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La gatta di Rubens

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Consegna prevista Dicembre 2025
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L’estate del 1992 lascia il segno nelle vite di Frida, Vera, Emma e Martina, amiche dalle caratteristiche imperfette e fuori dai canoni di bellezza imposti da quegli anni, di modelle piatte e senza forma. E’ Frida che fa da filo conduttore facendo vivere il lettore in epoche diverse, negli anni Novanta durante l’adolescenza delle ragazze, negli anni Trenta dove è la memoria dei nonni a portare a galla una storia da non dimenticare, che trascina i personaggi ai giorni attuali con un mistero che trova le sue radici in uno strano passato. Il conflitto da risolvere in tutte le epoche è quello con il proprio corpo, o parti di esso, in risposta a dolore, menomazione, privazione, maltrattamento, perdita, esagerazione del desiderio. Ma d’improvviso, gulp, la vita riserva incastri e conoscenze che conducono a un guizzo. A uno spiraglio di luce.

Perché ho scritto questo libro?

È il frutto di tanti punti di vista della mia classe di scrittura, di idee pensate e condivise, di “entrate tardi e uscite presto nella storia, scavate nei dialoghi, privatevi delle parti che il lettore ometterebbe”, di “Prof. toglimi tutto, gli aggettivi di troppo e la densità del testo, ma non la mia torta alle fragole”. Perché raccontare fa gruppo, narrare fa storia, leggere fa immedesimare. E scrivere La gatta di Rubens? Fa boomer, ma anche Gen X e un po’ Gen Z!

ANTEPRIMA NON EDITATA

“Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri.”

Alda Merini

PARTE I

La gatta di Rubens

«Rum e vaniglia».

Il naso di Emma sfiorò il punto dove lʹincavo tra clavicola e spalla formava una esse colma di feromoni. La pelle, compressa in un ordito di fili neri e gialli come la vergogna, odorava di caos come il suo corpo. Emma era puntuale nel provocarla.

«Ho bevuto un daiquiri», le rispose Frida, infastidita dal gesto.

Mentre gli ospiti ammassati nel giardino della villa ammiravano la sfilata di costumi da bagno a bordo piscina, Vera sondava il vuoto dal trampolino, in attesa del suo turno nel gran finale, aggiustandosi il costume olimpionico prima sulle pieghe dell’inguine, poi sui glutei, traboccanti come quelli delle donne nei dipinti di Rubens. I suoi occhi non avevano zone d’ombra intorno alle pupille e la rifrazione della luce le donava uno sguardo ipnotico e affascinante.

Dopo nemmeno un paio d’ore dall’arrivo, Frida si era pentita di essere alla festa. E per di più al mare. Perché anche quella sera aveva voluto tentare, fallendo ogni volta, di andare oltre le proprie insicurezze? Non solo aveva chiuso in fretta lo studio, ma perfino rinunciato alla mostra in Pinacoteca per una stupida festa estiva.

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Quella sensazione di sfiducia in se stessa, saltuaria, le riportava a galla umiliazioni profonde come le radici di salici piangenti. Quanto avrebbe voluto essere una gatta longilinea dalle membra dissolute e libere, che decide di saltare senza sfracellarsi al suolo. Non era successo niente in piscina, “niente di cui preoccuparsi”, aveva ripetuto a se stessa. “Frida, non ci pensare, Emma è la solita provocatrice” ‐ nemmeno la storia che ci ha toccato nelle viscere l’ha cambiata? ‐, rimuginava sorseggiando un daiquiri, mentre con lʹaltra mano si alzava i capelli per liberare il collo dal gesto sfacciato di Emma. Quante volte, da adolescente, aveva subìto offese, allusioni, sberleffi. Il suo collo era pieno di fantasmi che, come iene dalle mascelle larghe e potenti, le avevano strappato via pezzi di vita. “Le iene sono lente nella corsa, ti sondano prima da lontano, poi attendono il momento in cui i leoni hanno fatto la loro parte con la preda, per avventarsi coi canini sui brandelli di carne”, borbottò mentre nella sua testa sopraggiungeva una prevedibile interferenza. Il ricordo delle iene, delle sue amiche, anni prima, davanti allo specchio delle cabine, imbellettate in costumi frivoli a strisce bianche e rosse, che avevano deriso il suo costume rimpicciolito dall’abbondanza delle braccia e delle cosce. Se non glielo avessero ricordato le iene, lei avrebbe sorvolato sul suo corpo grassottello come quello di Vera, pudica e fiera nel suo bikini sostenuto da una pancia a forma di globo. Le sue amiche, tranne Vera, l’avevano attaccata in mezzo al gruppo per ferirla, ed Emma, una delle iene striate, in trent’anni non era per niente cambiata.

Frida odiava quella libertà maliziosa che la stagione estiva regalava alle sue coetanee, tranne quando sopraggiungeva mentre nuotava con Vera. L’acqua la sollevava dai suoi dubbi, facendola sorridere quando le solleticava la pelle mentre s’intrufolava nel costume, lasciando vibrare i rotoli di troppo riempiendoli di sabbia.

Quante volte Frida avrebbe voluto essere guardata con la stessa attenzione con cui si guarda un quadro di Rubens, nella sua estetica barocca e opulente, o con cui, da lontano, si ammira un quadro impressionista, nei suoi colori vividi e pieni. ‐ Per un pittore impressionista, non è il soggetto che conta, ma concretizzare sensazioni, recitava il pieghevole sulla mostra, ahimè, alle Gallerie Estensi, in pieno centro a Modena.

Un’altra interferenza, invece, le aveva concesso un po’ di respiro. Sembri quasi bella, Frida aveva sorriso nel ricordare, qualche anno prima, l’asserzione di Gina, una delle otto anziane signore con cui aveva condiviso la camera in ospedale. Mai sembrata, mai stata bella le aveva risposto. Si ricordava molto bene il perché della sua degenza in ospedale, ma la signora Gina, che aveva fatto la comparsa in una commedia di Fellini, era riuscita a distoglierla dal suo pensiero fisso. Quel momento privo di nero, nonostante tutto, e quella frase di Gina – “Sembri quasi bella” ‐ l’avevano riportata alla sfilata. La concitazione degli ospiti creava un chiaro‐scuro di ombre deformi sulla superficie dell’acqua, che odorava di cloro e di profumi commerciali. Le modelle filiformi attiravano sguardi avidi di perfezione.

Frida stirò il collo, scorgendo, oltre la punta del mento sollevato, Vera ferma in attesa del gran finale. Era passata una ventina d’anni dai racconti sui loro fantasmi adolescenziali e una settimana dalla telefonata rivelatoria – se così fosse, sarebbe terribile, Frida. Qualche gara agonistica di nuoto e il lavoro da traduttrice avevano tenuto impegnata Vera e rivederla le aveva fatto venire voglia di osservarla più da vicino. Di volerla tenere stretta a sé. Appena arrivata, c’era stato solo il tempo di un abbraccio, sincero come una carezza che

ti fa sentire a casa.

Ora il collo di Frida era più sciolto e il vestito, giallo oro come un quadro di Klimt, disteso sui fianchi. Sbirciò Emma, l’amica Martina e la gente a bordo piscina, accecati dall’illuminazione da stadio della passerella.

Il corpo di Vera, che spiccava sulla folla distratta, era fermo nella sua generosa freschezza, fitta di smagliature e di qualche cicatrice, con i piedi all’erta sul da farsi, non completamente rilassati in cerca del pavimento. Con le braccia lungo i fianchi, le sue mani si muovevano come uno yo‐yo che si stirava il più possibile verso il basso per riprendere la sua corsa verso la parte alta del corpo, riconoscendo il perimetro delle curve che cercavano di distendersi ma, lentamente, si sformavano come un vaso d’argilla creato da mani alla prima lezione di ceramica.

Frida era ipnotizzata dalla sua schiena, sempre più vicina, dall’estrema flessibilità di quella che una volta era la spina dorsale e dal grazioso repertorio di movimenti saltellanti. La pancia rotonda s’intravedeva dai fianchi flosci inglobati nello slip a vita alta, mentre le scapole fuoriuscivano dall’intreccio del pezzo di sopra. Un salto così verticale doveva essere profondo circa dieci metri. Sembrava che, come una gatta, Vera ragionasse sulla distanza e calcolasse quanto potere propulsivo necessitassero i muscoli delle zampe posteriori per saltare senza sfracellarsi.

D’un tratto Vera si voltò e, annusando l’aria calda, disse: «Ah, sei tu Frida». Frida sorrise, ripensando alla mostra cui aveva rinunciato. Difronte a lei un vortice di muscoli e fatica a forma d’arte, lo spazio intorno nitido, la dinamicità in prospettiva. Le iene striate dei suoi ricordi erano rimaste senza cibo.

Perché ci sono corpi coraggiosi che resistono alle intemperie, mentre altri si abbandonano esanimi? Perché il male estremo prende decisioni sui corpi contro la nostra volontà? Di che cosa abbiamo bisogno se non di somigliarci nella nostra vulnerabilità e di nutrire la pelle con le storie degli altri?

«Facciamo due chiacchiere dopo, che ne dici?», continuò Vera congedandosi in pieno equilibrio sui suoi piedi.

La musica della sfilata ritmava le note del gran finale, mentre il faro a occhio di bue metteva a fuoco il trampolino. Vera era pronta: il corpo sensuale, avviluppato in un tuffo a volo d’angelo, bucò l’acqua con grazia sorprendente. «Volentieri» rispose Frida tra sé sgattaiolando come una pantera verso il bordo piscina per recuperare la sua amica.

Le interessava parlare della bellezza che l’aveva segnata, delle confidenze taciute, del filo segreto che – ignare per anni ‐ le aveva tenute unite.

Mai, come quella volta, Frida aveva amato di nuovo il mare.

Ho tutto quello che desidero

Era sdraiata, prona, sulla battigia.

La pancia a forma di globo, modellata da sabbia cinetica grigio tortora, sprofondava adagio. Mentre l’acqua s’infilava dappertutto, come il desiderio di un’adolescente che conta i secondi che la separano dal suo innamorato, Vera ascoltava la voce del mare.  Nel rifrangersi sulla sua pelle dorata, il mare le parlava sottovoce. Che bello, le diceva, che bello il campeggio assieme a Frida, mamma, papà, Filippo e Chichi. Le foto dei campeggi erano sempre allegre. Ma quella riflessa sulla schiuma che sfrigolava vivace sembrava sigillare una visione dal gusto ho tutto quello che desidero. “Lʹobiettivo di papà, il suo occhio immerso nei nostri e gli occhi di mamma immersi nei suoi. Era raro che papà facesse fotografie: mamma era lʹartista. Ma quella volta papà ci ha spiazzato. Mamma quasi non sorride in foto perché non le piace essere fotografata. Dice che ha il faccione. Per me è bella, di una bellezza buffa che ti divora in silenzio. Ma sa che è un momento tutto loro, pieno d’amore da spiaccicare sulla pellicola come si spalma la cioccolata sulla fetta da toast: con abbondanza, esagerando il gesto, prendendosi tutto il tempo necessario per inquadrare ogni angolo della fetta di papà. La fetta della sua felicità, che poi è la nostra”.

Vera aveva tutto quello che desiderava: il suo amato mare. La schiuma continuava, a intervalli precisi, a sfrigolare. Abbandonata al letto di sabbia come ci si concede a un materasso in memory foam, cercava ogni volta di riprendere consapevolezza del suo corpo, prona, con la faccia di lato e l’orecchio a conchiglia in ascolto della lieve risacca.

Sull’unico scoglio arrotondato, che bucava l’acqua a poco meno di cinquanta metri da riva in modalità contatto oculare, un gabbiano scrutava il mare. Sciabordìo, rumore bianco, somma di tutte le frequenze sonore percepite dall’orecchio, come il colore bianco, somma di tutti i colori afferrabili dall’occhio umano. Vera faticava a ricordarsi di parole così difficili dette dalla professoressa in classe alla prima lettura di una poesia di Quasimodo, ma aveva pensato a un modo per imprimerle non solo sul suo diario. Le scriveva sulla sabbia. Fin qui, nulla di eccezionale. Tutti i ragazzi e le ragazze scrivono sulla sabbia e si immaginano che, dall’alto, qualcuno li guardi come un drone che vira e oscilla in avanti e indietro seguendo l’indice, mentre scrive, prima di stabilizzarsi sulla traiettoria del mare. Poi? Poi Vera attendeva che l’acqua portasse via la parola verso il punto in cui non si tocca, vicino allo scoglio, seguiva i granelli che si sgranavano nell’allontanarsi verso il fondo, che, aiutato da piccoli vortici, li restituiva verso riva, dove lei, instancabile, ricomponeva i granelli con l’indice.

Sciabordìo

gorgoglìo che un liquido fa quando è mosso 

o quando un corpo è agitato all’interno di un liquido.

Rumore bianco delle onde, bianco come il colore della roulotte di famiglia. S’ode ancora il mare, avrebbe detto Quasimodo se fosse stato lì con Vera, come una conchiglia trasportata a riva.

23 novembre 1980. Avevo sette anni e mezzo. Ricordo la televisione che faceva confusione. Papà aveva alzato il volume perché le immagini sincopate ‐ cadenzate, ritmate, scandite ‐ emettevano forme e colori devastanti. Irpinia, il terremoto in Irpinia, dice mio padre. Non sapevo cosʹera lʹIrpinia, dovʹera, che confini avesse. Guardo la tv, rimango ferma per seguire lʹocchio dellʹelicottero che, giorni dopo, proiettava a singhiozzo briciole dei comuni colpiti. Briciole, alveari sbriciolati dalla pancia arrabbiata della terra, sottotitolava la tv. Sbriciolare, radere al suolo, distruggere. Da piccoli non si pensa mai che le cose possano succedere a te, le brutte cose rimangono lontane da te. Ma perché succedono agli altri? Da piccoli pensiamo di essere protetti per sempre. Ma perché gli altri non sono protetti come me? Irpinia, nel sud, dice mia madre con mio padre al fianco. E per mesi e mesi le immagini erano quelle di morti, polvere di edifici, fratture e dispersioni. Frattura, il prodursi di una interruzione nella continuità materiale di un corpo. Cosa possiamo fare per loro? Mio fratello Filippo, mia sorella Chichi e io sentiamo parlare mamma e papà. Nei giorni successivi niente parole, anzi le stesse della televisione che diventavano sempre più forti per bambini come noi. Cosa possiamo fare per loro? Possiamo donare la roulotte lunga tanto quanto i miei anni, la nostra casa mobile estiva da quando siamo piccoli, io addirittura in culla. Sappiamo che può non tornare indietro, sappiamo che lʹultimo viaggio potrebbe essere Modena‐Napoli, sappiamo che dentro può starci una famiglia di cinque sfollati, volendo

anche in sei. 

Sfollato 

che ha dovuto allontanarsi dal luogo di residenza abituale a causa di una guerra 

  • in seguito a una calamità naturale 
  • in conseguenza di uno stato di emergenza.

Sappiamo tante cose, non tutte però. Pensiamo di saperle, perché la nostra roulotte, quando meno ce lo aspettavamo, è tornata intatta a Modena dopo ben due anni con tanto di lettera di ringraziamento. Solo una lieve crepa sulla cerniera della finestra ‐ tenuta insieme da un sigillante tipo Saratoga come quello della pubblicità ‐ ci ricordava che qualcosa era successo. Dal di fuori nulla di più era visibile. Chissà dentro quante storie. Sarà più bella la roulotte delle nostre estati, che ora non cʹè più ma che cʹè stata per altri?

«Ah, sei qui, Vera».

La voce di Frida, distratta dall’altoparlante del Bagno 23, era entrata nella risacca come i suoi piedi tozzi. Niente di male, le piacevano le sue intrusioni. Un po’ meno il suo costume intero. Il due pezzi era decisamente meglio per sentire le carezze del mare.

Sciabordìo.

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Elena Coppi
Da maggio 2013 partecipa a molteplici concorsi letterari nazionali con esiti positivi per la pubblicazione e premiazione. Il 3 agosto 2015 nasce la sua prima raccolta di racconti “Gocce di Emilie” ISBN 978-88-6817-021-9 pubblicata da Eclypsed Word. I racconti di Elena Coppi sono gocce di vita, distillati al momento, che fanno bene allo spirito. C'è dentro tanta luce: la luce che rischiara l'alba dopo una notte di incubi, la luce di una lampadina che accende un'idea, la luce tiepida di una candela profumata quando fai un bagno rigenerante. Non c'è ferita che non possa guarire, ci dice Elena nella sue storie. Non c'è lettore che non possa, con la fantasia, viaggiare in un mondo migliore.
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