Dalla terrazza sulla collina di Capodimonte, dove ammirava il panorama sul golfo di Napoli, al mercato di Alessandria, girovagando tra i banchi insieme allo zio Peppino. Un viaggio attraverso odori e sapori che ancora oggi arricchiscono la vita di Giuseppe e che rivivono nel ricordo di tre donne e dei loro manicaretti, che hanno saziato il suo stomaco e il suo cuore: Diana, Maria e Nina. Una storia condita di sughi, di olio, ma soprattutto, di amore e allegria, perché il cibo non è solo nutrimento, ma anche condivisione e amore.
I tre fratelli con le fidanzate erano fermi ad ammirare le enormi colonne sorreggere il frontone del duomo, che mostrava in tutta la sua possenza l’origine di tempio pagano.
Le ragazze si trovavano ad Acerra per la prima volta, anzi era la loro prima volta nell’Italia a sud di Genova. Erano ammirate dall’animazione, dal chiasso e dall’allegria che si toccava con mano nelle vie della città.
All’improvviso furono distratte dall’arrivo di due enormi macchine nere dalle quali scesero tre uomini. Erano ben vestiti, ma i colori sgargianti delle cravatte e delle camicie indicavano chiaramente la mancanza di classe. Si avvicinarono alla seconda auto e, guardandosi intorno con la mano sul fianco da cui spuntavano i calci delle pistole, aprirono lo sportello e aspettarono che uscisse un uomo, alto non più di un metro e sessanta, completo doppiopetto bianco, ciuffo alla Elvis ed evidente pistola con il calcio in avorio che spuntava dalla cintura.
Le ragazze si guardarono, guardarono i fidanzati e scoppiarono in una risata sonora indicando il piccoletto.
I tre fratelli, terrorizzati, le trascinarono via sussurrando: «Andiamo via, quello è un uomo importante».
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1962, marzo. Pioveva.
L’auto si annunciò dalla strada che portava alla scuola con uno sfrigolio come di olio bollente. I tre bambini correvano saltando le pozzanghere. Non avevano l’ombrello, ma mantelle impermeabili di colore rosso con cappuccio, e nell’aria cupa sembravano tre folletti.
All’incrocio dovevano incontrare Alfonso e Armando.
Giocavano a spingersi e a rincorrersi. Enzo, più grande, dava anche delle sberle e giocava a suo modo, chiamandoli con nomignoli che si era inventato.
Aspettarono davanti alla casa di Alfonso qualche minuto, poi uscì la mamma del loro amico: «Bambini, andate. Alfonso non sta bene».
«Che cos’ha?» chiese Antonio.
«Non sta bene» rispose triste la mamma.
Più avanti incontrarono Armando che, come tutte le mattine, li aspettava sul muretto di cinta del Castello e presero dai cestini le colazioni.
Le mamme preparavano colazioni da viaggio adeguate alla stagione. Potevano avere cartocci con castagne cotte in diversi modi, oppure uova sode, ma anche arance o mandarini.
Durante la ricreazione, la cugina di Alfonso gli disse che il bambino si era ammalato perché una janara, una strega vecchia e cattiva, aveva dormito sulla sua pancia.
Nei cortili le donne raccontavano storie terribili, tramandate dai loro antenati, di episodi misteriosi di ragazze che avevano urlato tutta la notte per i fortissimi dolori alla pancia causati da una janara che ci aveva dormito sopra. E nessuno poteva farci niente, quando capitava era una maledizione.
In un cortile in corso della Resistenza, però, abitava una vecchia sempre vestita di nero, dalla testa alle scarpe, che andava per le case non solo per curare malattie agli occhi, alle orecchie e alla pancia, ma anche per allontanare queste streghe. Metteva dell’olio in un piatto e ci girava dentro il dito. Ogni tre giri, posava il dito sulla parte malata e sussurrava delle cantilene incomprensibili.
La storia di Alfonso li colpì tanto che per alcune notti i bambini dormirono chi nel letto della nonna, chi con i genitori.
Le janare erano scese dall’Irpinia nella notte dei tempi e ancora adesso turbano i sogni dei bambini di alcune zone della Campania. Il loro nome deriva da Janua, Giano, il dio romano dalle due facce che guardano davanti e dietro e che rappresentano l’inizio e la fine. Avendo la possibilità di guardare fuori e dentro, la sua effige era appesa alle porte affinché proteggesse la casa. Ma in latino janua significa anche porta, e il primo mese dell’anno era ed è derivato dal suo nome.
Per una settimana non ebbero più notizie di Alfonso, poi uno dei fratelli sentì la bidella parlare a voce fine fine con un maestro.
«La janara vuole prendersi Alfonso.»
«Ma non dite fesserie, quella è la polio che vuole prendersi i nostri bambini.»
Polio? si chiese il bambino. E chi è? Sarà un’altra strega.
Dopo la scuola raccontò ai fratelli quello che aveva sentito e insieme convennero che Polio fosse un’altra strega.
«Ma perché vuole prenderselo?» disse Silvio. «Che se ne fa?»
Vincenzo disse: «Da noi non viene, papà la manda via».
A casa la mamma li rassicurò: la poliomielite era una malattia che faceva morire i bambini o li faceva diventare storpi, ma loro non dovevano preoccuparsi perché avrebbero fatto la vaccinazione, una puntura sul braccio.
Non videro più Alfonso. Ma passando davanti alla sua casa, allungavano il passo senza voltarsi indietro.
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