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La Casa del Glicine e dell’Uva

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Cinque voci narranti per otto racconti diversi che vanno man mano intrecciandosi nel tempo e nello spazio, ricostruendo il filo dell’unica vera protagonista di questa storia: la vita. La vita di Anna, donna fuori dagli schemi; di Ermanno e della sua giovinezza rubata; di Juan, il gitano anarchico; di Fabrizio e della sua aspirazione alla serenità; di Peppe, l’idealista indeciso. Sullo sfondo, la casa del glicine e dell’uva, che forse è la vera scrittrice di questa storia.

Tra le pagine, come una sequenza di onde, si alternano l’amore, l’odio, la gioventù, la vecchiaia, i traguardi, gli insuccessi, le nascite, le morti, la fiducia, il tradimento, i segreti. Tutti componenti della normale e straordinaria quotidianità dell’esistenza umana.

Capitolo 1
ANNA – ROMA, 1928 – VERA

 

Si presentò all’improvviso carico di fascino, inebriante di desiderio.

Fu uno scossone che rigenerò la paura, un valido antibiotico contro quell’ignavia antica appiccicata addosso dal tempo. Rimase addosso tutta la vita, sempre caldo e rassicurante come la morbida carezza di una mamma.

Mi abbandonai nell’indifferenza accompagnata da quella voce afona che urlava nelle viscere, ma non ingabbiai i desideri nella cella dorata dei sogni, forse esplorai oltre la follia, forse oltre quell’accidia bieca che annullava le speranze.

Lasciai chiudere la porta alle spalle e scoprii con grande meraviglia che oltre la soglia non esistevano cose dolci o amare, salate o piccanti, esistevo solo io, una fiamma tra le tempeste, un velo grigio nel crepuscolo delle calunnie.

Il cerchio di spettatori non si dilatò al mio passaggio, ma i loro sguardi curiosi di sicuro furono vaporosi e inutili. Non ci fu riparo. A volte rimpiansi la resa, le placide sere in cui restavo a guardare, attraverso i vetri della finestra, la pioggia cadere dal cielo, desiderosa di poterla toccare.

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Ogni giorno per andare a scuola dovevamo prendere il tram delle sei. La fermata era a pochi passi da casa e spesso ci accoglieva nel buio finale della notte. Salivamo sopra il tram ancora assonnati, poi, una volta distesi sui sedili, si riprendeva il sonno interrotto attendendo sognanti che il mezzo attraversasse quasi tutta la città. Il capolinea era appena fuori Montesacro e lì finiva la corsa ferrata, ma non il nostro viaggio. La scuola si trovava a circa un paio di chilometri dal capolinea e non c’erano mezzi pubblici che la collegassero, per cui o andavi accompagnato dal tuo autista personale, o l’alternativa era farsi a piedi quel tratto di strada. Era frequentata per lo più dai figli appartenenti alle famiglie ricche e agiate dell’epoca, tranne i pochi proletari come me e mio fratello, che quasi impropriamente erano riusciti a ottenere il benestare per iscriversi. Io e Mario facevamo sempre tardi, vuoi perché la scuola era distante, vuoi perché il rimanere chiusi tra quattro mura ci soffocava; così una volta scesi dal tram cominciavamo a correre cercando di recuperare il ritardo accumulato. Eravamo rapidi, avevamo una velocità che in futuro ci avrebbe permesso di correre nella direzione sbagliata. In quei periodi turbolenti noi ragazzi dalle belle speranze pensavamo che chi camminasse lentamente era uno stupido, un codardo, esisteva soltanto la follia anestetizzante della velocità.

Avevo tredici anni e a quel tempo stavo per prendere la licenza scolastica. Ero una ragazza piuttosto cresciutella, a tal punto da sembrare una sedicenne, con i seni già abbastanza grandi in continua evoluzione e le giovani curve che prendevano forma, poi alcuni piccoli dettagli lasciavano intravvedere la candida alba dell’adolescenza; le ginocchia sempre sbucciate per via della mia indole selvatica, le guance arrossate come mele annurche e infine il continuo movimento di una parte del corpo, che fosse una gamba, un braccio o anche il dito mignolo, qualcosa si doveva sempre agitare, quel tremolio giovanile era una valvola di sfogo per la mia anima irrequieta. In quel tempo le illusioni e le idiozie nascevano e morivano nel giro di un batter di ciglia, come i giochi fisici che facevo con gli amici, delle vere e proprie dispute condite di lotte, nascondigli e inseguimenti, ma il tutto durava un pomeriggio perché, una volta arrivata la sera, ognuno di noi ritornava a casa propria con una fame da lupi, si saziava voracemente e annullava ogni competizione precedente. Ho sempre amato il luogo dove sono nata, intriso di radici, speranze e rabbia, mi apparteneva come il mio fegato, come i miei istinti. Mia sorella Vera aveva solo quattro anni quando si ammalò di polmonite e contemporaneamente, per un’assurda coincidenza, Alexander Fleming stava scoprendo, quasi per caso, l’effetto della penicillina. Quell’anno fu profetico per la storia del nostro pianeta, si discuteva sul potere della chiesa che sarebbe sfociato nei Patti Lateranensi. Gli Stati Uniti si stavano preparando alla grande crisi economica che avrebbe coinvolto il mondo intero. Hitler nel frattempo costruiva con ossessiva precisione il nazionalsocialismo, risollevando dalle ceneri la Germania distrutta dalla Prima guerra mondiale, per poi riportarla in lurida polvere. Stalin annullava i sogni della rivoluzione d’ottobre del ’17 uccidendo il comunismo, creando l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, mentre Mao in Cina addestrava e indottrinava i contadini per la futura rivoluzione popolare, che più in là sarebbe diventata l’evoluzione del capitalismo. E in Italia? In Italia c’era Mussolini, il duce; lui diventava sempre di più il punto di riferimento del popolo italiano, la sua dottrina fascista si espandeva a macchia d’olio, insozzandoci con quel rancido olio nazionalista; noi avevamo gli occhi unti e perdemmo di vista la realtà, non focalizzando quello che lui era veramente, un punto. Nel frattempo a Madrid la Revista de Occidente pubblicava Romancero gitano di Federico García Lorca.

Insomma, il mondo stava fermentando nelle tinozze del totalitarismo e noi, nonostante il passo svelto, eravamo in ritardo. La campanella della scuola era già suonata da cinque minuti e correvamo il serio rischio che non ci avrebbe fatto entrare. La bidella ferma come una sentinella sull’uscio del portone ci vide da lontano, conosceva perfettamente il nostro abituale ritardo, così scrollò la testa e fece quella solita espressione sprezzante, poi con la mano rigida ordinò di fare alla svelta. Era sempre molto nervosa e svolgeva alla perfezione il suo ruolo di comparsa. Così riuscimmo a farla franca per l’ennesima volta e la bidella-sentinella consentì il nostro ingresso nel tempio. Una volta dentro ci mettemmo a correre ansimando lungo i gradoni della scuola, quasi stessimo scivolando attraverso gli infiniti corridoi di marmo; la mia aula era la seconda sulla destra al primo piano, mentre quella di Mario l’ultima a sinistra al piano terra. Arrivai quasi volando davanti alla porta della mia classe, era leggermente aperta e lasciava fuoriuscire appena il silenzio irreale di quella generazione. Avevo i polmoni quasi svuotati e il fiatone di una mucca, entrai facendo finta di niente evitando un qualsiasi rumore, lanciai il cappotto sull’attaccapanni, riposi la cartella sul banco in terza fila e mi sedetti. Il maestro era di spalle e stava scrivendo alcune formule matematiche alla lavagna, pensai che anche questa volta non si fosse accorto di nulla così, con la solita faccia tosta e quell’ultimo filo di ossigeno rimasto, gli dissi: «Mi scusi, signor maestro, non riesco a vedere bene cosa avete scritto!».

Il mentore ripose il gessetto di fianco alla cattedra e si girò di scatto, fissandomi con lo sguardo scuro al quale non sfuggiva mai nulla, poi si bloccò, e malgrado prima fosse girato, ebbi il dubbio che avesse seguito sott’occhio ogni mio movimento. Lo strano uomo, sempre avvinghiato nel suo eterno vestito scuro, aveva pochi capelli e per giunta spesso unti, l’espressione accigliata evidenziava la sua innata ira catartica cancellando dal volto qualsiasi accenno di sorriso, sembrava una divinità triste e moribonda cui noi tutti dovevamo prostrarci, glorificare le gesta, esaltare gli insegnamenti. I nostri cori ripetitivi, che come un’eco risuonavano alle sue frasi, ci rendevano le vittime prescelte per quell’abluzione della ragione; malgrado all’epoca non fosse così diffuso questo termine e pochi ne conoscevano il significato, si applicò la regola dell’omologazione culturale nazionale, in cui ogni italiano doveva dare il suo contributo; il problema non era il livellamento, bensì l’origine barbara di quella cultura cieca.

Dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi per due minuti buoni, il maestro con la sua caratteristica cadenza dialettale urlò il suo disappunto.

«Anna, ma mi prenti per scemo, arrivi sempe in ritarto, mo’ vieni alla lavagne e ripeti tutto quello che ho tetto fino at’ora.»

Perseverai nella falsa versione. «Signor maestro, ma come ho detto non vedo bene!»

E lui tuonò di nuovo: «Annnna… alla lavagne… supito e non trovare scuuse!».

Il maestro rappresentava un’epoca. Era il 1928. Quel giorno al ritorno da scuola io e mio fratello prendemmo un’altra strada, una via spesso silenziosa avvolta da un lieve tepore carico di gioia che non scalfiva il tempo, certi di non ottenere nulla dall’orizzonte. Un paesaggio melanconico dove era di scena la semplicità apparente di quel mondo. Amavo fotografare con la memoria quegli attimi bucolici. Un contadino, vista l’ora di pranzo, affrettava il passo per raggiungere la propria casa tenendo tesa la corda del suo asino che proprio non ne voleva sapere di camminare; sopra una collina, la sagoma di un pastore intenta a richiamare il gregge, fischiettava un motivetto allegro; più in basso in un campo coltivato due donne, tristi e speranzose, non smettevano mai le proprie faccende antiche, anzi malgrado la tarda ora continuavano a lavorare raccogliendo ortaggi, chine sulle loro schiene spezzate dalla fatica e dal tempo, ma mai dome; le galline erranti scorrazzavano allegre per quella sconnessa viuzza scuotendo le ali ancora inumidite dall’acqua di una pozzanghera; un gallo alquanto stonato continuava a dar di sveglia confondendo il giorno con la notte; le lumache luccicanti, ai bordi della stradina, riflettevano uno scampolo di pallido sole; le pigre lucertole catturavano i raggi caldi con la schiena che, a poco a poco, sarebbe diventata verde smeraldo; le farfalle, con le loro tinte astrali, svolazzavano in modo irregolare creando uno sfavillante cerchio colorato, un piccolo tornado multicolore che indicava la via del ritorno.

Ero stanca, respiravo a fatica, le mie narici fumavano come quelle delle pecore, fumavano come la terra appena smossa dai contadini, fumavano come i comignoli delle case di campagna che rilasciavano nell’aria quegli aromi che solo una cucina in piena attività riesce a donare al cielo. La fatica in verità non veniva dalla stanchezza dei muscoli bensì dai morsi inflitti allo stomaco ormai schiavo della fame. Quella stradina, quelle colline, quel paesaggio impressionista paradossalmente non erano ancora stati sfregiati dall’invasione programmatica del cemento futurista, pur trovandosi tra le mura di Roma. Quello scorcio di vita rurale così intenso, quella processione di vita ardente, quel quadro dal cielo ocra e rosa e dai profumi irrisolti, di lì a pochi anni sarebbe scomparso definitivamente dalla mappatura catastale della capitale, ma avrebbe lasciato indelebile e per sempre il soffio della sua armonia, eternamente custodito nel disordinato museo della mia memoria.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Carlo Tafuri
Nato a Napoli nel quartiere Posillipo a cui è profondamente legato, sin da ragazzo ha lavorato nel campo artistico, prima come musicista e poi come graphic designer. Ha curato, come redattore e ricercatore, numerose pubblicazioni editoriali e romanzi di autori di fama internazionale. “La casa del glicine e dell’uva” è intriso di ricordi ed evocazioni, è il luogo della memoria sul cui sfondo appare chiara la dedizione per Napoli, il mare, gli animali, la Grecia e ovviamente il vino.
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