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La maledizione di Villa Chevrel

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La lettera misteriosa è intrisa del sangue di Fulgentio Chevrel. A trovarlo esanime nello studio sono la moglie Varenna e la figlia Alzira. Ancora non sanno che il suicidio del capo famiglia scatenerà una serie di eventi funesti che da quel momento, e per anni, tormenteranno chiunque entrerà in contatto con la dimora. Ormai, il male è penetrato nelle fondamenta ed estirparlo si rivelerà più difficile del previsto. Ma cosa ha spinto Fulgentio a togliersi la vita? Nelle mani di quale potenza misteriosa ha affidato la sua vita? Chi è davvero Ilva, l’inquietante domestica della famiglia? C’è solo una certezza: su molti innocenti ricadranno la colpa e la vendetta.

PRIMA PARTE

1910

Il postino suonava sempre tre volte, giungendo al galoppo del suo prode destriero di metallo, che si annunciava a colpi di campanello tra gli stretti vicoli d’un paesino del Sud, dietro un’alta costa del Tirreno, un luogo troppo in basso per esser Campania e troppo in alto per esser Calabria. Ma una calda mattina di fine giugno, nella nuova e prestigiosa dimora dell’antica famiglia Chevrel, all’estremo punto più a est del borgo, l’ufficiale di posta in alta uniforme si annunciò con un unico, prolungato suono del campanello, che riecheggiò dalla cantina all’attico.

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Nel buio androne della casa, dove un’unica, angusta rampa di scale conduceva al piano nobile, una strana creatura strisciò dalla porta della cucina e andò ad aprire il portone. Era la cameriera di palazzo, la ragazza più inquietante che l’intero paese avesse mai conosciuto: grandi occhi sporgenti racchiusi in palpebre pesanti dominavano il faccione squadrato che sovrastava un corpo tozzo, tarchiato; nel suo sguardo disturbante sembrava fosse stato impresso il marchio del demonio. Il postino, fingendo indifferenza, consegnò la busta che aveva in mano alla cameriera, le cui labbra sottili e ricurve non si mossero neanche per esprimere un saluto. Guardò fisso l’ufficiale fino a quando non sparì con la bicicletta. I suoi piccoli passi pesanti salirono i ripidi gradini di pietra, dove tre eleganti porte a due ante si distribuivano sui restanti lati del pianerottolo: lì l’attendeva il padrone di casa: un uomo alto, ben vestito, pettinato con cura e con lunghi baffi neri in perfetta armonia con gli occhi scuri. Questi tese la mano, rigido, e lei senza battere ciglio gli consegnò la lettera, ricambiando lo sguardo serio e diffidente.

Lo studio aveva i muri tappezzati di libri rilegati in pelle, custoditi su alti ripiani di legno, a eccezione della parete corrispondente alla mensola del camino, alle spalle della scrivania, dov’era appeso il ritratto della famiglia Chevrel, che contava solo tre individui: l’uomo che aveva ricevuto la lettera, sua moglie, una raffinata signora dai capelli biondi e dai tratti duri – che in quel momento stava controllando le condizioni della tavola, apparecchiata per il pranzo, attenta a curare la posizione delle posate nei minimi dettagli – e la loro unica figlia, una bambina tutta sua madre, ma dai capelli neri e la pelle candida, come suo padre, che adesso aveva qualche anno in più e un aspetto più simile a quello di una donna.

Il signor Chevrel, accomodatosi al seggio dello scrittoio di noce, scollò delicatamente il sigillo rosso di ceralacca usando un tagliacarte d’argento con una testa d’ariete scolpita alla base, aprì la busta e lesse la lettera a lui indirizzata. Già pallido in volto, l’uomo diventò niveo, cereo alla luce del sole che filtrava dalle tende di pizzo del balcone aperto; i suoi occhi si velarono e le labbra tremarono come foglie al vento in un pomeriggio d’autunno.

La ragazza, lasciato il cagnolino a bere dell’acqua ai piedi della finestra del salotto, entrò nella sua camera da letto, una stanza delle stesse dimensioni dello studio di suo padre, e che prendeva luce anch’essa da un balcone. Presentava una mobilia essenziale ma pregiata, e ad arricchire le grandi pareti vi erano circa un centinaio di bambole appese, molto diverse tra loro per aspetto, per grandezza, per gli abitini che indossavano e per il materiale con cui erano fatte, che spaziava dalla semplice pezza alla rara porcellana. Ne prese una, la più grande e la più bella, appesa di fronte alla porta di accesso, la abbracciò forte e poi, guardandola, le domandò: «Io e te staremo sempre insieme. Non è vero?».

Chevrel, ancora seduto in poltrona, accartocciò il foglio con entrambe le mani e chinò il capo, portandosi i pollici alla fronte per la disperazione. Dopo un po’ i suoi occhi si posarono sul primo cassetto in alto a destra della scrivania.

La padrona di casa entrò nella camera padronale, più ampia e luminosa di quella di sua figlia, con i muri e il soffitto decorati con gusto e un arredo sontuoso, e la prima cosa che le saltò all’occhio fu che il letto era stato sistemato con superficialità. Con un atto compulsivo afferrò le coperte di seta e lo disfò con veemenza.

«Quell’inutile idiota!» esclamò sprezzante, riferendosi alla sgraziata servetta.

Chevrel aprì il cassetto in alto a destra della scrivania, dov’era contenuto, insieme a varie scartoffie, un revolver che aveva comprato in Sudamerica nell’88, quando ancora spalava carbone per conto dell’industria che lo avrebbe promosso a direttore, segnando così la sua fortuna. Tirò la pistola fuori dal cassetto e la caricò con sufficienti proiettili da mettere fuori gioco una pattuglia di carabinieri, girò il tamburo, chiuse la canna e si infilò la punta in bocca.

All’esterno della palazzina dominava il silenzio, senza che un solo alito di vento scuotesse il verde fogliame o che un fastidioso brusio di passanti turbasse la quiete, e il rumore dello sparo rimase impresso per sempre nei timpani del vicinato, più della lunga e insolita suonata del postino. Schizzi di sangue e pezzi di cervella imbrattarono il ritratto di famiglia, e la testa vuota di Chevrel crollò sul piano dello scrittoio, che in pochi secondi fu inondato di sangue. Lo studio si trovava nel remoto angolo a nord-est della casa ed era accessibile tramite una porta in comunicazione con la gran sala da pranzo e un’altra che collegava lo stretto vano scala della soffitta: dai due usci comparvero rispettivamente moglie e figlia del padrone di casa, che avrebbero ricordato quella scena da deste e dormienti per il resto della loro vita.

La signora Chevrel si strappò la faccia con le unghie e urlò con quanto fiato aveva in gola, e lo stesso fece la povera fanciulla, che si accasciò a terra, con il volto inondato di lacrime. L’angoscia aumentò solo quando trovarono il coraggio di avvicinarsi al cadavere dissanguato, con il retro del cranio fracassato dalla pallottola e il cervello disfatto, e poi guardare in alto, al ritratto di famiglia, dove un brandello di cervella era rimasto attaccato, coprendo la testa di Chevrel.

La cameriera fece capolino dalla porta da cui era entrata la signora, con la stessa identica espressione di pochi minuti prima, in netta contraddizione con il pianto straziante delle due donne di casa. I suoi grossi occhi si spostarono prima sulla lettera, zuppa di sangue e dal contenuto ormai illeggibile, poi sul sigillo di ceralacca della busta aperta, dov’era realizzato un pentacolo rovesciato.

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Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Sembra promettere molto bene. Ne ordino 3 almeno lo distribuisco anche ad amici

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Andrea Incerto Leone
nasce in Calabria nel 1994. Una volta conseguita la maturità classica si trasferisce in Abruzzo, dove si laurea in una professione sanitaria nel 2018. Dopo gli studi torna in Calabria, dove si dedica alla passione per la scrittura e a ricoprire ruoli importanti presso associazioni e imprese. Attualmente risiede a Orvieto e lavora a Roma, dove svolge un’attività libero-professionale in una clinica privata.
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