Milano non dorme. Milano osserva.
Tra le vie di Piazzale Siena e i suoi balconi anonimi, vive Ludovico, 55 anni, collaboratore musicale, ora intrappolato in una vita che si piega più all’attesa che all’azione. Si prende cura di sua madre Silvana, donna dolce e logorante, in un appartamento che odora di passato e medicinali.
Un giorno, Viola – ventun anni, capelli scuri con riflessi verde giada – entra nel suo condominio come una tempesta silenziosa. Arriva da una famiglia in rovina: un padre brutale, una madre arresa, un fratello opaco. Fuma di nascosto, ascolta Vasco e Pulp, e cammina come se volesse bruciare l’asfalto sotto le suole.
Si incontrano in ascensore. Un silenzio, uno sguardo, poi una domanda bizzarra nel momento giusto. E da lì inizia un legame difficile da etichettare. Non è amore, nemmeno amicizia, è interferenza.
Un romanzo sull’immobilità che muove, sui legami che non si dicono, sull’eros come sottotesto e sulla città come teatro muto dei sentimenti più indicibili.
Perché ho scritto questo libro?
Vorrei dare un nome al vuoto. Non un vuoto sterile, ma quello delle assenze come materia viva, quasi più densa delle presenze.
È fondamentale uno specchio generazionale. Ludovico e Viola non sono semplicemente personaggi: sono due poli che dialogano dentro di te, l’uomo che osserva e trattiene e la ragazza che esplode e rompe gli argini. In quell’ambiguità, tu hai cercato un equilibrio.
Milano è diventata la tua metafora, una città che amo e che punge: sospesa, stanca, ma ancora pulsante.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Milano, sempre lì che si rifà il trucco, ma ogni tanto sbava il mascara e simula stoicismo imperturbabile.
Clacson, motorini che sfiorano gli specchietti con la grazia di un colpo di tosse, gente che corre senza mancare l’appello alla rubrica consueta “La dottrina della frenesia”, il barista sotto casa ha cambiato persino il tipo di brioche, lo scopro dal primo morso; meno burro, più aria stantia di ordine indubbiamente previdente, in un talk show locale avrebbero denunciato: aumentano i prezzi, diminuisce la sostanza, tutto torna. Il caffè ustiona ma siccome mi lascio coinvolgere da una certa propensione metropolitana, seguendo l’attitudine conformista, lo bevo comunque perché fa parte del palinsesto; poi nella tasca destra chiavi (nemmeno di preciso so quali ho afferrato), imbrocco finalmente l’altro braccio della giacca mentre sono già in ascensore, mia madre dorme impassibile, tanto vale essersene andati spediti. Maglione marrone castagna ma non è tempo di vendemmia, jeans blu comprensibili se hai avuto tre minuti per pensare a cosa scegliere da indossare, uniforme da uomo che non ha certamente voglia di prediligere opzioni multiple o forse è la tenuta da battaglia di chi ha capito che le possibilità sono un trucco dell’epoca, un modo per farti credere che hai voce in capitolo mentre ti schiacciano con la suoneria di un WhatsApp alle 7:15 del mattino.
Continua a leggere
Per strada la gente veste colori esotici, il neonato nel passeggino ha una tutina arancione che pare uscita da un video dei Jamiroquai, il suo passeggino è nero lustrato come una berlina da politico in incognito, la madre recrimina al telefono dicendo che “c’è troppo degrado, bisogna far qualcosa”, il bambino la guarda con l’espressione di chi ha già compreso oltre la disamina demagogica e io, che mi sento vecchio dentro da quando ho imparato a mandare le mail senza salutare, penso che quel bambino ha più speranza di me, e più coraggio. Nel tragitto verso la metro, realizzo che la giornata è già piena di frasi a cui nessuno presta attenzione, cartelloni pubblicitari con font eccessivamente motivazionali, podcast in cuffia che parlano di resilienza e risveglio interiore, una ragazza che urla al fidanzato “è sempre colpa mia, vero?” davanti a un semaforo giallo di emorragia in coda pronta a zampillare, mi domando se tutto questo faccia parte di un’allucinazione collettiva oppure è solo lunedì. E mentre uno skateboard mi sfiora la caviglia con la grazia d’un proiettile passato di traverso, penso che il vero miracolo oggi sarebbe solo questo, arrivare puntuale senza inciampare nei miei pensieri in formato pdf. Ma il prodigio più assurdo è che nonostante tutto, la stanchezza vintage, le sopracciglia degli adolescenti rifatte come una candidatura precoce a macchiare la fedina penale, l’ultima playlist di Spotify intitolata “Ricominciare da sé”… qualcosa dentro di me ancora si muove, non ha nome, non ha bandiera, non ha 5G, però c’è.
Milano mi inghiotte come sempre.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.