore struggente per le bambine? Non aveva pensato al dolore che avrebbe provocato? E Annette come avrebbe reagito? Cosa avrebbe provato?
Questi interrogativi strazianti giravano nella testa della donna come fastidiose mosche, al punto che non si accorse che Alison e Marion erano tornate sotto l’ombrellone a chiederle nuovamente di papà.
A quel punto, Annette iniziò ad alzare il sipario ed entrare in scena: «Presto, mettetevi le magliette che dobbiamo andar via perché papà si è sentito poco bene e quindi bisogna andare in ospedale».
Le bambine un po’ impaurite si vestirono in modo fulmineo e seguirono la mamma verso la macchina, parcheggiata a lato della strada che costeggiava il lungomare. Il caldo, che in quel frangente mostrava la sua opprimente presenza, sembrava non creare nessun fastidio ad Annette e alle bambine che, entrate in macchina con i finestrini chiusi, si diressero a velocità sostenuta verso casa.
Arrivate, Annette fece scendere le bambine e chiamò a gran voce la madre, che viveva con loro: le raccontò quanto accaduto e le disse di tenere compagnia alle figlie, poiché si sarebbe diretta in ospedale per seguire l’evolversi della situazione.
La madre di Annette non proferì parola e, vedendo il viso tirato e preoccupato della figlia prese le bambine e le accompagnò dentro casa, rincuorandole che la madre sarebbe presto tornata con buone notizie.
E Annette? Dove sarebbe andata? A chi avrebbe detto la verità su quanto accaduto quel giorno? E la sua amarezza come si sarebbe placata?
Girò per la città vagando senza meta alla ricerca di Peter, ma ben sapeva che non l’avrebbe mai trovato; la sua scelta era definitiva. Il caldo eccessivo si unì al batticuore di Annette creando una specie di bolla infernale nella quale la donna si ritrovò completamente sola e senza alcuna possibilità di ristoro. Dopo circa mezz’ora di rettilinei e curve che, come un labirinto, non avrebbero portato ad alcuna uscita, Annette decise di tornare a casa, non prima di essersi un po’ sistemata il viso che era stato bagnato dalla limpida emozione che le scese come un fiume dagli occhi. Aveva sempre un piccolo beauty case in macchina che utilizzava per le evenienze, ma non certo per una situazione di questo tipo, alla quale non avrebbe mai pensato.
Fermò la macchina poco distante da casa, si asciugò le lacrime e si truccò per nascondere il momento drammatico che stava vivendo.
Fece un gran respiro e si diede forza: scese dall’auto, si diresse verso casa e aprì la porta d’ingresso.
Bambine, papà dovrà essere operato, ma l’operazione sarà fatta in un altro ospedale dove i medici sono molto più bravi a eseguire l’intervento di cui ha bisogno. Non vi preoccupate per lui, andrà tutto bene. Appena lo trasferiranno andrò da lui per stargli vicino e dargli forza, pensò di dire alle figlie.
Ma la cosa più importante era come poter custodire quel segreto: Peter se n’era andato di sua spontanea volontà perché non riusciva più a sopportare il pensiero di non essere il vero padre delle gemelline. A chi poteva dirlo, si chiedeva, anche solamente per condividere la tristezza che d’ora in poi avrebbe sostato per sempre nel suo cuore. Forse condividere il tutto con un’amica? Forse chiedendo aiuto a uno specialista? Forse denunciando la scomparsa ai carabinieri?
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