Ogni gesto, ogni avvenimento, ogni potenziale felicità finiscono per essere filtrati attraverso la lente deformante di quella mancanza. Tutto perde intensità e talvolta addirittura significato. Ci si rammarica di non poter vivere con la stessa spensieratezza delle persone che vediamo intorno a noi. Gli altri sembrano sempre più felici, più fortunati, più completi.
Ma anche nella più desolata delle realtà, la vita può offrire nuove prospettive. Può essere un lieto evento, un gesto gentile, l’incamminarsi in un percorso di maggiore consapevolezza, ed ecco che il cuore chiede alla mente di aprire uno spiraglio alla speranza. È come se qualcosa premesse per trovare il proprio spazio, prima in modo quasi impercettibile e poi con sempre maggiore determinazione.
Si fa strada un nuovo modo di pensare che riesce a elevarsi al di sopra delle difficoltà contingenti e si inizia a capire che l’aspetto su cui focalizzarsi non è l’assenza, ma ciò che resta.
E a restare, per sempre, è l’amore. Quello ricevuto, quello di cui siamo stati plasmati, quello che diamo agli altri: tutto questo amore non scompare, ma ci pervade, ci tiene vivi, anche quando sembra che non sia così.
Se il nostro animo è disposto a fare quel passo in più che consente di togliere il velo che aveva offuscato ogni percezione, l’amore, come la bellezza, possono essere trovati ovunque.
Dalla consapevolezza che la ragione di tutto è soltanto l’amore, può nascere un bisogno: quello di condividere.
Questo libro è un tentativo di dare un senso al dolore e alla solitudine. Un tentativo di rialzare lo sguardo, che la sofferenza impediva di elevare. Un tentativo di non lasciare che il dramma sia solo fine a sé stesso, ma possa avere un respiro più ampio e andare a toccare anche altre sensibilità. In modo da sentirsi uniti nel dolore ma soprattutto nella speranza.
È un libro che racconta la morte, ma lo fa per dare un senso alla vita.
1.
Per la maggior parte della gente l’otto dicembre è un giorno speciale. Il giorno in cui si festeggia l’Immacolata Concezione, si comincia a sentire l’aria del Natale, si addobba l’albero e si inizia a pensare ai regali.
L’otto dicembre i commessi cominciano a decorare le vetrine dei negozi con luci e ghirlande insieme alla speranza che su di esse si riflettano i visi elettrizzati dei bambini, mentre le luci penzolanti che illuminano le strade si accendono a intermittenza.
Per me l’otto dicembre è il giorno in cui è morta mia madre, il momento in cui niente è stato più uguale a prima.
Sembrava una festa come un’altra, di quelle in rosso sul calendario, in cui non si va a scuola anche se si è in mezzo alla settimana. Io e mio fratello Giancarlo eravamo a pranzo da zia Tiziana. Non era una consuetudine, anzi era proprio una stranezza dato che non era nemmeno nostra zia, ma poiché lo era dei miei cugini, la chiamavamo anche noi così per una sorta di teoria della transitività. Era una donna bellissima dai lunghi capelli biondi e il suo sorriso era talmente grande da riuscire ad assottigliare le sue carnosissime labbra.
Ma quel giorno quel sorriso sembrava più forzato del solito. Non sapevo bene perché ci trovassimo lì, mi sembrava tutto surreale, ero stato poche volte in quella casa e mai senza i miei genitori. Forse zia Tiziana era la persona più vicina a noi a non essere direttamente coinvolta in quello che stava accadendo.
Avevamo appena finito di mangiare ed eravamo seduti in salotto, insieme ai suoi figli Debora e Francesco, e ai miei cugini Davide, Ornella e Alessandra, che erano stati invitati, come capii dopo, per dare una parvenza di normalità a una giornata assurda. Papà non era lì con noi, forse era a casa, forse era fuori. In quel periodo lo vedevamo poco, era spesso in ospedale dalla mamma, anche se a volte ci diceva di aver fatto tardi al lavoro.
Ero seduto su una sedia parecchio scomoda, o così mi sembrava dato che quella situazione, in cui si respirava una certa inadeguatezza, era per me incomprensibile. In verità, ancora non capivo la realtà dei fatti, o forse semplicemente da quattordicenne mi rifiutavo di farlo per paura di non sapere come gestire il tutto. Io e il resto della banda cercammo, comunque, di passare il tempo, di distrarci, insieme a quel profondo e straniante senso di attesa. Un senso di attesa in qualche modo tragico, tanto da rendermi difficile avere l’animo leggero che il gioco che stavamo facendo avrebbe richiesto.
Fu il suono del campanello a interrompere il nulla in cui ci trovavamo. Zia Tiziana si precipitò ad aprire la porta e dal salotto sentimmo delle voci maschili. Riconobbi quella di mio padre e da subito intuii che qualcosa di grave, forse di irreparabile, fosse successo. Giancarlo e io rimanemmo soli, tutti gli altri furono fatti uscire, la porta era stata chiusa per tenerci ancora un po’ lontani dall’inevitabile. Stavamo zitti, ci guardavamo intorno, seduti composti, io con i piedi poggiati a terra, lui, che ancora non ci arrivava, li teneva appollaiati sulla stecca della sedia.
Passarono pochi minuti che mi sembrarono secondi e così scoprii che non sempre il tempo si dilata quando si aspetta qualcosa, a volte corre esattamente come al solito e non ci consente di rimandare niente, soprattutto il dolore.
Entrò mio padre, seguito da suo fratello Gaspare a fargli da scorta, e poi lo zio Dino, che chiamavamo semplicemente “Dino” perché era poco più grande di noi. Era il fratello più piccolo di nostra madre, nato l’anno in cui lei aveva avuto la maturità, quella maturità classica di cui andava fiera, primo passo verso i suoi studi da letterata.
Papà si avvicinò a noi, ma non ci abbracciò, rimase un po’ a distanza come per vederci meglio e per intero. Notai subito che aveva gli occhi lucidi e il respiro un po’ affannoso, sembrava che non trovasse le parole per comunicarci quello che aveva da dire e allora usò il suo modo diretto e spiccio che conoscevo bene.
«La mamma è morta» disse con un’intonazione della voce che non gli apparteneva. Credo non avesse mai dovuto dire niente di così difficile a nessuno, non era allenato a farlo.
Si dice che la morte lasci un vuoto, qualcosa che non possa più essere colmato, e io quel vuoto lo avvertii immediatamente, ma non intorno a me, no, lo sentii dentro di me.
Smisi di respirare, come facevo quando gareggiavo con i miei cugini a chi resisteva di più sott’acqua nelle giornate d’estate trascorse insieme. Ma in quelle occasioni tornare in superficie e respirare di nuovo significava riprendere a giocare, a ridere, a godere del sole e del mare.
Quell’otto dicembre, invece, ricominciare a respirare avrebbe significato vivere una vita senza mia madre. Ma l’istinto era stato più forte della ragione e l’aria cominciò di nuovo a riempire i miei polmoni. Iniziai a piangere ma mi sembrava di non emettere alcun rumore, non sentivo, infatti, i miei singhiozzi. Vedevo le lacrime trattenute di mio padre, vedevo la disperazione di Giancarlo, ma non sentivo niente, come se le orecchie fossero ovattate nel modo in cui si chiudono quando si va in montagna o l’aereo decolla. Per istinto iniziai a deglutire, percepivo la saliva che scendeva in uno stomaco che mi pareva una voragine, vuota anch’essa. Dov’erano finiti tutti i miei organi? Senza la mamma avevo ancora uno stomaco da riempire o se ne era andato anche lui con lei, perché nessuno tanto mi avrebbe più nutrito con l’amore che lei mi dava?
Guardai mio padre, Giancarlo era già stretto a lui. Vidi che i capelli erano ingrigiti e sulla fronte aveva delle rughe che non conoscevo. Quando era cambiato così? Forse era stata la malattia di mia madre a farlo invecchiare rapidamente, o forse ero io che non lo guardavo da tempo, da quando le sue speranze erano crollate e passava le giornate pregando di averne anche solo una in più prima dell’inevitabile. Eppure, di tutto ciò, io a malapena me ne resi conto.
Lo abbracciai anch’io per un tempo che non saprei ora quantificare.
«Ragazzi, dovrete essere forti, dovremo essere forti. Io vi starò ancora più vicino» disse con la voce incrinata e per qualche minuto i nostri singhiozzi furono l’unico rumore nella stanza. Le altre persone erano scomparse, c’eravamo solo noi tre, un monumento al dolore. Poi mio padre ruppe il silenzio con una domanda che né io né mio fratello fummo in grado di ascoltare, né di capire:
«Ve la sentite di andare a salutare la mamma?».
«No» risposi deciso.
E così, con i miei quattordici anni di acerba testardaggine, presi inconsapevolmente una decisione di cui mi sarei pentito per sempre.
Non tenni nemmeno per un attimo in considerazione la possibilità di tornare a casa e affacciarmi in quella stanza affollata di parenti, dove il dolore era palpabile, soprattutto quello dei miei nonni, i suoi genitori. Chissà che ne sarebbe stato del mio, di dolore, di fronte al loro, che immaginavo infinito come se avessero più diritto di me di stare male per quella perdita innaturale.
Quindi, guardò mio fratello, che teneva ancora tra le sue braccia. «Neanche io» disse e papà lo strinse a sé annuendo.
Nel giro di pochi minuti il mio ruolo di fratello maggiore sembrava avesse già cambiato caratteristiche. Non ero più soltanto qualcuno con cui condividere aspetti ludici e pratici della vita, qualcuno con cui litigare, con cui contendersi attenzioni e gratificazioni, da quel momento ero anche altro. Non avrei saputo definirlo all’epoca, ma il cambiamento mi investì prepotente.
Ripensandoci in età adulta, se fossi andato a dire addio a mia madre, forse mi sarei risparmiato anni di difficoltà nel riuscire a separarmi da chiunque, difficoltà a chiudere una relazione, a salutare un amico che non avrei più incontrato. Ma lo capii solo dopo.
Se potessi tornare indietro andrei a darle un ultimo saluto, che nella mia testa immagino come una carezza sulla guancia candida e una frase appena sussurrata:
“Addio mamma, mi mancherai per sempre”.
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