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La morte è una convinta democratica

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Russia, 1918. Roman è un giovane uomo che ha appena preso parte all’eccidio dei Romanov. Il suo compito è portare due dei cadaveri della famiglia reale nei boschi e bruciarli. Ma non tutto va secondo i piani: Roman si ritrova in fuga per l’Europa insieme a un ragazzo che nasconde uno dei più grandi segreti della Storia e che indossa un misterioso medaglione. Milano, 2018. Benvenuto Malvolio è un insegnante che nel tempo libero amoreggia con le mamme delle sue alunne, oltre a frequentare uno psicoterapeuta perché soggetto ad allucinazioni: quasi tutte le notti riceve la visita dell’artista rinascimentale e suo omonimo Benvenuto Cellini.
Tutto si complica quando decide di cercare indizi sulla madre, morta quando lui era solo un bambino, rincorrendo le tracce di un medaglione, unico ricordo che ha di lei. Si ritroverà in un vortice di azione, spionaggio e pericoli, accompagnato da un’affascinante e inaspettata compagna di viaggio e dalla sua impertinente allucinazione.
A distanza di cento anni, le vicende dei due uomini sono legate da un filo tanto sottile quanto indissolubile.

PROLOGO

Roman e Benvenuto vissero in epoche diverse e mai ebbero la fortuna di incontrarsi, eppure le loro vite si legarono l’una all’altra in modo imprescindibile, superando il confine di quei territori ove le emozioni acquistano corpo.
E la Storia non poté fare nulla, se non rimanere immobile a osservare.

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17 luglio 1918.
Ekaterinburg, Urali. Russia.

Il bosco è fitto e dopo una ventina di chilometri a velocità eccessiva per una camionetta malandata come questa, la mia schiena inizia a soffrire le buche. Ma la notte è appena iniziata e non credo che ce la sbrigheremo prima del mattino.
«Allora Roman, ti muovi?» A parlare è Andron, trent’anni, bolscevico fino alle ossa.
«Bruciamo questi due piccoli bastardi e andiamo a berci qualcosa» gli rispondo, strizzando l’occhio. Poi spengo il motore e gli passo l’ultima paglia, che ci fumiamo a turno.
Andron è un uomo di un metro e novanta, massiccio, con un pessimo senso dell’umorismo e un odio cieco verso il regime zarista. Padre di famiglia, contadino di origine, si è fatto strada tra i bolscevichi a suon di testate e grazie alla sua fede incrollabile verso Lenin più che verso il regime.
«Non ho capito perché non li abbiamo gettati nel pozzo con gli altri porci, sono solo escrementi.» La sua voce è rotta dalla stanchezza, anche per un gigante come lui non è stata una notte qualsiasi.
Lo osservo ansimare come un animale. Il suo sudore è acido e insozza l’aria dell’abitacolo più del fumo della cicca.
«Non capisci perché sei ignorante» faccio un ghigno. «Vogliono dividere la famiglia. Chi nel pozzo o nella vecchia miniera, e questi due nel bosco» accenno a dietro le spalle «per rendere impossibile trovarli.»
«Sarò anche ignorante, ma ho avuto l’onore di essere in quella stanza, non fuori, come un ragazzino alle prime armi. Io c’ero e ho sparato… E poi che diamine vuoi che trovino…»

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Non accetto la provocazione, perché non è stata una notte facile neppure per me.
«Tira fuori l’acido e smettila di parlare. Finiamo il lavoro. Dobbiamo ancora smembrare i corpi, aspettare che l’acido faccia il proprio lavoro e bruciarli. Qui facciamo mattina.»
Il suo sguardo cambia e capisco che anche uno come lui prova paura.
«No, ci hanno ordinato di risolvere tutto prima dell’alba e tornare alla villa. Per fortuna bruceranno come carta con tutto questo gasolio.»
Sono già le quattro di una notte infinita tra i boschi. Andron allunga la mano verso di me, poi si abbassa e cerca la leva dei fari. Nel farlo mi si avvicina troppo e il suo tanfo acido diventa insopportabile. Spegne le luci e mi accorgo che la luna è quasi piena. È un sentiero poco battuto quello che ci troviamo dinnanzi, perché l’ordine è di allontanarci il più possibile, ma nessuno dei due ha voglia di caricarsi sulle spalle i due corpi inerti per troppi metri.
Lui afferra una tanica di acido con una mano e una sega con l’altra, io invece due taniche di gasolio. Faccio strada, perché io nei boschi ci sono nato. Mia madre è morta quando avevo dodici anni e un padre non l’ho mai avuto, perché lei ha sempre fatto la puttana. Io mi sono arrangiato come potevo, uccidendo animali e rubando nelle cascine.
Andron inizia a scavare, mentre io raccolgo del legno secco per creare un letto scomodo ma facilmente infiammabile. Il posto che abbiamo scelto non è male, nascosto dalla foresta ma non troppo vicino agli alberi, così da non provocare un incendio che si potrebbe scorgere da lontano.
Ci vuole una mezz’oretta per preparare lo spettacolo, sembra un altare quello che risplende sotto la luce della luna.
«Vai a prendere i corpi» mi ordina.
«Fottiti!» ribatto «Vieni con me, non voglio fare due viaggi.»
Ma lui è più vecchio, più grosso e di un grado in più del mio. Non gli serve neppure rispondere, gli basta iniziare a rollare una paglia che aveva nascosto, alzando le spalle nella mia direzione.
Ci metto poco a raggiungere la camionetta e a prendere il sacco di iuta più pesante. Carico in spalla la ragazza come fosse un sacco di patate. Mi chiedo come faccia un corpicino così minuto a pesare tanto. Raggiungo Andron col fiatone, una spalla dolorante e tanto di quel sangue sulla mia testa, che usavo per bilanciare, da sembrare io stesso ferito.
«Ma che diavolo succede?»
«Il sacco non tiene» rispondo gettando il corpo per terra quasi sopra i suoi piedi.
«La cagnetta riesce a rompere i coglioni anche da morta.» Sferra un calcio al sacco, che risponde con un tonfo.
Sono già sul sentiero di ritorno, verso la camionetta, perché non mi va di ascoltarlo. Inizio a essere stanco di tutto quel sangue. Non serve alcuna torcia per vederci, basta fare silenzio e far abituare gli occhi alla penombra del bosco. Secondo giro, secondo sacco di iuta sulle spalle, questa volta è più leggero e sto più attento a non sporcarmi.
Sono a metà strada quando mi sembra di sentire uno scatto, ma è solo un attimo. La suggestione fa brutti scherzi e le ginocchia fanno presto a cedere sul terreno dissestato. Un rumore sordo attira la mia attenzione, sarà un animale in cerca della tana per la notte.
Quando arrivo Andron si è già messo al lavoro: sega e acido in men che non si dica. L’odore acre del sangue misto ad acido mi raggiunge all’improvviso. Di fronte a me solo pezzi di carne informi.
«Guarda cosa ho trovato.» Si ferma per indicarmi un corpetto che risplende alla luce della luna. «È per questo che non riuscivamo a farla fuori, la cagna si era fatta un’armatura di gioielli.»
Appoggio il sacco per terra e prendo in mano il corpetto sporco di sangue.
«Porci assassini del popolo, muoiano tra i loro ori se ci tengono» conclude sputando per terra e strappandomelo di mano.
Afferro la vanga, perché devo darmi una mossa se voglio che questa lunga notte finisca.
«Hai ragione, ma penso sia meglio consegnare tutto al comandante.»
«Di certo a me non fotte nulla di quell’oro maledetto. Saprà lui come meglio usarlo per il bene del popolo.»
Inizio a scavare, perché anche questo fa parte dei miei compiti.
Mezz’ora dopo la buca è pronta, il terreno non è duro come pensavo, e almeno una cosa sembra andare nel modo giusto. Lui ne riempie il fondo con un po’ di rami, una traversina di legno portata via dalla vecchia ferrovia e ci versa metà della prima tanica di gasolio. Getta la ragazza nel buco, pezzo per pezzo, ricopre il tutto con l’ennesima spruzzata di acido e infine il sacco di iuta vuoto. Io osservo il cielo mentre lo fa, pensando che non siamo nulla.
Poi si avvicina al secondo sacco, brandendo ancora la sega.
«Allora, mi dai una mano o no?»
«Ho scavato, non mi sono grattato» rispondo, appoggiandomi alla pala e mimando in mezzo alle gambe.
Sorride, perché far bene il proprio lavoro dà soddisfazione. E lui è uno che di soddisfazioni non ne ha avute molte nella sua vita. Per sfamare la famiglia ha dovuto ammazzarsi di fatica, tra merda e sudore. Finché non è riuscito a entrare nelle file dell’Armata.
Apre il sacco, ma quello che vede neppure uno come lui può aspettarselo: il ragazzino di scatto muove la testa insanguinata e apre gli occhi. I capelli sono scuri e sporchi, le guance bianche come il latte. Me ne accorgo perché in tutto quel buio sembra che la luna voglia specchiarsi proprio nei suoi occhi.
«Merda…»
Andron è un uomo semplice, non è certo tipo da impressionarsi facilmente e soprattutto non gli piacciono i problemi o le complicazioni. E così, dopo un attimo di indecisione, alza la mano brandendo la sega.
Ma quello che non si aspetta è che io, il suo compagno di sventura, lo colpisca con tutta la mia forza alla base del collo. Alle spalle, come solo i vigliacchi sanno fare. E in fondo ha ragione, in fondo non se lo merita, perché è sempre stato solo una pedina del destino, uno a cui hanno insegnato a difendere i compagni e amare la famiglia.
«Rom…» Non finisce il nome, perché io non mi fermo.
Non è facile atterrare un gigante del genere. Mi ci vuole molta fortuna e non poca forza. Ma basta non smettere di sbattere la pala su quel testone ciondolante per un tempo infinito e il gioco è fatto. E dopo, quando è a terra, vicino a una ragazzino inerte, continuare a picchiare fino a farlo diventare poltiglia.
Solo quando Andron smette di muoversi, mi occupo del ragazzino. Non sanguina come dovrebbe, questo è davvero strano visto che gli informatori mi avevano detto che soffre di una strana malattia del sangue. Ma soprattutto non dovrebbe essere vivo.
Indossa lo stesso tipo di corpetto della sorella, uno scudo di pietre preziose che anche a distanza ravvicinata deve averlo protetto dai colpi di fucile. Non da tutti, ma da una buona parte. Perde molto sangue da una guancia, da un braccio e dalla gamba sinistra, ma è ancora vivo.
La prima mossa che fa è afferrare il corpetto e stringerlo con una forza che non credevo possedesse.
«Nessuno te lo ruba, ragazzo, ma adesso abbiamo altro a cui pensare.»
Glielo strappo di mano e lui si affloscia come un panno umido, perdendo conoscenza.
Ora arriva la parte davvero faticosa: affettare le gambe e le braccia di Andron e gettare ogni pezzo nella fossa, poi rovesciare il resto dell’acido e incendiare il tutto. Spero che scambino quell’ammasso di carne bruciata dall’acido e dal fuoco per il ragazzo, se mai dovessero trovarli, perché il nostro compito era semplice: tagliare, versare acido, fare un fuoco, seppellire il tutto, tornare e segnalare dove li avevamo seppelliti. Ma non mi faccio troppe illusioni.
Mezz’ora dopo siamo sulla camionetta, non ho tempo di aspettare che le fiamme si plachino e comunque non ho certo intenzione di tornare: la direzione è quella opposta alla villa. Il ragazzo riposa con tanta di quella garza addosso da farlo sembrare una mummia e io provo a stirare la schiena. Le spalle fanno un male del diavolo e sento il sangue che sta indurendosi addosso, alla base del collo, nella tempia.
Con una mano guido e con l’altra gioco con uno dei gioielli che indossava il ragazzo. Era cucito con una cura particolare all’altezza del cuore: un ovetto di una pietra verde con all’interno pagliuzze russe, circondato da una sottile corda d’oro. È piccolissimo, simile agli ovetti visti in qualche quadro appeso nella villa, ma in formato ridotto: più o meno un centimetro di altezza.
Un sole appena accennato saluta l’orizzonte dietro i monti che circondano la foresta dei Koptjaki, non un essere umano nei paraggi, nessun animale sulla strada, solo il rumore della camionetta, gli occhi sul ragazzino addormentato e la mia risata che manda a cagare un destino bastardo.

03 September 2020

Grazia

Su Grazia tra 11 libri da leggere al rientro dalle vacanze anche La morte è una convinta democratica del nostro Lucio Figini! Qui l'articolo completo

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Lucio Figini
classe 1971, laurea in Educazione Professionale, lavora in ambito sanitario riabilitativo. La morte è una convinta democratica è il suo decimo romanzo.
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