Avevamo appena finito di mangiare ed eravamo seduti in salotto insieme ai suoi figli, Debora e Francesco, e ai miei cugini, Davide, Ornella e Alessandra, che erano stati invitati, come capii dopo, per dare una parvenza di normalità a una giornata assurda. Papà non era lì con noi, forse era a casa, forse era fuori. In quel periodo lo vedevamo poco, era spesso in ospedale dalla mamma, anche se a volte ci diceva di aver fatto tardi al lavoro.
Ero seduto su una sedia parecchio scomoda, o così mi sembrava, magari perché quella situazione, in cui si respirava una certa inadeguatezza, era per me incomprensibile. In verità, ancora non capivo la realtà dei fatti, o forse semplicemente da quattordicenne mi rifiutavo di farlo per paura di non sapere come gestire il tutto. Io e il resto della banda cercammo, comunque, di passare il tempo, di distrarci, insieme a quel profondo e straniante senso di attesa. Un senso di attesa in qualche modo tragico, tanto da rendermi difficile avere l’animo leggero che il gioco che stavamo facendo avrebbe richiesto.
Fu il suono del campanello a interrompere il nulla in cui ci trovavamo. Zia Tiziana si precipitò ad aprire la porta e dal salotto sentimmo delle voci maschili. Riconobbi quella di mio padre e intuii subito che qualcosa di grave, forse di irreparabile, era successo. Giancarlo e io rimanemmo soli, tutti gli altri furono fatti uscire; la porta era stata chiusa per tenerci ancora un po’ lontani dall’inevitabile. Stavamo zitti, ci guardavamo intorno, seduti composti, io con i piedi poggiati a terra, lui, che ancora non ci arrivava, li teneva appollaiati sulla stecca della sedia.
Passarono alcuni minuti che mi sembrarono secondi e così scoprii che non sempre il tempo si dilata quando si aspetta qualcosa, a volte corre esattamente come al solito e non ci consente di rimandare niente, soprattutto il dolore.
Entrò mio padre, seguito da suo fratello Gaspare a fargli da scorta, e poi lo zio Dino, che chiamavamo semplicemente “Dino” perché era poco più grande di noi. Era il fratello più piccolo di nostra madre, nato l’anno in cui lei aveva affrontato la maturità, quella maturità classica di cui andava fiera, primo passo verso i suoi studi da letterata.
Papà si avvicinò a noi, ma non ci abbracciò, rimase un po’ a distanza come per vederci meglio e per intero. Notai subito che aveva gli occhi lucidi e il respiro un po’ affannoso, sembrava che non trovasse le parole per comunicarci quello che aveva da dire e allora usò il modo spiccio che conoscevo bene.
«La mamma è morta» disse con un’intonazione della voce che non gli apparteneva. Credo non avesse mai dovuto dire niente di così difficile a nessuno, non era allenato a farlo.
Si dice che la morte lasci un vuoto, qualcosa che non può più essere colmato, e io quel vuoto lo avvertii immediatamente, ma non intorno a me, no, lo sentii dentro di me.
Smisi di respirare, come facevo quando gareggiavo con i miei cugini a chi resisteva di più sott’acqua nelle giornate d’estate trascorse insieme. Ma in quelle occasioni, tornare in superficie e respirare di nuovo significava riprendere a giocare, a ridere, a godere del sole e del mare.
Quell’otto dicembre, invece, ricominciare a respirare avrebbe significato vivere una vita senza mia madre. L’istinto fu più forte della ragione e l’aria cominciò di nuovo a riempire i miei polmoni. Iniziai a piangere ma mi sembrava di non emettere alcun rumore, non sentivo, infatti, i miei singhiozzi. Vedevo le lacrime trattenute di mio padre, vedevo la disperazione di Giancarlo, ma non udivo niente, come se le orecchie fossero ovattate nel modo in cui si chiudono quando si va in montagna o l’aereo decolla. Per istinto iniziai a deglutire, percepivo la saliva che scendeva in uno stomaco che mi pareva una voragine, vuota anch’essa. Dov’erano finiti tutti i miei organi? Senza la mamma avevo ancora uno stomaco da riempire o se ne era andato anche lui con lei, perché nessuno, tanto, mi avrebbe più nutrito con l’amore che lei mi dava?
Vincenzo Di Dia (proprietario verificato)
Autobiografico ma con la scorrevolezza di un romanzo.
Invitato direttamente dall’autore a sostenere la campagna per la stampa del libro ho sottolineato che non avrei più letto libri tristi. Perché, da 3 anni a questa parte tutto quello che è negativo lo lascio fuori dalla mia mente.
Nicola, mi disse: cambierai idea non appena avrei letto le prime pagine.
Aveva ragione!
Nel libro è presente, ad ogni sua pagina, l’amore indiscusso che ogni figlio prova per la propria mamma ma nel contempo, quell’amore così forte, che lo rende distaccato dal presente e viaggia in una realtà parallela che solo lui può capire e solo lui ha la chiave di accesso.
L’umiltà di mettersi a nudo, non solo dichiarando a voce alta l’amore verso la mamma e la propria famiglia ma, l’umiltà nell’ammettere le fragilità che la mente ha attraversato per tanti anni.
Mi ha colpito molto la necessità di uscire dal proprio guscio, dalla propria zona di comfort, per fare esperienza di sé, affrontando il papà per conoscere la vera realtà dei fatti conoscendo anche gli eventuali responsabili ma non per punirli bensì, per avere pace con se stesso.
Complimenti Nicola
Come si dice nel mondo del cinema:
Buona la prima
Chiara Ventura (proprietario verificato)
In queste pagine ben scritte, un uomo, ormai adulto, percorre un itinerario terapeutico per salvarsi dal dolore lancinante e incomprensibile inflitto dalla perdita dell’adorata mamma. Lo fa in apnea, portandoti con se alla veloce ricerca di ossigeno vitale. In poche ore di lettura scorrono bobine di ricordi e ritratti di famiglia coinvolgenti, a volte drammatici, a volte ironici. Un libro che infonde coraggio e suscita stima.
Giampaolo Genco (proprietario verificato)
Splendida descrizione autobiografica a tratti tragica che ti lascia immaginare periodi della vita problematici con cambiamenti repentini e radicali di un adolescente che non sa come affrontare il dolore. Bravo Nicola hai scritto un libro che consiglio a tutti. Sono curioso di leggere altre storie anche non autobiografiche perchè la lettura di questo libro risulta molto piacevole.
Daniela Pandolfo (proprietario verificato)
Il libro si legge tutto d’un fiato, a pagina 13 ci si ritrova già emotivamente coinvolti e, senza neanche accorgersene, con il viso ancora inumidito dalle lacrime, ci si ritrova a pagina 28 a ridere per delle battute che fanno respirare il ricordo delle “mascalzonate” adolescenziali. Per il resto il libro è un percorso di vita che richiama alla mia mente la filosofa della narrazione, Adriana Cavarero, qui i chicchi di caffè, nel caso della filosofa i passi, apparentemente casuali di un uomo nel suo giardino, in preda ad un sogno notturno, solcano il terreno lasciando poi un’immagine che mostra la sua armonia espressiva la mattina successiva con il sorgere del sole, così come questi chicci che l’autore ritrova nei posti più impensabili, conducono l’autore alla ricostruzione delle pagine più buie della sua vita, affrontandondole. Lo stile dell’autore è piacevole perché diretto, perché caratterizzato da espressioni ricercate e, per questo, per nulla scontato. Auguro all’autore di continuare a scrivere!
Pietro Mulè
Un libro da leggere fino alla fine senza fermarsi una speranza per chi ha subito un grande dolore.