Così, senza volerlo,
in mente riemersero le nostre avventure, spezzate.
In quel tempo lasciare definitivamente il guscio protettivo
della famiglia, spettro esorcizzato da anni ormai, mi sembrò
un’ottima idea, anche se a tratti spaventosa. Ogni cosa pur di
dedicarmi a me stessa e lasciarmi alle spalle quel doloroso
passato che mi aveva segnata profondamente. Ma, come dicevo sempre,
il passato non mi avrebbe mai abbandonata del
tutto. Lui trova sempre un modo per arrivare a noi.
Viceversa, rinunciare alle sedute con la mia psichiatra risultò più
spontaneo. Ero stufa di parlare dei miei sentimenti
e dei miei tormenti. Lo facevo da dieci lunghi anni ormai, era
tempo di cambiare aria, e la dottoressa Helfire fu d’accordo
con me.
«Come desideri. Sei tu l’artefice della tua vita. Trasferirti e
stare per conto tuo potrà farti bene. Sono orgogliosa dei tuoi
progressi, Courtney.» Aggiunse poi un sonoro: «Chiamami,
nel caso in cui avessi bisogno di una consulenza veloce».
Così concluse il nostro ultimo incontro, e io presi la palla al
balzo, spinta dal motore delle sue parole. La dottoressa Helfire
era sempre stata in gamba nel lanciarmi in nuove avventure.
Forse per questo ero in profonda sintonia con lei, oltre a
nutrire nei suoi confronti una grande stima e gratitudine per
avermi aiutata ad affrontare le mie più recondite paure.
Funrow mi sembrò fin da subito una cittadina accogliente.
Un borgo pittoresco, raccolto e pulito. Si respirava aria nuova,
il paesaggio risultava esser così meraviglioso da lasciarmi a
bocca aperta. Le montagne di un colore quasi ceruleo si abbracciavano
tra loro costeggiando armoniosamente una vasta
gamma di verde. I prati si estendevano dal manto della montagna al
confine della città, ricoperti da fiori di elleboro e intrisi di profumi
autunnali. Un misto di erba bagnata e resina
avvolgeva la città.
Pensai che con quella quiete avrei potuto dedicarmi al nuovo
romanzo, scrivere e buttare alle mie spalle ogni dispiacere,
ogni ricordo. Spesso funzionava così, e altrettanto spesso
mi rifugiavo nell’alcol, che era l’unica cosa davvero in grado
di farmi dimenticare il mio spaventoso tormento interiore.
Quando quel liquido magico attraversava la mia gola bruciandola,
potevo star certa che avrei trascorso una giornata
magnifica.
Ho sempre creduto fosse un fastidioso cliché l’abitudine di
uno scrittore a bere forsennatamente per curare le proprie
ferite o a scaricare la tensione scrivendo. Con me però funzionava:
la gola bruciava, sentivo i cerchi alla testa e stavo
meglio. Buttavo giù il resto su un foglio. Non avevo altro tra le
mani. Chi poteva capire la mia anima più di me? La mia vita
era diventata così e un po’ mi piaceva, avevo imparato ad
apprezzare quel che mi rimaneva di buono. Forse poco o nulla,
una fugace presenza.
Quel posto era decisamente diverso da Coug, la mia città
natale. Ma pur sempre ricco di ogni necessità. Era una piccola
cittadina con nuovi volti, alcuni impettiti, altri silenziosi e
altri ancora chiusi in se stessi a badare alle proprie disgrazie.
Le case erano a schiera e colorate, i visi simpatici sembravano
alla mano e speravo di scoprire anche un barlume di cortesia.
Forse avevo dimenticato il volto della gentilezza.
L’aria era diversa, più profumata e sana. Sembravo sfiorare
l’inizio di una nuova vita. Speravo almeno che fosse così,
lo desideravo. Volevo voltare pagina e dimenticare la follia, il
dolore, le sfumature dell’angoscia. Notai un istituto psichiatrico
non poco distante da lì. Probabilmente lontano qualche
metro dal mio nuovo appartamento. Non che questo m’importasse,
non avevo intenzione di ricominciare quella trafila
infernale, ormai stavo bene e potevo occuparmi di me stessa.
Avevo ancora negli occhi e nella mente il ricordo della mia
prima seduta. Ero solo una ragazzina consumata dalla rabbia
e dal terrore. Il futuro mi sembrava un infernale buco nero,
eppure avevo davanti a me una via d’uscita, anche se stretta.
Negli anni avevo sviluppato una sorta di dipendenza dai
farmaci antidepressivi e dall’aiuto terapeutico, speravo così
di guardare oltre e dimenticare la mia precedente vita che ormai
sembrava davvero lontana. Cominciarne così una nuova,
magari più salutare: luogo pulito, mente pulita.
Così, immersa nei miei pensieri, mi fermai davanti a un piccolo
supermercato, che emanava, dall’ingresso munito di porta scorrevole,
un odore acre di verdure e scadenti prodotti per
il bagno. Era al confine di una stradina secondaria, brecciata
e segnata dal tempo. Un locale davvero poco luminoso. Dalla
porta d’ingresso si intravedevano i dipendenti che marciavano
senza sosta per impilare merci di poco prezzo nell’ordine
prestabilito dal loro superiore. Un tipo alto, ricurvo e con degli
occhiali molto spessi. Sembrava che i suoi capelli avessero
appena superato una tromba d’aria. Notai sul viso di questi
stanchi operai una nota di amara indolenza, mista a un incalzante
nervoso che accresceva inesorabile a ogni richiesta di
qualche pigro cliente.
Mi ricoprii della mia ricorrente noncuranza, abbassando lo
sguardo.
Inizialmente pensai che avrei potuto comprare qualcosa
da mangiare, procurandomi scorte per almeno una settimana
in modo da non dover più uscire godendomi finalmente il
meritato relax dopo l’estenuante trasloco. Abbandonai l’idea
nonostante il mio corpo avesse bisogno di energia. Entrare e
incrociare persone non era il mio genere di attività preferito.
Desideravo di gran lunga la poltrona di casa e un bicchierino
di vodka, un libro, un cuscino e una coperta calda. Bastavo a
me stessa. Forse non mi curavo molto, nessuno mi aveva insegnato
a farlo. Il necessario, lo stretto necessario, andava più
che bene, come se nient’altro potesse entusiasmarmi. Non
c’erano scintille nel mio cuore.
Fui colpita da come il giornale mi avesse esortata a seguire
un caso in quella città. A dire il vero, non ci vedevo nulla di così
sordido o sospetto. Mi spingevano spesso verso paesi lontani e
apparentemente tranquilli, dove non penseresti mai di incontrare
un essere umano capace delle peggior cose. Ma sapevo
bene che anche la più piccola delle città poteva nascondere
qualche segreto, io l’avevo imparato a mie spese, a Defoe. La
città natale di mia madre, il luogo in cui vivevano i miei nonni
e dove per qualche tempo decisi anch’io di stabilirmi. I miei
nonni… ricordavo i loro volti con tremenda nostalgia. Mi mancavano
i loro buffi commenti sul mio modo di vestire e il profumo
penetrante di whisky scadente del nonno. La sua voce roca
accompagnava gli occhi vitrei in ogni momento.
«Nuova generazione di disgraziati» ripeteva. Io non potevo
far altro che sorridere. Non era l’alcol a parlare. Ogni tanto il
nonno faceva capitolino e diceva la sua.
Mi sentii per qualche minuto fuori dal mondo, ripensando alla
notte della tragedia, la notte in cui persi i miei ultimi
frammenti di certezza. Ricordavo ancora i loro sguardi così
cattivi e immersi nell’ombra. Il dolore nei nostri volti. Nella
mia vita la sofferenza era ormai diventata una stupefacente
costante.
«Ciao!» Davanti a me si materializzò una ragazzina minuscola,
dalla voce squillante. Doveva avere sì e no sedici anni,
sì, perché i suoi lievi tratti somatici rivelavano una giovane
età. Mi ricordò i Muppets inizialmente, ma tentai di reprimere
quel risolino che di tanto in tanto saltava fuori spontaneamente,
coprendo la bocca con la mia mano infreddolita e screpolata.
La dottoressa Helfire mi disse che la mia era
una semplice risata nervosa e che potevo imparare a gestirla:
“Una risposta allo stress!”.
«E tu chi sei?» risposi con voce algida.
«Mi chiamo Marylin. Piacere, e benvenuta a Funrow!» mi
salutò con un battito di mani clamoroso e fin troppo rumoroso
per le mie fragili orecchie. Sorrise poi a trentadue denti
visibilmente soddisfatta. Tutta quella vitalità mi infastidiva
molto. Cercai di evitare una possibile e quasi certa conversazione
fingendo di leggere un SMS sul telefono.
«Posso chiederti un autografo?» Si fece seria scrutandomi
il volto. I suoi occhi profondi mi immobilizzarono completamente.
«Un… autografo?»
«Sì! Per fortuna l’ho portato con me!» Sfilò uno dei miei
libri dalla sua borsa vintage. «Da quando hanno avvertito la
città che Courtney Lomax si sarebbe trasferita qui… siamo
andati tutti in delirio! Delirio! Che fortuna… la mia autrice
preferita in carne e ossa davanti ai miei occhi. Sai, è difficile
trovarti perché non sei una tipa che si fa vedere in giro. Non
sei iscritta neanche a un social network, poi!»
La sua voce era impregnata di emozioni positive e mi toccò
sorridere. Minuta e poco silenziosa, mi guardava con occhi
grandi e curiosi. Le sue mani accompagnavano gesticolanti la
voce senza interruzione. Il corpo immobile davanti al mio era
irrigidito e si chiedeva se e come sbilanciarsi.
«Lo sai che ho tutti i tuoi libri? Sono da brivido. Ma come
fai? Sono sicura che sei tormentata anche tu come la tua protagonista.»
«Sì» risposi senza pensare. Poi continuai: «Cosa vuoi che ci
scriva?». Taglia corto, ragazzina.
«Sei una di poche parole? Per forza! Lo credo bene! Tutti i
geni sono un po’ introversi, no? Credi che anche io un giorno
possa diventare una scrittrice? Vedi… sono un tantino logorroica.»
Poi riprese immediatamente a parlare. «Io vorrei proprio diventare come te. Magari.»
«Ma certo. Basta credere nei propri sogni.» Le augurai di
diventare una donna diversa da me. Poi pensai che neanche
io volevo essere me.
Le consegnai il libro con su scritto: “Per una ragazza dolce e
bellissima. Courtney Lomax”.
«Dai! Dolce e bellissima? Wow! Grazie! Tu sei davvero bellissima.»
Guardò l’autografo e sembrò che gli occhi fossero
pronti per un bel viaggio fuori dalle orbite.
Tentai ancora di tagliare corto e mi attraversò, per un breve
momento, l’idea di fingermi morta. Ma dovetti abbandonare
quel pensiero… Sarebbe stato complicato portarlo avanti a
lungo. Le mostrai così un sorriso soffocato.
«Ora devo andare, Marylin. Credo che ci vedremo presto in
giro, starò qui per un po’. Continua a credere nei tuoi sogni.»
Le diedi una pacca leggera sulla spalla, facendo trasparire
dell’amara indifferenza.
Decisi di tornare a casa, senza essermi procurata del cibo
per la settimana. Avrei mangiato uno snack portato dietro
per il viaggio – Che ormai, pensai, sarà diventato poltiglia per
piccioni – e poi sarei affondata nel letto, dormendo per almeno
dieci lunghe ore. Sempre se ci fossi riuscita. Ero diventata
gracile e senza forme. Mangiavo poco e dormivo altrettanto
poco. Ero stressata, spenta, turbata. Il mio carattere nel tempo
si era modificato senza il mio consenso. Non ero diventata
solo più forte, ma anche indifferente. Temevo la mia indifferenza.
Volevo tanto provare quei sentimenti sepolti di gioia e
serenità. Nel profondo li ricordavo. Forse ero ridotta in quello
stato proprio perché un tempo ero stata felice.
Trasognata e immersa nei miei soliti pensieri, mi fermai in
corrispondenza dell’istituto psichiatrico. Provai una sensazione
inspiegabile, un misto di vuoto, incertezza, ma anche straziante familiarità.
Lessi il nome su un cartello di ferro battuto sporco posto a
fianco al cancello: “Istituto Mesmer”. Notai
che era una struttura prorompente, circondata da un giardino
esteso e avvolto da cancelli ad alte misure di sicurezza. Dall’esterno
si intravedevano finestre serrate da sbarre massicce, ma
solo in alcune zone di quell’ateneo. Mi interrogai sul motivo di
quella scelta, anche se anni e anni di esperienza terapeutica mi
lasciarono supporre che le sbarre fossero posizionate lì per
pazienti “duri”, che in gergo clinico giovani e intraprendenti
medici avrebbe definito “malati psichicamente”, ergo, pazzi!
Notai che alcuni dei ricoverati scorrazzavano beati nei meandri
del giardino, accompagnati da infermieri che risultavano
essere gentili e disponibili. Una in particolare dall’aspetto
corpulento e il volto grinzoso accennò un sorriso di clemenza
verso un paziente che vomitava tranquillo sulle sue scarpe.
Lei teneva con cura la fronte di quell’inetto. Quell’estrema
pazienza suscitò in me un sorriso spontaneo e al contempo
schifato per via della scena: al contrario di quella donna, non
avrei mai pensato di compiere un gesto così altruistico.
Erano gloriosi i miei progetti da bambina: lo shopping, il
potere, le uscite in discoteca non m’interessavano affatto. Ero
priva di malizia e con un cuore grande. Quel cuore era ormai
diventato un fardello pesante da trascinare. Non sentivo più
la necessità di far del bene.
L’istituto era composto di una scarna essenzialità,
completo di ogni servizio e pronto a soddisfare le esigenze
delle persone che lo componevano, e cioè pazienti bisognosi di aiuto e
avidi di cure. Trattenni a stento un sospiro di sollievo. Quei
posti non erano più affar mio! Scrollai la testa velocemente,
sentendo una brezza di effimera felicità. Finalmente sarei
stata una persona indipendente, capace di gestire ogni situazione
in balia di me stessa. Una sensazione indescrivibile
ma al contempo prospettiva spaventosa. Una volta la signora
Helfire mi disse che quando cerchi di autoconvincerti di
qualcosa, alla fine quel qualcosa si avvera. Lo chiamò: «Effetto
Pigmalione, Courtney! L’autorealizzazione è un fenomeno
in cui dobbiamo poter credere in questo mondo!».
Una donna davvero spontanea e ottimista che mi spronava
in tutti i modi alla vita e all’amore.
Tornai a camminare sul marciapiede ricco di foglie secche
che ornavano vividamente la città. Gettai occhiate fugaci alle
vetrine dei negozi, dove vestiti sgargianti si susseguivano su
manichini quasi anoressici.
Stupidi cliché.
Il mio cardigan non copriva abbastanza dal freddo pungente
di quella giornata. Tirai la manica tra le mie esili dita cercando
di ripararmi dall’aria umida. Tentativo inutile e superfluo.
Era meglio tornare a casa e accendere il camino.
Come al solito, presa dai miei pensieri, notai come fossi una
macchina in continuo movimento e con poche probabilità di
riposare. Ero solita assorbire ogni più piccolo e sordido dettaglio
per poi riportarlo su carta, era così che costruivo i personaggi
migliori! Sorrisi per un attimo, intenta a guardare un
gatto sulla balaustra di un palazzetto fatiscente. A un tratto
mi sentii cadere a terra in un rumoroso panf. Rialzandomi
dolorante mi aggiustai con una riassettata veloce, scrollando
qualche granulo di polvere dai pantaloni. Il naso rosso e arricciato
dalla paura e le mani impiastrate del color cemento non
aiutavano il mio carattere prelibatamente scontroso.
«Mi hai fatto cadere tutti i libri.»
«Sono desolato. Non guardavo la strada con questo maledetto
Google maps.» Si accinse a raccogliere i libri da terra.
«Dubliners… però! È un ottimo libro.»
La sua voce, così acuta e armoniosa, mi esortò ad alzare lo
sguardo e osservarlo.
Rimasi esterrefatta dal fascino di quell’uomo, dalla sua
voce disarmante che mi aveva indotta a dimenticare la rabbia
della caduta e ad alzare lo sguardo verso il suo viso perfetto.
La figura che avevo davanti ai miei occhi era magnetica.
«È uno dei miei preferiti» risposi imbarazzata e con lo
sguardo incollato al suo. I suoi occhi erano caratterizzati da
un taglio orientale, lo osservavo con profonda attenzione corrisposta
dal suo sguardo roseo dal disagio.
«Senti, voglio offrirti del caffè per farmi perdonare di aver
rovinato tutta la copertina del libro.» Me lo rese, sfiorandomi
la mano e accennando un sorriso del tutto sarcastico. Un sorriso
che emanava consapevolezza di esercitare un certo fascino sulle donne. Era chiaro.
«Nulla che un po’ di scotch non possa riparare. Ti ringrazio
ma vorrei tornare a casa ora.» Calciai un sassolino. «Sai, ho
appena traslocato e il viaggio è stato estenuante.»
«Oh, accidenti, avrei voluto tanto conoscere un’amante della
letteratura qui in città.»
Il suo odore emanava un tono quasi animalesco. Questo suscitò
in me pensieri maliziosi e poco convenienti, ero completamente
attratta da quella visione e colpita dagli occhi di
quell’affascinante sconosciuto. Rimasi immobile a fissarlo.
Ma davvero non sapeva chi fossi? Comprensibile, in fin dei
conti una scrittrice è conosciuta tramite i suoi libri, il volto è
di poco conto quando ti butti in mestieri come il mio. Di solito
la mia fama aveva la consuetudine di precedermi, ma questo
accadeva in altre situazioni, ed evidentemente non davanti
all’uomo che avevo di fronte.
«Va bene, accetto! In fin dei conti non bevo caffè da ben due
giorni e sento di averne bisogno. Magari riuscirò a darmi una
svegliata.» Risposi al suo sorriso.
Si diede una pacca sul petto in tono goliardico: «Piacere,
Marcos». Rispose come se avesse vinto un premio e il miglior
trofeo in gara fossi io.
«Courtney Lomax. Il piacere è tutto mio.» Tentai di mantenere
un tono pacato, sfoggiando un sorriso. I suoi denti erano
così bianchi e allineati da far invidia. Sembrava appena uscito
da un giornalino di Playboy o qualcosa del genere.
Non che questo mi dispiacesse… era una goduria per i miei
occhi, un piacere per i miei sensi.
Ci dirigemmo verso una caffetteria poco distante da lì: Da
Cornelio. Pensai che fosse un nome strano dato che il gestore era
un tipo che si chiamava Derek. Derek non sembrava
poi così in gamba da rendere grazioso un locale. Eppure quel
posto aveva dell’accogliente. Comunque, a guardarlo recava
l’impressione di uno dalla misera fantasia e scarso interesse per il
locale. Inoltre aveva l’aria del tipico uomo noioso e
amante della birra scadente. Per non parlare del suo aspetto
deplorevole. Una barba tenuta male, ispida e leggermente
lunga, e una camicia bianca pezzata da macchie di caffè – alcune
forse anche del giorno prima – e chiazze di sudore. La
pancia era prominente, tipica di chi beve pinte dal mattino
alla sera, essendo eccessivamente gonfia, un bottone era quasi
sul punto di staccarsi e di colpire qualche povero occhio,
presente nel locale. Mi augurai che non fosse il mio.
Dallo sguardo dispotico, inoltre, sembrava aver appena goduto
dei benefici di una canna. Ci guardava come fossimo una
manica di pazzi intenti a invadere il suo locale e a ballare intorno
al fuoco costruito sulla sua carcassa. Un tipo davvero
strambo con una catenina d’oro al collo. Un caso umano.
Nonostante ciò, Marcos ordinò due tazze grandi e fumanti
di caffè, sembrava ignaro dello sguardo del gigante dietro al
bancone. Si voltò verso di me, sfoggiando un altro dei suoi accattivanti
sorrisi (e recandomi altro imbarazzo).
«Allora, Courtney, cosa fai nella vita? Oltre a essere una
lettrice appassionata, intendo.»
Quell’affermazione suscitò un sorriso sarcastico in me.
È il mio momento, mostrati sicura!
«Sono una scrittrice e una giornalista, tratto soprattutto
cronaca nera. Sai, alla gente piace il macabro» risposi con
naturalezza e sgargiante disinvoltura.
«Una scrittrice? In effetti ho già sentito il tuo nome.» Il suo viso
assunse un’espressione pensierosa e riflessiva, sembrava svanito
nelle sue fantasie. Mi era proibito scoprirle ma avrei voluto.
Aspettai che tornasse a parlare e nel frattempo ringraziai
Derek per il caffè. Lanciai uno dei miei falsi sorrisi amichevoli
e mi accomodai su uno sgabello.
Marcos inarcò un sopracciglio. Poi lanciò una smorfia sorpresa:
«Un momento. Follia! Follia! Io l’ho letto!».
Lo guardai distrattamente, era chiaro che fosse una tecnica
per depistarlo.
«Sì, spero ti sia piaciuto.» Trasudavo tranquillità ma la mia
voglia di farmi conoscere come scrittrice sfiorava il trascendentale.
Era così che volevo mi guardasse. Una scrittrice e
nient’altro, con straordinarie doti di comunicazione e una
fantasia da condividere con il mondo intero. Se ero riuscita
ad arrivare a quel punto, era stato solo grazie ai libri che mi
avevano davvero salvato l’esistenza. Era un muro molto precario
il mio, bastava poco per soffiarlo via e osservare la vera
Courtney. La donna senza volto, senza rughe d’espressione,
senza alcuna gioia negli occhi, con un corpo divorato dalla
cattiveria della vita.
Sì, perché la scrittura era l’unica passione nella vita che mi
recasse gioia immensa. L’unica fonte di serenità che mi suscitava
orgoglio, nel mio vissuto caratterizzato da un passato
tormentato.
«Scherzi? Ma tu sei grande! Certo che mi è piaciuto, volevo
comprare altri tuoi libri, ma poi ho avuto a che fare con il trasferimento
e non sono tornato in libreria.»
Lanciai una veloce occhiata ai ragazzini che stavano entrando
nel locale rumorosamente, sembravano tutti uguali in
apparenza, ma probabilmente ognuno di loro aveva una storia
da raccontare. Tutti racchiudono una storia in questo mondo.
Tornai a fissare lui.
Aveva dei bellissimi occhi di un blu profondo, che sul viso
leggermente marcato e scuro esercitavano la loro magistrale
figura.
«Mi fa piacere» risposi solo. «Tu cosa fai nella vita, Marcos?»
«Sono un avvocato» disse con un tono di velato orgoglio.
«Deve essere un gran bel mestiere.»
«Sono nato in una famiglia di avvocati. Per cui ho sempre
vissuto nell’ottica di dover esercitare questo lavoro. Ho seguito gli
studi di legge e superato la laurea con il massimo dei
voti, e ora eccomi qui» alzò le spalle in segno di finta resa.
«È una gran bella cosa. E per la tua famiglia sarà un’ulteriore
soddisfazione. Come ci sei finito qui? Lavori a qualche
importante caso?»
«Nulla di veramente importante per ora. E una scrittrice
come te, cosa combina qui?»
«Sono qui per il giornale, ma credo che approfitterò della
quiete della città per scrivere qualcosa di nuovo.»
Evitai di incrociare il suo sguardo, temevo di arrossire. Lui
sembrò affascinato da quella rivelazione. Gettai un’occhiata
fugace all’orologio appeso alla parete del locale. Si era fatto
tardi e desideravo tornare a casa, sprofondando in un lungo e
glorioso sonno dopo essermi concessa un bagno caldo e rilassante,
accompagnato da un bicchiere di vodka.
«Marcos, ti ringrazio per il caffè. Ora devo scappare, sarei
un po’ stanca e vorrei riposare.» Aggiustai qualche ciocca dei
capelli. «Sai… il trasferimento.» Ci alzammo entrambi in un
sol scatto.
«Certo, lo capisco. Spero di vederti ancora in giro, a presto,
Courtney Lomax.»
«A presto, Marcos.»
Lanciai per l’ultima volta un’occhiata alla camicia di Marcos.
Si intravedevano i suoi addominali allineati e perfetti.
Doveva essere un tipo sempre allenato.
Sempre sudato…
Un pensiero sfiorò la mia mente, avrei voluto palpare con
precisione quei suoi muscoli.
Arrossii per aver immaginato una situazione del genere.
Chiudendomi la porta del locale alle mie spalle, sperai di
incontrarlo di nuovo.
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