Era fine estate. Gli alberi erano spogli e intorno c’era rarissima vegetazione verde sparsa, composta da piante perenni; l’estate era stata torrida e secca, le temperature calde avevano bruciato ogni cosa. Il sentiero formato da terriccio e sassi era ben delineato a causa di quelle persone che in estate passeggiavano ai piedi della montagna. I più coraggiosi si inoltravano nei sentieri meno conosciuti, man mano andando ad un’altitudine maggiore.
L’uomo camminava a passi svelti e incontrollati come se stesse seguendo una pista: la sua andatura era talmente convinta e violenta che comportava l’innalzarsi della polvere, i suoi scarponi lasciavano segni abbastanza evidenti al suo passaggio.
L’uomo si arrestò di colpo. Si voltò indietro, vide che le tracce che aveva appena lasciato già stavano scomparendo.
“E alla fine cosa rimane?”, ripeté a voce alta.
Era impietrito di fronte alla strada sterrata che conduceva in cima alla montagna.
Quel giorno, scelse di non presentarsi al lavoro, così s’incamminò in direzione opposta. Stavolta affrontava quel solito sentiero di montagna senza ragionare, in modo istintivo e spontaneo; non si era mai trovato in quello stato di trance totale e incontrollato. Per la prima volta nella sua vita, aveva perso la lucidità mentale, si lasciò naufragare; disorientato aveva perso la sua capacità di calcolare ogni passo, anche la paura di sbagliare era andata via. Era libero da ogni pensiero; proprio questi avevano avuto il comando assoluto della sua infelicità.
– E alla fine cosa mi rimane?
Era un uomo di poche parole. Tutto quello che usciva dalla sua bocca non era mai stato involontario e neanche incontrollato; all’apparenza sembrava un uomo saggio, pacato, ordinato e bilanciato. Veniva ammirato per quel suo modo di essere e allo stesso tempo per alcuni l’ammirazione si trasformava in disagio e inquietudine. La sua sensibilità, molto vicina all’empatia, era una sentinella sempre pronta a captare ogni sentimento altrui. E quando questa sua assoluta bontà creava disagio negli altri, si mortificava e sentiva l’esigenza di andare lontano da tutti.
Dentro lui c’era il caos.
Si trovò lì, ai piedi della montagna. Erano passati all’incirca vent’anni da quando la vide per la prima volta e da quando aveva incominciato ad inoltrarsi in mezzo a quei sentieri. In quell’occasione di molti anni fa, era rimasto incantato nel vedersi circondato da tutto quel bianco.
A quei tempi aveva poco più di trent’anni e in quegli attimi pieni di malinconia aveva lasciato spazio alla speranza che tutta quella neve cancellasse il suo passato.
Il tempo è una canaglia: si vive tra l’amarezza del passato e la falsa speranza del futuro. Ed era proprio questo l’ago della sua bilancia, prepotentemente immobile tra il passato e il futuro, nell’angosciosa e perenne incertezza della propria esistenza.
Tornando al presente di quel giorno, di fronte alla montagna nuda e senza neve, gli tornarono a bussare dentro i pensieri colmi di insoddisfazione. Un treno in lontananza fischiò più volte, si girò in direzione delle rotaie; pensò al fatto che da quella distanza sembrava che andasse così piano e che in verità viaggiava alla sua massima velocità. Pensò subito alla sua vita e a come gli stava sfuggendo di mano.
– E alla fine della corsa cosa rimane?
Stavolta lo disse come se lo stesse chiedendo a qualcuno di fronte a lui. La strada era in discesa, tuttavia, provò una grande fatica nel tornare a casa.
2
A passi lenti arrivò nella via principale: pochi minuti e sarebbe giunto nel piccolo centro storico. Sembrava che poggiasse i piedi in modo armonioso, senza calpestare il suolo. La calma apparente è solo guerra e sangue dei conflitti interni. Dentro era una furia, sentiva che qualcosa dentro lui stava crollando; le sue difese avevano perso credibilità. Nonostante tutto, scivolava sulle strade con disinvoltura.
“Dotor… Dotor…” una voce maschile fragile e convinta arrivò da un tavolino del bar. L’uomo che ancora cercava di trovare una tregua con sé stesso, non sentì la voce. “Dotor…”.
“Don Nanni… mi scusi ero sovrappensiero”.
“Pensare troppo fa male, si rischia di impazzire”. Sorrise e mise in mostra quei pochi denti invecchiati.
“Come darle torto”.
“Non puoi. E che ci pensi a fare? Ogni cosa in questa vita ha una fine. Tutto finisce. Portarmi qualcosa che non abbia una fine e ti offrirò del nebbiolo finché campo”. Stavolta sorrise e bevve due sorsate abbondanti di vino rosso.
L’uomo rimase in piedi davanti al tavolo, per un attimo, dimenticò i pensieri negativi che poco prima l’assalivano e ci rise su, disse: “Ne è certo? Lo sa che potrebbe perdere”.
“Ah, Dotor! A breve salterò la fossa e buonanotte. Lo capirete troppo tardi che per l’uomo non esiste né vittoria né sconfitta”. I suoi toni erano rassegnati e malinconici, come quelli di tutti coloro che hanno deciso di non combattere più.
Proseguì il cammino verso il suo appartamento. “Il vecchio mi ha fatto venire voglia di vino, appena torno a casa… casa… casa”, così i suoi pensieri si bloccarono alla parola casa. I tormenti tornarono a picchiettare la sua mente, lui che da sempre si era sentito un vagabondo del mondo, e di fronte alla parola casa aveva l’istinto di andare via, via da ogni forma di stabilità. Così un giorno di vent’anni fa era partito per arrivare dov’era adesso. Sognava la natura, la montagna e la solitudine. Le Alpi lo accolsero e lui le amò da subito.
Arrivò a casa. Stappò un buon vino rosso di stagione. Lo versò nel bicchiere di vetro, avviò il giradischi e lasciò fare alla musica il proprio dovere: riempire il silenzio e cacciare via i pensieri. Bevve il primo bicchiere e subito dopo anche il secondo.
La situazione non era migliorata, in testa c’erano solo pensieri incontrollabili: qualche minuto dopo divenne tutto più sopportabile. Nessuno sapeva di questo suo segreto. La sobrietà del suo stile e della sua intelligenza non dava spazio ad immaginarlo schiavo dell’alcool. Sentì dei rumori provenire dalla porta, rimase comodamente sul divano ad aspettare ciò che stava per succedere.
“Commissario è lei?! Si accomodi qui, accanto a me”.
Il gatto si strofinò sulle gambe del padrone. Dopodiché saltò sul divano e si acciambellò. L’uomo con il bicchiere in mano osservò il gatto; in quel momento si ricordò perfettamente il giorno in cui lo scelse come suo compagno di vita. Tra tutti i gattini, era quello più piccolo e allo stesso tempo quello più coraggioso. Era poco più piccolo di un pugno, gli occhi a palla giganti e il pelo bianco e lungo. Era così buffo che il ricordo lo fece sorridere. Si scelsero e da quel giorno furono inseparabili. Quando decise di trasferirsi ai piedi delle Alpi, la sua prima preoccupazione fu proprio lui, come poteva trasportarlo senza causargli un trauma? Scelse ovviamente l’aereo affinché tutto si sistemasse il più presto possibile: gli fece iniettare un sonnifero e tutto finì nel giro di poche ore. Ripensò a tutti gli anni insieme, il commissario Montalbano era arrivato a circa vent’anni di età.
Qualcuno bussò alla porta.
3
Non aspettava nessuna visita. La sua mente era annebbiata dall’alcol e dalla stanchezza, o per lo meno aveva poca voglia di fare molti ragionamenti e farsi troppe domande. Queste non mancavano mai: ogni mattina si destava con una domanda e la sera trovava il sonno distruggendosi con quesiti e interrogazioni. Si trascinò fino alla porta e aprì.
Un minuto di silenzio. Le coppie di occhi si inquisirono con timore. Il padrone di casa non si aspettava quella visita, non era ancora pronto per affrontare quel nuovo dolore. Già sapeva che ne sarebbe uscito colpevole. Nessuna persona che aveva conosciuto negli anni era stata in grado di accettare la sua solitudine, era sempre arrivato al punto di dover decidere tra sé stesso e il mondo là fuori. Si, era egoista in questo. Il tempo per sé stesso era più importante del tempo trascorso in coppia.
“Non mi fai entrare?”, così la donna sulla soglia di casa decise di rompere il silenzio.
Lui con un gesto la invitò ad entrare. Lei sapeva bene dove andare, in quell’ultimo periodo aveva fatto tante volte quel breve tragitto, eppure, stavolta quei pochi passi le sembravano durare un’eternità. Si accomodò sul divano senza fare troppi complimenti.
“Ti prendo un bicchiere?”, la voce flebile del padrone di casa riportò l’attenzione della donna.
“Cosa stai bevendo?”
“Stavo assaggiando un po’ di vino”.
“Conoscendoti, ne avrai assaggiato almeno mezza bottiglia… ultimamente hai perso il senno con questo vino”.
Fu colpito e affondato. Si accorse in quell’istante di aver perso la partita definitivamente. I tre bicchieri gli portarono la lucidità che cercava da tempo, un’analisi dettagliata, fredda e chiara, quel rompicapo che da tempo lo tormentava, stava per essere risolto.
Ritornò a ripensare alle ragioni impeccabili che la donna gli avrebbe rinfacciato e ai suoi imperdonabili errori. Ma a cosa serve a capire le proprie colpe quando non si ha neanche il tempo di pentirsi? Decise di non tornare più indietro, c’era l’orgoglio da difendere. Non doveva farsi vedere come un animale morente, bensì pensò bene di raccogliere più forze possibili.
L’uomo prese e appoggiò i due bicchieri sul tavolino di fronte al divano e versò da bere senza esitazione. Il suo atteggiamento mutò visibilmente, da preda si era mutato in predatore.
In realtà, non era un gran bevitore, lo era stato. In questi ultimi anni, beveva sempre con parsimonia e non più con avidità come faceva in gioventù. Dopo quel tempo di autocontrollo e razionalità, tornò ad essere quello di una volta, quando era l’alcool a dominarlo e a renderlo più spontaneo.
Bevvero qualche sorso silenziosamente. Entrambi – nonostante la sicurezza delle proprie ragioni che visibilmente indossavano – pensarono che sarebbe stato meglio aspettare la mossa del nemico.
La donna si guardava intorno, ma poco prima di bere altri sorsi, poggiò gli occhi dentro il bicchiere e ci vide un colore rosso granato e intenso, i sentori olfattivi erano talmente attivi che la fragranza le arrivava prepotentemente fino in fondo al naso; gli odori le fecero ricordare di quando era bambina e insieme a suo nonno passeggiava in mezzo alla natura: tra ciliegi, more selvatiche, viti, immense praterie. Ogni qualvolta l’anziano le spiegava qualcosa, lei si avvicinava a lui e a sua volta lui l’abbracciava forte, in quello stesso istante sentiva sempre il tanfo di tabacco e di vino rosso del nonno, che non lasciava mai il suo sigaro. Lo teneva in bocca anche quando andava a letto.
Ecco, in quell’istante, dentro il colore e l’odore di quel vino, c’era il ricordo del nonno e del suo coraggio da vecchio soldato di guerra. La donna dopo cinque minuti percepì i primi passi disinvolti dell’alcool.
“Sei un bugiardo… un maledetto bugiardo!”, proprio i pensieri precedenti le diedero il coraggio di parlare. Si girò verso l’uomo in attesa di una risposta, ma non ci fu alcun segno.
“Stai zitto… fai bene. Sei indifendibile. Neanche il tuo… anzi, ancora meglio, la tua avvocatessa godrebbe nel vederti affossare così”.
“Non mettere di mezzo persone che non c’entrano niente”
“Ti sei svegliato finalmente”
“Parla quanto vuoi, ma non mettere di mezzo persone che non conosci”
“Il problema è che dopo tutto quello che ho saputo, non conosco neanche te. Sei un bugiardo”
“Non sono un bugiardo”
“Si invece. Sicuramente non mi hai mai detto la verità”
“Non mi sembra di averti mai detto delle cose non vere”
“Perché non me l’hai detto?”
“Perché non me lo hai mai chiesto! Per te è facile la vita… è facile tutto. Lavoro, e dopo vino e scopate e quando ti annoi a buttar soldi per lo shopping. E i tuoi figli? Sai dove sono i tuoi figli in questo momento? A casa con tuo marito”.
La mano della donna tremava dall’agitazione a causa dei sensi di colpa che aveva sempre nascosto, e che in fondo erano le sue più grandi debolezze. Nonostante questo prese la bottiglia di vino e si versò ancora da bere.
Il mancato coraggio di chiedere il divorzio dal suo attuale marito la rendeva ancora più vulnerabile. In paese tutti sapevano della loro separazione, ma lei non aveva mai avuto il coraggio di allontanarlo definitivamente, buttandolo fuori di casa. Solo il marito, in fondo, non voleva credere in una definitiva scissione fisica ed emotiva; la trattava come aveva sempre fatto: sempre pronto a preparare i pasti e a prendersi cura dei figli. Lei donna nei momenti in cui si sentiva persa, guardava il marito con grande tenerezza e rassicurazione. In fondo lui era un bonaccione e un ingenuo, soprattutto era ancora innamorato di lei.
Non sarebbe sopravvissuto un solo giorno da solo, allo stesso modo lei non sarebbe stata in pace con sé stessa per averlo allontanato dalla sua vita.
In fondo, anche l’uomo seduto sul divano era un uomo buono, altruista; oltre il suo lavoro all’interno di un’azienda sanitaria, faceva molta beneficenza. Ma come aveva appena ricordato la vulnerabilità degli errori imperdonabili della donna, adesso ricordò anche la sua. Si portava dentro ferite ancora aperte e che non avrebbero mai smesso di sanguinare. Si sentì in colpa, si mortificò davanti a ciò che aveva appena detto.
“Scusa Monica, non volevo. Il vino non mi ha dato il tempo di riflettere”.
La donna si alzò, lo guardò dall’alto verso il basso, se in quel momento fosse stata un serpente velenoso, certamente l’avrebbe morso per farlo morire agonizzante. Le uniche parole prima di uscire di scena furono:
“È finita”.
Prese le sue cose e andò fuori. La porta sbatté come un martello da giudice per annunciare la sentenza definitiva della fine di una storia clandestina.
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