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La ferita delle ombre

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C’era un solo obiettivo nella testa di Bruno Mantoli: trovare l’assassino del capitano Ladorchi. Presto però, si dovrà dividere e lavorare insieme al fratello Jack anche sul caso dei tre ragazzini scomparsi nel nulla.
Che fine hanno fatto Rishi e i suoi due amici?
Che collegamento può esserci tra la loro scomparsa e il furto di alcuni diamanti dal valore inestimabile?
I fratelli Mantoli si ritroveranno davanti ad un nemico che fluttua in mezzo ad incubi e realtà, che si nasconde negli angoli più oscuri della loro mente e la cui identità sembra sfuggire a tutti: chi è l’uomo con il cilindro?

Perché ho scritto questo libro?

Come nei precedenti lavori, ho scritto per puro divertimento. E’ impagabile avere davanti una pagina vuota e trovare il modo di riempirla poco per volta, raccontando una storia che evolve insieme a te, giorno dopo giorno. Io stesso volevo scoprire il mistero che avevo lasciato in sospeso nella puntata precedente. Così è nato “La ferita delle ombre”.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prologo

Sabato 5 Settembre 1987

L’estate, era ormai pronta per nascondersi dietro al tendone del palcoscenico sul quale si era esibita per settimane. Per Rishi e i suoi due inseparabili amici, Fabio e Riccardo, era stata un’estate speciale. Tutti e tre avevano compiuto undici anni tra la fine di luglio e l’inizio di agosto e, nel giro di pochi giorni, avrebbero cominciato una nuova fase della loro vita. L’inizio delle scuole medie, dopo cinque anni da compagni di classe alle elementari, li avrebbe divisi: tre sezioni diverse della stessa scuola.

Che buffo il destino, forse era stato proprio lui a dividerli, in modo da non lasciarne uno da solo. Ma per affrontare quella nuova avventura, fatta di nuovi compagni di classe, nuovi amici, nuovi libri, nuove materie da studiare, nuove consapevolezze, c’era ancora tempo.

Non molto a dir la verità, giusto qualche giorno, ma per dei ragazzini di undici anni era uno spazio di tempo quasi infinito. Ci avrebbero potuto mettere dentro di tutto e avrebbero ancora pensato di avere posto sufficiente per riempirlo con qualcos’altro, con qualcosa di unico.

E quella sera, per i tre amici, era la sera che avevano pianificato da settimane. Avevano ascoltato più di una volta i discorsi di quelli più grandi, nella piazza del paese. Loro, in giro con le inseparabili biciclette, avevano colto ogni minimo particolare e si erano preparati.

Avevano già fatto un primo sopralluogo, ma erano stati disturbati da una macchina che era passata lì vicino, allora avevano deciso di andarci di sera, dopo cena, quando il cielo di settembre non aveva più la forza per illuminare fino a tardi.

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Nel crepuscolo sarebbe stato ancora più pauroso, ma loro erano coraggiosi, stavano diventando grandi, niente e nessuno li avrebbe fermati. Nessuno sarebbe stato più forte di loro.

Non vedevano l’ora di raccontare in piazza quello che avrebbero scoperto. Sarebbero diventati eroi, altro che quelli di terza media, che sapevano solo parlarne, ma non ci erano mai andati. Sapevano solo guardare le ragazze, seguirle con gli sguardi e ridere come cretini mentre le osservavano allontanarsi.

Loro, invece, erano più forti.

Erano da poco passate le otto e i tre amici si erano radunati nel cortile del condominio dove vivevano.

Erano pronti a partire quando la madre di Rishi comparve alla finestra: «Rishi, non fare tardi! Diventa buio presto adesso, quindi fate un giro veloce e poi a casa, va bene?»

«Sì, mamma, me lo hai già detto dieci volte!»

«Ecco… questa è l’undicesima allora…»

«Va bene…» rispose spazientito Rishi.

«Dove andate?»

«Te l’ho detto… facciamo un giro sull’argine del Po e poi torniamo.»

I tre amici partirono.

«State attenti!» gridò ancora la madre di Rishi prima che uscissero dal cortile.

Il grande fiume scorreva placido, anche lui in attesa di passare a una fase diversa del suo percorso, quando le grandi piogge autunnali lo avrebbero ingrossato, fino a farlo innervosire. Avrebbe sbattuto con violenza contro i piloni dei ponti che avrebbe trovato sulla sua strada, portando con sé i detriti che si davano appuntamento strada facendo. Avrebbe richiesto più spazio a quegli argini che cercavano di proteggere i paesi vicini, fino a superarli quando questi non gliene avrebbero dato.

Quella sera, però, era tutto calmo e i tre ragazzini seguirono il tratto di argine fino a quando imboccarono una stradina sterrata che scendeva verso l’ingresso di una cascina abbandonata. Varcarono il cancello spalancato, attraversarono un cortile e si fermarono sotto un porticato. Appoggiarono le bici ai pilastri e, in piedi, cercarono di prendere coraggio.

«È la rimessa al centro, giusto?» chiese Rishi.

C’erano tre portoni che si aprivano sotto il portico, vecchie rimesse di quando la cascina brulicava di attività.

«Così hanno detto…» rispose Fabio.

Si avvicinarono al portone centrale, che era chiuso con un chiavistello. Non c’era lucchetto, sarebbe bastato toglierlo dagli anelli e il portone si sarebbe aperto.

«Andiamo?» chiese Rishi.

«Sì» risposero gli altri due.

Il chiavistello si mosse cigolando e il portone si aprì. L’interno era buio, rischiarato debolmente solo dalla luce esterna che andava, però, a poco a poco a esaurirsi.

«Hai portato la torcia?» chiese Rishi a Riccardo.

«Sì, tieni.»

Rishi cominciò a ispezionare l’interno: un tavolo da lavoro con una morsa unta e arrugginita, scaffali di legno vuoti appesi ai muri, una catasta di bancali rotti lungo tutta la parete di destra, grandi latte di olio sparse per terra. Un telone rosso copriva una parte del pavimento, vicino alla parete che avevano di fronte.

«È lì sotto?» chiese Rishi.

«Così hanno detto…» risposero quasi all’unisono gli altri due.

Rishi fece due passi verso il telone, poi si fermò.

«Che c’è?» chiese Riccardo.

«Aspettate… Cos’hanno detto? Possiamo ripassare ancora una volta per essere sicuri?»

«Non fare il fifone! Sai benissimo cos’hanno detto!» gli disse Fabio, che però si guardava bene dal prendere l’iniziativa.

«Io… non sono un fifone!»

«E va bene, va bene. Hanno detto…» Fabio si fermò e riprese a voce bassa, ridotta quasi a un sussurro. «Hanno detto che nella rimessa centrale della cascina abbandonata, sotto un telo rosso, c’è un buco poco più grande della serratura di una porta. E… se ci si guarda dentro… si può vedere…»

Fabio si era fermato ancora una volta.

Guardava i due amici, che sembravano aspettare di sentirlo dire ancora una volta, nonostante sapessero benissimo cosa sarebbe uscito dalla bocca di Fabio.

«Si può vedere… l’inferno!»

«Siamo sicuri di volerlo fare?» chiese Rishi.

«Non possiamo tornare indietro» disse Fabio.

«Facciamolo» rispose Riccardo.

Fecero gli ultimi passi che mancavano per arrivare alla parete di fondo. Rishi era sempre un passo davanti agli altri, con la torcia elettrica in mano a illuminare quell’angolo buio.

Fu lui a sollevare un lembo del telo rosso, con la testa rivolta verso l’ingresso della rimessa, quasi a non voler guardare, quasi a essere pronto a schizzare via se le cose si fossero messe male.

Il cuore che gli batteva forte nel petto.  Anche i due amici avevano il battito accelerato, pronti anche loro a scattare via al minimo segno di pericolo.

Il telo venne a poco a poco sollevato, finché non fu adagiato contro il muro, ma quello che era celato sotto, li lasciò di stucco: non c’era niente. Nessun buco, ma sempre lo stesso nudo pavimento in terra battuta che ricopriva il resto della rimessa.

Li avevano presi in giro? I grandi li avevano seguiti ed erano là fuori, pronti a entrare, a ridere di loro per farli diventare gli zimbelli del paese?

Avrebbero fatto davvero una figuraccia: da eroi, a sciocchi creduloni.

Quando ormai le speranze erano state accantonate, Riccardo notò un mattone posato a terra al centro del perimetro che, fino a qualche secondo prima, era coperto dal telo rosso.

«Rishi… quel mattone…» disse Riccardo.

«Cosa vuoi che sia… è un mattone» rispose Rishi.

«Prova a spostarlo…» disse Fabio.

Rishi si avvicinò, ma non osò toccarlo con le mani e lo scostò con un piede. Sotto c’era un buco che, come avevano sentito dire dai grandi, era poco più grande di una serratura. Sembrava un cerchio perfetto, l’ordine in mezzo a tutto a quel disordine.

Se ci si guarda dentro si può vedere l’inferno.

Rishi si inginocchiò.

«Rishi… sei sicuro? Io non lo sono più così tanto…» disse Fabio.

Riccardo si era ammutolito, non sapeva bene cosa fare: restare e scoprire cosa ci fosse là sotto o darsela a gambe? Erano così decisi fino a qualche minuto prima… ma ora che erano davanti a quel buco, ora che avevano scoperto che esisteva davvero… non si sentivano più tanto forti.

L’unico che sembrava aver acquisito più forza di prima era Rishi. Era entrato come in una specie di trance e non riusciva a percepire la paura che si stava impossessando dei suoi amici, né qualsiasi altra cosa provenisse dal mondo esterno. Ormai, nella sua testa, c’era solo una cosa che gli interessava fare: guardare.

Avvicinò un occhio al buco e sbirciò all’interno, ma vide solo buio.

«Cosa vedi?» chiese Riccardo.

«Niente… è tutto buio.»

Rishi restò qualche secondo concentrato, poi cercò di respirare piano, senza fare rumore. Fece un cenno agli altri di fare altrettanto, come se avesse bisogno di silenzio assoluto.

Inclinò la testa di lato, cercando di avvicinare un orecchio al terreno, attento però a non perdere la visuale all’interno del buco.

«Li sentite anche voi?» chiese.

«Cosa?» risposero insieme gli altri due.

«Rumori… o voci… o grugniti…»

«No, da qui non si sente niente…» si affrettò a dire Riccardo, sempre più impaurito.

Lui, invece, sentiva bene quei versi e non poteva essere la sua immaginazione. Poi, all’improvviso, vide un punto di luce che, pian piano, saliva verso l’alto in modo lento ma inesorabile.

La luce si avvicinava anche se era ancora lontana.

«C’è una luce… Si avvicina…»

«Dai, Rishi, smettila… andiamo via… si sta facendo buio là fuori» Riccardo, al quale Rishi aveva passato la torcia, illuminò il portone d’entrata, dal quale ormai la luce non riusciva più a interrompere il buio.

«È gialla… sembra una luce che emana calore…»

«Tiralo via!» disse Riccardo a Fabio.

«È sempre più grande… sale più forte ora… sembra…»

Un lungo sospiro di paura uscì dalla gola di Rishi.

Si alzò improvvisamente e cominciò a correre verso l’uscita della rimessa. Incespicò in una delle latte sparse a terra, cadde, ma si rialzò subito e continuò a correre.

Fabio e Riccardo lo seguirono, presero le bici e si lanciarono a tutta velocità verso il cancello: era chiuso.

Scesero dalla sella e cercarono di aprirlo, ma era chiuso a chiave.

«Chi l’ha chiuso?» urlò Rishi.

«E io che ne so!» rispose Riccardo.

«Guardate!» disse improvvisamente Fabio, indicando in direzione della rimessa dalla quale erano appena scappati.

Quella luce gialla, che Rishi diceva di vedere avvicinarsi verso di lui mentre guardava nel buco, ora illuminava l’interno del deposito.

Da dove erano, potevano vedere solo la parte antistante al portone che avevano lasciato spalancato e videro un’ombra che cercava di farsi largo.

«Che cosa succede?» chiese Riccardo.

Rishi aveva lo sguardo puntato verso la rimessa, mentre Fabio cercava di arrampicarsi sul cancello per scavalcarlo, ma non c’erano appigli. Era impossibile andarsene.

L’ombra era diventata una figura, che si era messa davanti al portone della rimessa e guardava nella loro direzione, illuminata, da dietro dalla luce gialla.

Impossibile dire chi fosse. O cosa fosse.

Era scura, buia come la notte, aveva un cilindro in testa e le erano braccia distese lungo i fianchi.

L’ombra cominciò a camminare verso i ragazzini con un passo lento, quasi meccanico.

Il silenzio del luogo era interrotto soltanto dal rumore dei passi della figura, sul terreno accidentato.

Crac…

Crac…

Crac…

I tre amici erano bloccati dalla paura, con gli occhi spalancati e la bocca aperta che avrebbe voluto urlare, ma dalla quale non usciva nulla.

Davanti al petto della figura, si accese un punto di luce gialla. Ora che si era allontanata dalla rimessa, era l’unica che non la faceva confondere con il buio che la circondava.

Poi, all’improvviso, Rishi cominciò ad andare incontro a quel personaggio, con lo stesso passo cadenzato.

Crac…

Crac…

Crac…

Ora anche i suoi passi squarciavano il silenzio.

«Rishi, no!» urlarono gli altri due.

Poi la luce davanti al petto di chi era uscito dalla rimessa si spense. E il buio li inghiottì tutti.

1

Sabato 29 Agosto 1987

Erano passati poco più di tre mesi dal funerale del

capitano Ladorchi. Una cerimonia a cui avevano partecipato tanti cittadini; la chiesa parrocchiale era gremita di gente e satura di emozioni. Bruno Mantoli si era accomodato su una sedia della navata di destra, verso il fondo della cattedrale. Avrebbe voluto restare da solo, gli occhi fissi sull’altare, a guardare la tomba dell’amico, mentre ascoltava l’omelia del parroco. Invece quel giorno, era impossibile restare in disparte: i posti erano quasi tutti occupati.

L’omicidio del capitano Ladorchi aveva scosso l’intera

comunità, una comunità che chiedeva giustizia, che chiedeva risposte su quanto era accaduto. Ma di risposte, al momento, non ce n’erano.

Ladorchi era stato colpito da un proiettile sparato a

bruciapelo quando, qualche mese prima, aveva risposto ad una chiamata mentre non doveva essere in servizio. Si stava preparando per andare a pescare con il nipote, ma quel furgone era comparso ancora una volta, quel furgone che veniva segnalato fermo in mezzo alla strada, con due persone all’interno, una al volante e l’altra seduta da parte, apparentemente addormentate. Doveva vederci chiaro e così era andato lui a controllare, ben lontano dall’immaginare che quella sarebbe stata la sua ultima missione.

Perché, capitano?

Perché è voluto andarci da solo?

Bruno non riusciva a togliersi dalla testa quelle domande.

Chi c’era su quel furgone?

Perché uccidere Ladorchi?

Aveva visto qualcosa che non doveva vedere?

O qualcuno?

Altre domande.

Nessuna risposta.

Bruno si era guardato intorno e aveva visto il fratello

Giacomo, Jack come si faceva chiamare lui, in una delle panche della navata principale. Accanto a lui c’era la figlia di Bruno, Giulia, che non gli rivolgeva la parola da quando aveva scoperto la verità sulla storia della madre.

Elena era viva, non era scomparsa in mare come lui le

aveva fatto credere dopo i tragici eventi del 1982.

Elena era viva, lui l’aveva incontrata in Islanda.

Elena era viva e lei l’aveva incontrata nella villa del

nonno, per caso, quando la madre era tornata in Italia per recuperare quel quadro maledetto: rubato, scomparso, ritrovato, creduto vero, poi falso, poi di nuovo autentico.

Un quadro macchiato di sangue.

Troppo sangue.

Non c’era stato nessun dialogo tra madre e figlia,

entrambe sorprese di trovarsi l’una di fronte all’altra. Elena era scappata dalla porta interna di quello che era stato il suo studio a villa Bonifazi, mentre Giulia cercava di correrle incontro, senza però riuscire a raggiungerla. Si era inginocchiata davanti a quella porta, singhiozzando, urlando con tutta la forza che aveva dentro di sé, battendo i pugni sul legno lucido di quel passaggio, dove Elena era sparita ancora una volta. Erika, che era con lei alla villa, l’aveva raggiunta e l’aveva stretta in un abbraccio cercando di calmarla.

Erika.

Non l’aveva vista al funerale, non sapeva dire se avesse

partecipato alla cerimonia oppure no. Lui non l’aveva vista e non l’aveva cercata.

Erika se n’era andata proprio il giorno in cui Ladorchi,

dopo settimane di agonia, era morto.

La loro storia non aveva funzionato e di motivi ce n’erano

tanti: Bruno ancora legato ad Elena, Bruno che non riusciva a esprimere i suoi sentimenti, Erika lasciata in balia di un caso troppo pericoloso, Erika drogata dai criminali che cercava di incastrare e salvata all’ultimo secondo utile, Bruno che si sentiva in colpa per non averla protetta, Erika che avrebbe avuto bisogno di più fiducia, che voleva sentirsi importante, indipendente, ma nello stesso tempo amata incondizionatamente.

Bruno osservava Giulia che guardava fisso davanti a sé,

con le lacrime che le rigavano il viso, la mano stretta in quella dello zio Jack.

Non era più nemmeno in grado di stringere la mano della

figlia nei momenti difficili.

Era questo quello che era diventato?

Jack si girò e incrociò la sguardo del fratello.

Sapeva che Giulia era al sicuro con Jack, ma nella testa di

Bruno il punto era un altro: doveva in qualche modo recuperare il rapporto con la figlia, ma non ci stava riuscendo. La cosa stava andando troppo per le lunghe e a volte aveva il timore di averla persa per sempre.

Ma questi fatti appartenevano al passato.

   Tre mesi dopo, era Jack l’uomo che aveva bisogno di

aiuto.

Era Jack che avrebbe potuto riunire padre e figlia.

*

Al cimitero Monumentale di Milano, Jack era rimasto solo.

Seduto in una delle panche della piccola chiesa dove si era appena conclusa la cerimonia funebre, fissava l’altare.

Gli occhi sbarrati, l’anima spenta, il cuore vuoto.

Quel cuore, che solo qualche mese prima aveva battuto

all’impazzata, ora sembrava voler rallentare. Come un motore a cui è stato tolto il carburante cerca di recuperare l’ultima goccia nell’angolo più lontano del serbatoio prima di smettere di funzionare, anche il suo cuore cercava l’ultima stilla di emozione che lo aveva fatto tornare a battere così forte da stare male.

Dov’erano andati tutti?

Sì, certo. La sepoltura.

Non ne aveva avuto il coraggio.

Quando il prete aveva benedetto la bara, cospargendola

d’incenso, la gente aveva cominciato ad alzarsi, per seguire il feretro all’esterno e accompagnarlo negli ultimi metri, verso l’atto finale.

Ma lui era rimasto immobile al suo posto, incapace di

muovere un muscolo. Era andato da solo al funerale, non aveva voluto nessuno insieme a lui, né Bruno, né Giulia. Soprattutto la nipote aveva insistito per accompagnarlo, ma lui non ne aveva voluto sapere.

Quel dolore doveva affrontarlo da solo.

E da solo sarebbe stato disposto a morire se fosse

accaduto.

Morire.

Era quello che voleva fare?

Ci aveva pensato.

Ci pensava da quando era arrivata quella telefonata.

“Jack…?”

“Sì…?”

“Sono Mauro Corti… il papà di Tania.”

Jack aveva visto per la prima volta Tania la fine dell’anno

prima in un hotel di Milano, dove lui stava impersonando un ricco italo-americano per cercare di fare luce su un caso su cui stava indagando insieme al fratello Bruno. L’aveva vista indifesa, impaurita, sconvolta e maltrattata da quello che poi si sarebbe rivelato essere il suo uomo.

Uomo?

Lui era uno spacciatore, era il proprietario dell’Open All

Night, un locale di spogliarelli che copriva un traffico di prostituzione minorile. Un altro caso a cui il fratello Bruno stava lavorando a sua insaputa.

Ma anche Tania aveva qualcosa da nascondere.

La droga.

La prostituzione.

Una figlia che non vedeva da tempo.

Lui se ne era innamorato senza nemmeno rendersene

conto.

Perché?

Non aveva trovato risposte.

Era stato così.

Punto.

Lei lo aveva usato, lo aveva tradito.

Quando lui aveva cominciato a lavorare come barista

all’Open All Night, lei lo aveva avvicinato e avevano cominciato a frequentarsi. Lui le aveva raccontato della sua vita e della sua nuova attività con il fratello: investigatore privato. Era stato picchiato nel parcheggio del locale, venduto da chi gli aveva rapito il cuore.

Puoi comprare un sentimento?

Puoi vendere un sentimento?

Tania era sparita, per poi riapparire nella sua vita qualche

mese dopo, quando suo padre aveva contattato Jack per dirgli che la figlia aveva deciso di riprovare la strada della disintossicazione. Si era ricoverata in una clinica, lui era andato a trovarla, ma lei non aveva voluto vederlo.

Cosa le aveva fatto prendere la decisione di cercare di

rimettere in sesto la sua vita?

Jack non contava davvero nulla per lei?

Una pallina di Natale può cambiare la vita di una persona?

Improbabile.

E la vita di due persone?

Altamente improbabile.

Una pallina di Natale può salvare la vita di qualcuno?

Impossibile.

A meno che… a meno che non stringa un’alleanza con un

vecchio walkman, una cassetta ormai rovinata degli Aerosmith e con una forza inspiegabile che lascia senza fiato.

“Signor Corti… cosa succede?”

Qualcosa nella voce dell’uomo non lo convinceva.

“Tania è morta.”

“No, non è possibile. Sono stato in clinica qualche giorno

fa… non… non è possibile.”

Jack avrebbe voluto continuare a convincere Mauro Corti

che si stava sbagliando, che qualcuno lo stava prendendo in giro, che Tania stava bene, che stava proseguendo il suo percorso.

Perché morta?

Come?

Tania era stata ritrovata senza vita nella sua stanza alla

clinica.

Si era impiccata con le lenzuola.

Jack si immaginò la scena e non poteva accettare quella

situazione.

Era andato alla clinica, aveva parlato ancora una volta con

quell’infermiera alla quale aveva lasciato il regalo che le aveva comprato, alla quale aveva chiesto di dirle che le voleva bene.

Aveva sbagliato?

Non avrebbe dovuto farlo?

Volle sapere i particolari.

Non c’erano stati segnali, ma forse la mente di Tania era

troppo malata per reggere ancora.

Avevano trovato tutto a posto nella stanza, tranne una cosa.

Una pallina di Natale.

Rossa.

A pezzi sul pavimento.

Era stata trovata anche una lettera, indirizzata a lui.

Indirizzata a Jack.

Lì, da solo sulla panca della chiesa, la teneva tra le mani.

Non l’aveva ancora aperta, voleva ritardare quel momento

all’infinito. Su quella lettera sentiva il suo profumo, tenerla in mano gli ricordava di quando le accarezzava i capelli.

Ma lei non c’era più.

Pazienza se non lo amava.

Pazienza se lo aveva tradito.

Non riusciva a odiarla.

Non ce la faceva proprio.

Ma ora, non esisteva più nemmeno la speranza di saperla

felice da qualche altra parte.

Con suo padre.

Con sua figlia.

Con qualcuno che l’amasse come l’aveva amata lui.

Si stava facendo buio.

L’interno della chiesa era scarsamente illuminato e si rese

conto che doveva aver passato lì dentro troppo tempo. Fuori non si sentiva più nessun rumore, la gente doveva essersene andata, la cerimonia doveva essere finita. Forse il cimitero aveva perfino chiuso.

Era rimasto chiuso dentro?

Sì, forse è quello che mi merito. Pensò.

Restarmene chiuso con l’anima che non sono riuscito a

salvare.

Un borbottio lontano annunciava l’arrivo di un temporale.

Si alzò da quella panca sulla quale era seduto da ore e si

avviò verso il portone della chiesa. Era aperto, girò la maniglia e si trovò in mezzo a decine di tombe e cappelle.

Non c’era anima viva.

Che bella battuta. Pensò.

Vide i nuvoloni neri che si avvicinavano da nord.

Un tuono.

Forte.

Il primo dopo il brontolio.

Si avvicinava.

“Jack…! Jack…!”

Sentì la voce di qualcuno.

Lo stavano cercando?

O era la sua immaginazione?

“Jack…! Jack…!”

No, non era l’immaginazione.

C’era qualcuno.

“Zio Jack…! Zio Jack…!”

Quella ragazzina non lo ascoltava mai.

Le aveva detto di restare a casa e invece…

“Zio Jack…! Zio Jack…!”

Non la vedeva.

Non riusciva a vedere niente.

Un’improvvisa folata di vento gli fece volare via la lettera

dalle mani.

“No! Tania!!!”

“Tania!!!!”

“Tania!!!!”

“Tan…”

Una figura sbucò improvvisamente da dietro una tomba.

Era di spalle, la testa bassa.

Si diresse nella direzione opposta rispetto a Jack, il quale

ora era indeciso se continuare a rincorrere la lettera che veniva trascinata via dal vento o se seguire quella… donna?

Era Giulia che lo stava cercando, si disse.

“Giulia! Sono qui!”

“Giulia!”

Lasciò perdere la lettera e si mise a correre inseguendo la

nipote, che nel frattempo aveva imboccato un vialetto sulla destra, girando l’angolo di una cappella di famiglia.

Jack allungò il passo e la seguì lungo il sentiero.

Ma appena oltre il muro della cappella, restò di sasso.

Di fronte a sé non aveva la nipote, ma un essere dai capelli

lunghi, con un cilindro in testa.

Il viso era un orrore.

Deforme, mostruoso, con la bocca spalancata che metteva

in evidenza denti aguzzi sporchi di sangue e gengive rosse.

Jack trattenne il fiato, non sapeva cosa fare.

Voleva scappare, ma i suoi piedi era come se fossero stati

saldati al terreno.

“Ciao, Jack.”

La voce era tenera e placida, quasi emozionata.

Quella voce…

All’improvviso, la lettera che poco prima gli era stata

strappata dal vento, spuntò dalle mani dell’essere.

“Hai perso questa… non perdermi mai, Jack…”

Jack riprese la lettera dalle mani dell’essere, il quale si

girò, gli diede le spalle e si allontanò.

Jack lo fissava.

La… fissava.

“Tania!”

“Tania, aspettami!”

“Tan..”

“Zio Jack…! Zio, svegliati!”

Jack si mise a sedere sul letto e prese aria dai polmoni.

“Zio, ti senti bene?”

Jack non parlava, cercava di riprendere a respirare in

modo normale. Grondava sudore.

“Zio, dimmi qualcosa ti prego…”

“Sto bene, tesoro. Sto bene.”

“Hai avuto un altro incubo, non è vero?”

“Sì… ma sto bene adesso. Non ti preoccupare.”

Un lampo squarciò il buio fuori dalla finestra, poi il tuono

fece sobbalzare Giulia ancora ferma ai piedi del letto dello zio.

“Il temporale mi ha svegliata e ti sentivo parlare nel

sonno e sono venuta a vedere. Zio… devo chiamare papà?”

“No. No, tesoro. Torna a dormire. Io… starò bene.”

La pioggia cominciò a picchiettare sul vetro della finestra

e si trasformò presto in un violento acquazzone.

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Fabrizio Soffientini
Nasce nell’agosto del 1976 a Codogno, piccolo centro della bassa pianura padana, dove attualmente vive. Diplomato in ragioneria, lavora presso un’azienda del settore cosmetico. “La ferita delle ombre” è il suo quarto romanzo dopo, "Come il sale e il mare" (bookabook 2024), “La tana del coniglio” (bookabook, 2022) e “Alla fine dell’arcobaleno” (bookabook, 2021).
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