Faceva rosolare il giusto e poi metteva il polpo nella pentola, lasciava sfrigolare e aggiungeva poco alla volta acqua calda fino a coprire il polipo di setto, otto centimetri. Aggiungeva poi del peperoncino e aspettava la cottura che lei provava infilando una forchetta. Quando doveva quasi essere cotto, tagliava un pezzo di tentacolo e chiamava papà che addentava il pezzo, soffiando con la bocca a cannolo e sentenziava “è bbuon”.
Mamma allora spegneva il fuoco, e aspettava che raffreddasse poi lo infilzava con un forchettone e poneva in una zuppiera. Con il cucchiaio assaggiava il brodo, aggiustava di sale e pepe e chiamava “bambini a tavola”. Una volta seduti, ci porgeva le tazzine con il brodo di polpo e diceva “piano che è bollente”. Era talmente caldo e piccante, che noi bambini non sentivamo la differenza tra il bruciore della temperatura e quella del pepe. Poi mangiavamo il polpo litigandoci la testa che cercavamo di arraffare fino a che papà non zittiva tutti, la tagliava in quattro pezzi e ne dava uno a testa.
La mamma la chiamava pizza con la scarola, ma in realtà era una torta di verdura in cui comparivano pinoli, olive nere di Gaeta, e qualche volta acciughe oltre alla scarola.
Oggi sarebbe consigliato come piatto unico, perché quasi tutti i piatti di Maria erano piatti unici e servivano da antipasto, da primo, da secondo e se ne avanzava, da merenda.
Procedimento semplice perché cuoceva in acqua salata una buona quantità di scarola, due cespi di grandezza normale. Lasciava a scolare e raffreddare per un paio d’ore, poi le schiacciava per liberarle del liquido e le passava in padella con aglio e mezza acciuga a fuoco lento per almeno mezz’ora.
Faceva rosolare le olive snocciolate e i capperi dissalati in olio d’oliva, poi aggiungeva le acciughe anch’esse dissalate, se non le aveva fresche, metteva l’uvetta e cuoceva fino a che le acciughe non si disfacevano.
In attesa che il composto raffreddasse, preparava la pasta con farina e acqua. Impastava la farina con acqua che aggiungeva a mano a mano che occorreva, aggiungeva il sale e ne otteneva una palla quasi elastica; aggiungeva poco olio e poi tirava la pasta con il mattarello.
Ne ricavava due dischi di spessore diverso, quello che sarebbe andato nella teglia un po’ più spesso di quello che sarebbe servito da copertura.
Ungeva il fondo della teglia con burro, stendeva la pasta rialzandola contro i bordi. Versava la scarola stendendola con un cucchiaio in modo uniforme, poi copriva con l’altra pasta saldandola con il bordo del fondo.
Stendeva aiutandosi con le dita un filo d’olio d’oliva e infornava. La serviva dopo averla lasciata raffreddare in modo da poter tagliare le fette senza perdere il ripieno.
Il ripieno degli agnolotti è fatto con lo stufato, preparato con un chilo di cappello del prete, cotto con vino rosso, una cipolla e due spicchi d’aglio.
Si cominciava con un bicchiere di vino e se ne aggiunge altro a mano a mano se serve.
Si trita solo la carne escludendo la cipolla e l’aglio e aggiungendo due etti di carne di salsiccia. Si aggiunge il sale.
Per gli agnolotti si impasta un chilo di farina con uova e sale, si comincia con due e si aggiungono man mano quelle che servono.
Si tira la pasta con il mattarello ricavandone due sfoglie. Si aggiunge il ripieno ridotto a palline della giusta misura e si chiude con l’altro foglio di pasta. Si tagliano con la rotella e si tengono separati spolverandoli con farina fino al momento di versarli nell’acqua bollente per la cottura.
Verso la metà del mese di ottobre la Nina si prepara per i ceci dei morti; si prepara perché i suoi ceci sono grandi, ma non come quelli dello scorso anno che non erano buoni come quelli dell’altro anno, che erano grossi ma grossi così.
La Nina è incontentabile perché fai da mangiare non per te ma per gli altri e non puoi fare brutta figura. I suoi insegnamenti di cucina sono fondamentali per la formazione e sono sempre supportati da un proverbio. Se fa la polenta ti dirà pulenta traditura che par ti aio’ perdì la siura. E se dopo averla mangiata ti viene il singhiozzo ti recita sanget glut glut la ragh’na in tal pus, al babi al cria sanget va via.
E te lo fa passare se reciti senza prendere fiato la filastrocca del babi, per dieci volte; sanget è il singhiozzo, la ragh’na è la rana, al babi è il rospo.
Li mette in ammollo in acqua la sera prima con un cucchiaio di bicarbonato. Al mattino si sciacquano almeno due volte e si mettono dentro la pentola vuota. Si aggiunge olio, una cipolla intera, salvia e una o due foglie di alloro, sale e acqua. Si cuoce per un’ora, ma dipende dal tipo di ceci. Li serve con crostini di pane vecchio induriti al forno e conditi con olio d’oliva. Modesta, sua mamma, li cuoceva in una enorme pignatta perché a tavola aveva sei uomini, che con la Nina e Lei erano otto commensali, tutti sempre affamati.
Si beveva vein’ gris, il vino di Carlo, suo padre, che aveva una vigna alla Gluodia, Claudia, e una alla Sapa, Zappa, zone periferiche di Quargnento. Ma produceva anche il ciaret, vino un po’ meno rosso del Barbera, pure prodotto da lui, ma tutto in quantità giusta per la famiglia.
Le fagiolane, i bianchi di Spagna grandi come lupini, sono tipici delle zone a sud del Piemonte. Si mettono a bagno la sera prima con un cucchiaio di bicarbonato. Al mattino si lavano e una parte, almeno un terzo, viene spellata affinché nella cottura si disfino per rendere più denso il brodo.
Si mettono nella pentola con sale, olio, un dado e alcune foglie di alloro e una cipolla intera, si aggiunge acqua e si cuociono per un’ora. In un’altra pentola si mette la quantità di fagioli e brodo per i piatti da preparare, si porta ad ebollizione e, se serve, si allunga con l’acqua, e si aggiungono le tagliatelle, ovviamente fatte da lei seguendo la ricetta di nonna Modesta per fare la pasta e fagioli.
Farina impastata con uova intere e un po’ d’acqua per renderla morbida giusta. Con la bressia, il mattarello, si tira la pasta per renderla sottile al punto giusto; quando la sfoglia è pronta, Modesta la arrotolava come un salame e tagliava i tajarin, le tagliatelle.
Una buona variante è quella di preparare la pasta e usare le fave. Si fa bollire l’acqua in buona quantità, vi si buttano le fave, che se sono fresche cuociono in breve tempo; se sono secche, bisogna che stiano prima in ammollo in acqua e bicarbonato per alcune ore.
La nonna Modesta preparava a parte un soffritto con cipolla, carota e sedano, che aggiungeva alle fave cotte quando buttava i tajarin, ma la Nina non condivide l’uso della pasta lunga con le fave fresche, per lei è meglio il riso o pasta corta.
Anche per questi piatti si beveva Barbera del Monferrato.
I peperoni quadrati di Cuneo sono i migliori, che lei cuoce, tagliati a pezzi, per un quarto d’ora, in una teglia dove ha soffritto una cipolla intera. Aggiunge poi la sua passata di pomodoro con dado sbriciolato e fa cuocere ancora per un venti minuti, aggiusta di sale.
La peperonata si mangia con la polenta, come contorno con il bollito o con la bistecca impanata o anche cuocendoci dentro lo spezzatino.
Luisella ha imparato da sua mamma e per avere a disposizione un contorno o anche un gradevole secondo, mette la peperonata in barattoli che fa bollire per un’ora e li ripone in dispensa; all’occorrenza, soprattutto quando arrivano amici all’ora di pranzo, cena o per aperitivo, ne apre uno e la tavola è pronta.
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