In una calda giornata d’agosto, Giulia si tuffa in un laghetto. Quando il fratello, Salvatore, la tira fuori dall’acqua, la ragazza è caduta in un’inspiegabile catatonia. E mentre i suoi occhi lacrimano fango, il paesino di Tule, in Sardegna, diviene preda di un’arsura oscura che inaridisce le piante e le membra delle persone. Guidato da un disegno misterioso ed ermetico, Salvatore si convince che l’anima della sorella sia intrappolata in un limbo fra le dimensioni. Inizia così un viaggio tra vite parallele e piani della realtà, affrontando figure della mitologia sarda e rituali pagani sopravvissuti alle pieghe del tempo, alla ricerca dell’anima di Giulia e della libertà dal giogo del destino.
Prima parte
Passione
Fango
Tramonto di fine aprile, luce di Venere, la prima stella a nord.
O forse era un satellite.
L’aria fresca già sputava fuori la notte, e mi sentivo più stordito del solito mentre chiudevo il grande cancello di ferro con la scritta PAX: lavorare dieci ore dentro un camposanto è come risalire da una miniera, ne esci ogni volta da sopravvissuto.
Ho fatto scattare il lucchetto, e la vita mi è parsa lontana e assurda, un’illusione come un sogno di fango placcato d’oro. In realtà avevo estremo bisogno di una doccia bollente per togliermi di dosso l’energia negativa dell’ultimo funerale, tutta l’angoscia dilapidata dai parenti, i mugugni e le soffiate di naso, gli sbaciucchiamenti, i profumi dozzinali mischiati al sudore; e l’odore dei fiori, i fruscii della plastica che li avvolge. I borbottii vuoti, e il baccano dei tacchi delle donne vestite per bene, al funerale come al matrimonio. E così sia.
Due morti in un solo giorno, troppi per un mercoledì qualsiasi, per un solo becchino, per quello sputo di paese che si faceva chiamare Tule. Due vecchi rinsecchiti, senza più sangue né acqua, deceduti a causa di un morbo dell’aridità che colpiva l’intera comunità da quasi due anni, da prima che cominciassi a giocare a Caronte. Una specie di arsura magica, un flagello misterioso che ti ciucciava via i liquidi e bloccava i muscoli; e il fatto era che tutti mi detestavano perché ero stato io a scatenarlo. Così credevano, almeno, e gli davo ragione, per sentirmi un po’ eroe, un po’ vittima. Li avevo ricambiati accettando il posto vacante di beccamorto in paese: un venticinquenne fuori di testa che avrebbe vegliato sui loro morti come un avvoltoio. D’altronde nessun altro aveva intenzione di ammuffire tra fantasmi e fuochi fatui, mentre io fuggivo i vivi, da misantropo certificato, e così via.
Mi consolavo con il fatto che almeno i morti non consumavano il tempo, lo lasciavano tutto a me: il tempo per pensare, per leggere e scrivere, soprattutto il tempo di provare a capire quale follia mi fosse caduta addosso, da dove arrivasse quel morbo, fino a intuire dove saremmo tutti andati a finire; persino il tempo di studiare ogni tanto una pagina di filosofia, non fosse mai che riuscissi a prendermi quella benedetta laurea, mancata a due soli esami dalla meta per passare a fare il traghettatore d’anime.
Due anni prima però non ero così. Non ero un becchino.
Ma niente era così, due anni prima.
Tuno, un anziano fox terrier a pelo duro che mio padre aveva trovato e regalato a me e mia sorella Giulia, ha fissato per un po’ il satellite prima di saltare dentro il fuoristrada. “È ora di andare a casa”, voleva dire. Ho acceso i fanali e messo in moto; ho guidato lentamente lungo la provinciale in discesa. Il camposanto, infatti, si trovava sull’altipiano di Urxìa da dove dominava il paese di Tule, a due chilometri di curve, attraversando un boschetto di lecci.
Avrei percorso il centro dell’abitato come ogni sera, perché i miei avevano preferito lasciare la casa dei nonni nella zona vecchia per una a tre piani sulla strada per la città. “Ed eccolo”, avrebbero detto i paesani fumando fuori dal bar, con occhi semichiusi e mani secche per quel morbo, vecchi beoni con la pancia rotonda dalla birra sgasata. “Ecco il figlio di Giuseppe Crissantu con il suo fuoristrada da strambo, sempre disperato per la bella sorella annegata.”
Invece, dopo aver percorso appena quattrocento metri dal cimitero, ho dovuto letteralmente inchiodare all’altezza dell’incrocio con lo sterrato che a sinistra s’inoltrava nel pianoro fino ai piedi del Monte Uddè. Le ganasce hanno sfrigolato, e mi sono sistemato gli occhiali da ipermetrope scivolati sul naso, mentre Tuno appoggiava il muso sul cruscotto. Ha abbaiato fiacco per farmi credere di non aver paura, ma si è acquattato in un baleno sotto il sedile. Brutto segno.
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I fari illuminavano qualcosa di bianco che si agitava al centro della carreggiata a cinquanta metri da noi. Una forma che si faceva e disfaceva continuamente. Ho attivato gli abbaglianti più volte, ma non si spostava; proseguiva a picchiare l’aria con delle protuberanze laterali che assomigliavano ad ali. Ero ormai abituato al panico, persino al ridicolo, e sapevo che non potevo perdere neppure un’occasione di capire se quello che accadeva potesse avere a che fare con mia sorella. Così ho aperto la portiera, ho lasciato in moto e sono uscito; lo scarico del Defender per poco non mi ha ammazzato. Ho tossito forte, e quell’affare a trenta metri da me si è voltato.
Aveva una testa, un becco lungo come un uccello; una specie di airone. Non conoscevo alcun volatile più alto di me. Apriva e chiudeva le ali bianche freneticamente ed emetteva versacci sordi nella mia direzione come a dirmi qualcosa. Una venatura viola luminosa spiccava al centro del suo petto. Mi sono avvicinato, ma quello ha cominciato a muoversi con passi pesanti, una zampa dopo l’altra, imboccando la pista in direzione del Monte Uddè; ha provato a prendere la rincorsa, si è voltato a strillare, come a spingermi a seguirlo, ha cercato di volare ma ha perso le ali, il becco, è caduto a pezzi; infine ha preso fuoco, bruciando completamente come una fenice.
Solo che non è rinato.
Di lui è rimasto un mucchietto fumante come un sogno goffo di cui non sai che fare, un miasma di melma putrida e terra abbrustolita. In quasi due anni al cimitero ne avevo viste di cose strane, anime vaganti, ombre di voci. Ma niente di simile. Che diavolo era? Gli aironi d’altronde non sono fatti d’argilla. O forse sì.
Mio dio.
Giulia?
Ho messo la prima e sgommato. Sono arrivato in paese in un attimo. «Porca miseria!» ho detto a voce alta per dare un’eco alla paura che mi raschiava la mente, mentre rallentavo per attraversare il centro stranamente deserto: quello era uno degli uccelli di Giulia! Lei amava modellare l’argilla, era ossessionata dalla scultura. E tra le sue ultime opere c’era proprio un airone, sì, un po’ rozzo, l’aveva dipinto di bianco, con gli occhi arancioni e con una macchia viola al centro del petto come un cuore! Sì, doveva essere un suo segnale, come una preghiera: “Sono ancora viva, perché non vieni a cercarmi?”. Oppure era soltanto la milionesima allucinazione.
Ho parcheggiato il fuoristrada davanti all’ingresso del laboratorio di mio padre, ma Tuno non voleva uscire da sotto il sedile. L’ho lasciato lì e sono entrato nella falegnameria per salire le scale interne fino alla sala. Ho sbattuto forte la porta per farmi sentire: “Salvatore, il beccamorto di Tule è tornato! Osanna nell’alto dei cieli!”, e per far tremare le mura con il mio rancore represso. Ma era soltanto una posa, un tentativo di credere che avessi ancora una vita, carne e ossa, e che non sarei mai finito bruciato in un secondo come quell’airone. Perché sentivo da almeno due anni che il mio destino sarebbe stato quello di essere sacrificato, crocifisso. Aspettavo solo di sapere chi l’avrebbe fatto.
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