Quando Girolamo investe l’ex compagna Elena e i suoi due bambini avuti con un altro uomo, la sua vita cambia per sempre. Da quel momento il suo passato, composto da eccessi e superficialità, viene sostituito da un presente pieno di dolore, menzogna e tanta incertezza. Un dubbio agita la sua mente: quella dell’amore della sua vita è stata una morte accidentale o un’uccisione premeditata? Nemmeno lui conosce la verità.
Giorno dopo giorno la sua mente si fa più instabile: ogni ricordo diviene labile, inafferrabile. A trentasette anni e con un ergastolo da scontare, Girolamo cerca ossessivamente il senso dell’esistenza, nel disperato tentativo di capire come rimettere sui giusti binari la sua vita.
Ma il senso dell’esistenza non è unico e immutabile. A volte il senso dell’esistenza bisogna costruirselo da soli.
1. ELENA E DINTORNI
«Eh?» Prendo tempo, facendo finta di non aver sentito. Ma Elena, da dentro il mio cellulare, non si distrae, riproponendomi la stessa, identica domanda. «L’hai vista, hai visto quella troia?»
Devo rispondere, rovistare fra le mie migliori bugie, perché un altro eh vorrebbe dire sì.
«Certo che l’ho vista, l’ho anche toccata e abbiamo fatto l’amore, ma ho usato la precauzione. Non c’è il suo odore nella mia erezione. Ti amo, Ele…»
Spinge la cornetta rossa e non la sento più.
La rivedo tre anni dopo alla stazione di Orvieto, soddisfatta e incompleta mentre spinge un passeggino a due posti con dentro il minaccioso futuro.
Io mi chiamo Girolamo, no, non è un nome d’arte e ora me lo sento bene, addosso e dentro.
Ho una vita regolare, di merda direbbe qualcuno, con un lavoro di otto ore che spesso si allungano a dieci.
Sono esente da animali domestici, ma c’è una mosca che sempre alla stessa ora si posa sul cornicione del PC dopo avermi sfiorato le orecchie. Anche ora, mentre scrivo, è lì di guardia, tenera e nera che si sfrega composta le zampette.
Mia madre è turca, mio padre ha un canile in Umbria. Non sono divorziati, ma non fanno sesso da cinque anni. Perché lo so? Venite a vedere: qui, nell’armadio, dalla parte di mia madre, senza polvere e senza pace, svettano le settantotto carte rinascimentali dei tarocchi, assemblate e pronte, con arcani minori e arcani maggiori di ogni tipo e nazione, lucidi e animati.
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Mio padre invece tiene le bollette in ordine di data e categoria, compra gli scottex a doppio strato per masturbarsi serenamente e in sicurezza, desiderando qualcun’altra. Si alimenta in maniera sobria per depistare qualche occasionale erezione fra lenzuola comuni, sottomettendo la libido alla costanza.
Non si cercano col corpo ma si tengono perché i loro difetti coincidono.
Si rispettano e si scordano.
Li ammiro, ma capirò meglio fra qualche anno, quando magari mi chiameranno Richard, avrò i capelli gialli e loro saranno composti e moribondi a sintetizzare con lo sguardo rimasto una storia normale.
Elena, dunque, mi ha lasciato e io giro di notte al freddo per scalfire la colpa, per sgretolare un ricordo che nel presente valeva poco ma che ora, nell’assenza, sembra infastidirmi. So che il dolore svanirà e che dovrò averne uno nuovo al suo posto, così apprezzo l’istante tornando sereno nella più lieve e immancabile delle solitudini, proiettando il mio pensiero al largo, dove la soluzione ha già deciso.
Oltre ad aver perso una donna, quando diventa sera balbetto in modo armonico e garbato attirando la tenerezza delle amiche di altri amici, è il mio timido modo di essere egocentrico, come l’insegna fioca e sbiadita di un locale, finalmente, senza musica.
Nel lavoro immergo ogni ricordo, ogni altra forma di essere. Il mio cervello viaggia in un’unica direzione su due binari di cemento stretti, alti e scuri, infrangibili e severi, rassicuranti. Il piacere e il gusto non mi possono più rapire, non perderò più tempo dentro a flebili sensazioni. È tutto vero, ed è tutto lì. Così facendo riesco a monitorare la mia sofferenza, la mia delusione cosmica.
Mi sento tranquillo nella certezza che non ci saranno altre sofferenze se non abbandono quella attuale.
In poche parole, sono uno schiavo del sistema, e vado d’accordo con tutti, perché tutti sembrano essere come me: imprigionati dentro la perdita della speranza.
Quindi esco e parlo con tanti amici senza mai farmi venire in mente un’idea, uso solo quanto conosco e sento, parlando anche del mio lavoro senza vanto e senza lode.
Una replica ogni sera, le stesse frasi, le stesse risate isteriche alla stessa ora, gli stessi reality, che mi limito (per il bene di tutti) a giudicare e denigrare.
Qualche esempio di dialogo poco edificante subito in certe sere, sere nere direbbe Tiziano, che catalogo stucchevolmente come infantili, frustranti ritornelli che mi hanno fatto spesso desiderare la saggia e volontaria estinzione dell’essere (dis)umano.
«Hai già prenotato le vacanze in barca a vela?»
«Quanti corsi ti mancano ancora da fare?»
«Per l’ultimo poi? Sei dei nostri?»
«Devo depilarmi l’inguine e comprare un costume, ho un budget di quindici barra venti euro e la casa che è un porcile, non farci caso.»
«Non ho mai tempo per me e domenica sono stata in fila quarantadue minuti per leccare il gelato più buono del mondo. Dai che poi domani si parte per Cuba e chi si è visto si è visto…»
«Ci aggiorniamo allora, ok ci ri-aggiorniamo.» Addirittura.
E via dicendo, scempio dopo scempio.
«Chi più ne ha più ne metta». Appunto.
Poi invece, l’altro ieri, di lunedì, in un autoritratto sperimentale di angoscia, mi sono chiesto se gli altri mi sentano, cioè se uscendo dal coro, gridando i miei testi, loro possano storcere il naso o tendermi la mano.
Rimarrei solo? Cioè senza persone con cui balbettare al mio fianco di scempi e di altro?
Quindi decido di parlarne con Zeus, nome d’arte di un parroco ottantacinquenne in pensione, che si è mezzo eremitizzato dentro una baita isolata, con la connessione Wi-Fi e i bomboloni caldi la mattina presto prima delle lodi.
Scelgo lui perché sono convinto non esista come entità. Non giudica, non incontra gente, non m’interessa neanche in realtà e in qualche modo mi appare azzurro e nero, quel nero che giace silente e paziente per anni sotto le vesti dei padri.
Zeus una volta scopava. Credo sia diventato parroco dopo che l’arnese si è arreso. Aveva comunque un grado già elevato di santità inserita nel suo DNA, nonché nel suo liquido seminale.
Mi elenca le imprese feroci che realizzava in compagnia di amori passeggeri. Una fra tante mi rimane dentro, forse perché avrei voluto farla io con la ragazza in questione ai tempi della barba incolta e delle droghe leggere.
Ora non la ricordo testualmente, ma la performance recitava più o meno così: «Una volta, Girolamo, presi quella biondina fresca di laurea da dietro, in casa sua, dopo la festa del sabato sera. La presi con arroganza e filosofia, cercando di coprire quel vuoto che in breve tempo avrebbe alimentato la sua importanza. Cercavo di fermare il tempo, di scavalcare il futuro. Cercavo qualcosa di me, imparavo dai miei gesti e dalle sue reazioni. Devi sapere che il piacere fisico non mi attrae più dall’età di 15 anni».
L’ex parroco Zeus è davvero piacevole, alterna in maniera naturale diversi umori e io mi sento nudo con la milza in vista. Provo a dire qualcosa anche io, mi esce in tutta libertà questo e mi pare il massimo, anche se a rileggermi sembra meno intenso.
«Sai Zeus, scusa se rido, ma sono al quarto bicchiere di brandy. Sai dicevo, io invece di solito accendo la scopa elettrica per non sentire i vicini ciacolare. Vedi Padre, non sono fastidiosi, ma solo poco interessanti.
«I loro dialoghi sbraitanti si mischiano al lamento deciso e più tollerante degli incolpevoli, ma pur sempre poco raffinati neonati.»
Zeus non ride e manco è ubriaco.
Che c’entra questa cosa che ho detto? Mi sono forse rilassato troppo compromettendo la nostra giornata?
Lui decide che il tempo è scaduto con me.
Non vuole archiviarmi in una bacheca di disgusto, per questo se ne va dall’altra parte.
Riprendo la scalinata, naturalmente erosa in modo equilibrato e turistico dai moderni terremoti, che mi riporta in città.
L’avrei comunque rivisto grazie al tempismo della sua interruzione che lascia intatte le nostre qualità.
Una volta immerso fra le luci artificiali, mi accorgo di avere solo due euro. Vorrei mangiare e continuare a bere col vanto del mio amico Zeus nell’anima. Allora inserisco il bancomat europeo dalla parte della Spagna, me lo ricordo sempre al secondo tentativo. Escono le banconote lucide, stirate, decorate di storia ancestrale.
Un attimo dopo è già marzo.
Da qualche parte, Elena non si è accorta della primavera anticipata e si fa avvolgere da un maglione a collo alto e morbido, di riflessi che al sole sembrano blu.
Necessita di certezze, di pensieri leggeri. Cerca qualcosa che rimanga ma poi dimentica di farlo, di attuare questo meccanismo. Lo sguardo e le movenze le appartengono ma l’anima è ferita, distante.
Non mi sono mai fidato della gente che non piange.
Anche per questo l’ho tradita, nella brevissima attesa della sua reazione che mi ha reso più efficiente e leggero.
C’è un pullman che parte alle diciannove e un quarto per Parigi, potrei dormirci sopra e sentire le voci tenui delle coppiette che si sussurrano frasi celebri.
Mi basta pensarlo per avere voglia di fare qualcos’altro. Raggiungo le vie più buie del centro. Nel tragitto mi sfrecciano vicino gli odori degli adolescenti, lindi e incoscienti. Gridano e si chiamano fischiando.
Deve essere sabato sera.
Torno in autostazione e prendo quel bus per la Francia.
I cartelli stradali sono ingialliti dalle troppe estati, si intravede a malapena il loro scopo. Siamo già verso Grenoble.
Mia nonna mi parlava sempre delle noci di questi posti, sembra abbiano proprietà curative a sentire i suoi racconti.
I vecchi cercano sempre di santificare tutto, come per appropriarsi dell’anima di ogni cosa, forse perché si sentono traditi dal tempo che li ha esclusi. Credono di non meritarlo, credono sia tutto qua.
Se si ricordassero che il tempo è solo un’invenzione ben riuscita, una delle tante illusioni a cui abbiamo appeso l’anima… non so, forse starebbero male lo stesso.
Annalisa Margarino (proprietario verificato)
Mi sono imbattuta per caso in La consistenza della verza, percorrendo una strada parallela. Non ho ancora concluso la lettura, ma riga dopo riga sono colpita dallo stile forte e diretto. I personaggi inquieti e travagliati ci portano negli anfratti nascosti delle nostre anime. Nessuna maschera, nessun filtro e molti dialoghi con l’anima. Ringrazio il mio libro per avermi fatto incontrare un po’ per caso con quello di Bernardino Mattioli