L’odore è sempre quello, nauseabondo. Anzi, penso peggiori di giorno in giorno. Quel misto di vecchio, stantio, acidulo che non fa che aumentare la depressione. O forse sono io che sono diventato insofferente e mi sembra che gli altri siano solo pedine di una scacchiera, mosse da un giocatore che le manovra senza scrupoli.
È lunedì mattina o meglio dovrei dire domenica notte. Sono le 04:00.
La mia mente, ormai stanca, vecchia e logora divaga senza un fine ben preciso. I ricordi riaffiorano omettendo la logica, senza un iter temporale definito e soprattutto ignorando che io li abbia cercati!
In quella stanza lugubre, come lugubri sono le persone che la abitano, ci sono anch’io, ormai steso in questo letto di ospedale da oltre quattro mesi.
Alla mia veneranda età, sono ben consapevole che a breve dovrò lasciare per sempre questo mondo, anche se non mi sento pronto, sfido chiunque a esserlo!
Riesco ancora ad alzarmi da solo per fortuna e a stare in piedi per qualche minuto, poi, ahimè, sono sempre costretto a sedermi perché le gambe non mi reggono più, sento dolori ovunque. La carta d’identità non ha mai fatto sconti a nessuno.
Come tutte le mattine, cerco di fare qualche passo fin dove riesco, seguendo i consigli dei medici e anche solo di coloro che mi vogliono bene: “Cerchi di muoversi un po’ ogni giorno, senza affaticarsi troppo, si sforzi. Qualche decina di passi sono sufficienti, ne beneficia il corpo e la mente”.
Frasi sentite almeno un centinaio di volte un po’ da tutti: dottori, parenti, persino da persone sconosciute che cercano in qualche modo di tirarmi su il morale, non capendo che ho ben chiaro in mente di fargli pena, non cerco commiserazione! Stesse parole anche dagli amici, eh già gli amici… Ormai quelli veri, della prima ora, coloro sui quali avresti voluto e potuto contare sempre, incondizionatamente, senza dover dimostrare niente, spogliandoti anche delle tue debolezze, sono tutti scomparsi. Restano solo i “buoni conoscenti”, quelli della seconda ora o dell’ultima, che contano per te solo per passare qualche momento in compagnia, per non restare solo, ai quali non daresti però più di quanto non meritassero davvero.
A breve saranno le 05:00 di una mattina uggiosa, e dovrebbero arrivare le due infermiere che, fatto il giretto da me e da altri miei “concubini”, finiscono il turno di notte. Mary, alta e mora, 32 anni, di bell’aspetto. Dal modo di fare carino e gentile.
Una bella figliola, come avrebbe detto mio padre: capelli lisci, carnagione olivastra, con un viso dolce che ne marca i lineamenti come se fosse stata scolpita da due o tre mani diverse; un misto di tratti somatici orientali ed europei, con qualche accenno anche alle popolazioni indiane del Nord America dell’800. Almeno, io la vedo così.
Mi ha confidato che ha un fidanzato e che vorrebbe sposarsi, metter su famiglia, ma aspetta che sia l’uomo a fare il primo passo, a chiederle “la mano”. Lui, a suo dire, sembra una brava persona, gran lavoratore nel settore dell’industria meccanica; è direttore produzione presso un’importante azienda vicino Hastings, nel sud est dell’Inghilterra (nella contea dell’Est Sussex). L’altra infermiera invece, è molto simile a un brutto rottweiler: perennemente incazzata con il mondo, dai modi tutt’altro che gentili e affabili, la si potrebbe definire come un incrocio tra uno scaricatore di porto e un lottatore di sumo. Spero sempre non sia lei a farmi la prima iniezione mattutina perché sembra usi la mannaia al posto della siringa e la chiappa (flaccida ormai anch’essa) mi resta dolorante per diverse ore. Dopo oltre tre mesi di intensa passione con le sue punture, mi ha finalmente detto il suo nome: “Io sono Adelma, per gli amici Ade”. Penso: “Ma quali amici che non ne hai… o non ne puoi avere!” e le rispondo: “Ah, bel nome, io allora la chiamerò Ade”, sicuro di farle cosa gradita. La risposta altrettanto gentile: “Può chiamarmi come vuole ma intanto faccia i due passi come le ha suggerito il dottor Lewis, mi risulta che lei non segua le istruzioni che le vengono date e questo non va bene, ha capitoo!?”
Grazie, fine delle trasmissioni.
Io sono italiano, ho ottant’anni, sì proprio ottanta! Non sessanta o settanta. Figlio di immigrati, nato da parto gemellare in quel di Fortezza – piccolo Comune di neanche 900 anime, situato alle porte di Bressanone in provincia di Bolzano in Alto Adige –.
Vivo ormai da dieci anni a nord di Londra in un sobborgo della City di nome Motta St. John, nel quale arrivai su insistenza del mio unico figlio Giovanni, poiché in Italia, da solo, non ero più in grado di gestirmi; in buona sostanza, considerato non più autosufficiente!
Giovanni si è sposato a Londra nel 1992 con Carol Dogger, una bella inglesina, impiegata alla Royal Mail ufficio estero, la quale non è purtroppo riuscita a dargli un figlio prima che la lunga malattia ai polmoni lo portasse via per sempre.
Giò – cosi lo chiamavo sin da bambino – il mio Giò, dopo una carriera invidiabile da avvocato, viene mandato a dirigere la filiale Inglese “Lawyer’s Office and Partners” (Studio Avvocati Riuniti), il più importante studio internazionale con sede a Milano, con oltre venti succursali sparse tra l’Europa, Asia e America Settentrionale.
Neanche il tempo di fare i sei metri che mi separano dal letto al bagno di questo “lussuoso hotel” – il London Kate Hospital – che improvvisamente il rottweiler e Mary accendono le luci della stanza e, come tutte le mattine, aprono le finestre per far cambiare aria. Mary a bassa voce – con il fare di chi ha massimo rispetto per i pazienti e ne capisce le condizioni psico-fisiche – mi dice: “Buon giorno Mr Carlo, le auguro una buona giornata e che la vita le sia sempre amica”. Quasi mi commuovo per la splendida frase di Mary, quando, come un avvoltoio con gli artigli ben in vista e pronti per agguantare la preda, Adelma senza tanti se e ma, alza il lenzuolo del mio letto, impugna l’arma e… ZAC nel sedere, e preme pure con forza! Affonda l’ago come se non ci fosse un domani. “Aiaia, con un po’ più di delicatezza no? Sempre la stessa storia”, borbotto io. Lei non si fa pregare e mi risponde: “Si vergogni, alla sua età per una piccola punturina ha il coraggio di lamentarsi? C’è gente che sta peggio di lei e non dice una parola”. Come un bimbo alla prima vera importante sgridata della mamma, impaurito, la guardo senza riuscire a proferire parola, impietrito, vorrei insultarla ma non ci riesco; sono solo contro il mondo, nessuno mi aiuta. Mi copro, mi giro dall’altra parte del letto sul fianco della chiappa buona e torno mestamente nell’oblio, nel mio oblio.
Jack Wilson, il mio compagno di merende, ormai qui da un mese anche lui in questa stanza, nel letto alla mia sinistra, è un brav’uomo. Sui cinquanta, magro come un chiodo, un po’ stempiato e molto brizzolato – si capisce che sta iniziando la mutazione anche lui –, è una persona intelligente, colta, di animo buono, gentile e altruista. Parliamo spesso, ci teniamo compagnia soprattutto da quando Eric ha lasciato vuoto il letto alla mia destra due settimane fa, è passato – dicono – a miglior vita. Quella bestia nera che si chiama linfoma lo aveva attaccato senza dargli scampo. Purtroppo il tumore al colon bussò anche alla mia porta, toccando parte dell’intestino crasso, sembra non voglia arrestarsi. Me lo diagnosticarono la prima volta due anni fa, poi con varie terapie mi avevano detto che erano riusciti a debellarlo o quantomeno a fermarlo; quattro mesi fa, dopo altre analisi di routine, i dottori mi diedero nuovamente una cattiva notizia e dovetti rifare un ciclo di chemioterapia.
Io e lo “smilzo” Jack siamo ricoverati al terzo piano del London Kate Hospital, reparto oncologico, stanza 22.
Moribondi sì, finiti forse non ancora.
Domando a Jack che giorno è, perché spesso non ricordo molte cose vicine nel tempo: non so cosa ho mangiato ieri, o se qualcuno mi è venuto a trovare, se in Italia, la mia grande Italia, c’è ancora Giorgia Meloni come Prime Minister, se ho preso le pastiglie e quali, – visto che sono obbligato ad ingerirne 14 al giorno e non so ancora bene per cosa –.
Jack conferma che è lunedì e sorride perché ha assistito (quindi era sveglio il birbante, io pensavo dormisse) alla scena di poco fa con Adelma.
Ricordo invece alcuni episodi della mia vita di tanti anni prima, anche molto lontani nel tempo, quando ero ragazzo, poi adulto. Rammento tante cose nei minimi particolari, dalle più futili: un colore, un profumo, un orizzonte, a quelle più importanti o serie per me: tipo nomi di persone che ho conosciuto, eventi familiari e non, contratti stipulati quando lavoravo, con chi e per cosa, insomma, sembro anche malato di Alzheimer ma in realtà non lo sono, o almeno credo di non esserlo.
Controllo nel mio piccolo diario che custodisco gelosamente sotto il cuscino – per paura che qualcuno possa portarmelo via – quando ho annotato la prossima visita di mia nuora Carol. Ah, incredibilmente ricordo bene. “È lunedì oggi, passa stasera”. Improvvisamente mi si illumina il volto di gioia, sono contento, mi fa sempre molto piacere vederla.
È quel tipo di donna che ogni uomo vorrebbe avere. Sempre solare, disponibile, gentile e premurosa. E, il che non guasta, è anche una bravissima cuoca. Ha fatto anni fa addirittura un corso di cucina italiana, forse proprio per non dimenticare le origini del suo ex marito defunto (mio figlio).
Carol mi ha chiesto diverse volte di andare a stare da lei, nella sua abitazione poco fuori Londra, nel Country Side. Una zona tranquilla abitata da gente benestante piena di piccole e grandi case, tutte costruite quasi in serie: un giardino fronte strada che costeggia una stradina per il passaggio delle auto e che finisce nel doppio garage, per proseguire poi tutto intorno all’abitazione, immersa quindi nel verde. I più fortunati – o facoltosi – dispongono anche di un vero e proprio parco con alberi secolari, piscina e campo da golf da 9 buche. C’è chi, non contento, si è fatto fare pure il laghetto artificiale mettendo pesciolini e uccelli di varie specie, creando una piccola oasi, con cascata tra rocce importate da chissà dove, pensando forse di ricreare il Parco Nazionale del Gran Paradiso o quello Naturale d’Abruzzo. Mah, vai a capirli questi inglesi!
A Carol ho sempre risposto negativamente alla sua proposta di ospitarmi a casa sua, principalmente per non essere di peso, anche se, devo ammetterlo, diverse volte ho pensato di accettare. Stare con lei, mi avrebbe fatto sicuramente bene, avrei probabilmente passato gli ultimi anni della mia vita più serenamente. Una delle motivazioni – forse quella scatenante – che mi ha sempre fatto pendere per il no, è di aver timore di non poter essere in grado di lavarmi da solo o dover farmi qualche bisogno addosso, quindi obbligato e vincolato all’assistenza di altri. Figuriamoci se poi dovessi essere pulito e imboccato!
La dignità l’ho sempre considerata come il bene più prezioso e mi rendo conto che pian piano la sto perdendo. Lei ha 45 anni, bella presenza e intelligente. Come avrei potuto rovinarle io la vita ancora così giovane e con un futuro davanti? Perché è palese che se si fosse dovuta occupare di me, avrebbe dovuto rinunciare alla sua di vita: niente più uscite, niente amici e vita sociale perché… “Devo star dietro a quel vecchio…”. Mi sembra tutto molto egoistico. Carol ha già perso il marito, non può avere figli, non è già stata troppo crudele la vita con lei? Avrebbe dovuto gestire anche un mezzo cadavere ambulante? Questi pensieri mi torturano spesso la mente perché sono ben consapevole che quella per me sarebbe la soluzione migliore, onde evitare di finire prima o poi in un ricovero per anziani, per essere dimenticato dal mondo e dalle genti. Mi sono ripromesso prima o poi di riparlarne a Carol, quasi volessi cedere non avendo più la forza di poter decidere da solo.
Quando la malattia mi si è ripresentata in novembre del 2022, il dott. Lewis – primario del reparto oncologico dell’ospedale – ha predisposto il ricovero immediato e deciso, previo mio consenso, di fare un piccolo intervento all’intestino per rimuovere la parte cancerogena. Mi è stata inserita anche una specie di cannula con sacchettino esterno, le feci “incontrollate” vanno a finire lì. Secondo i miei calcoli, che ovviamente non sono mai giusti, perché dati dalla voglia di migliorare e star bene, dovrebbero togliermi il sacchettino in questi giorni. L’intervento (giudicato di routine) è andato bene e tutti gli esami che sono obbligato a fare ogni tre giorni lasciano ben sperare: siamo riusciti a fermare in tempo anche questo male!
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