La ragazza del sogno
21/03/2022
Isabel Romero nacque a City286, alle 20:26, in una serata piovosa, per la seconda volta.
20/12/2014
James passeggiava per le vie del centro di Londra stringendo la gelida mano di Josephine.
«Entriamo da Harrod’s a scaldarci un po’» disse lei, sfregandosi le mani.
James pensò che i guanti di pelle rosso mattone che aveva visto in una vetrina poco prima sarebbero stati perfetti come regalo di Natale.
«Tu entra, io ti raggiungo tra poco» le rispose lui, allontanandosi.
«Ma… dove vai?»
«Ci vediamo qui davanti!» le urlò correndo. «Torno subito!»
Impiegò più di quanto avesse sperato a raggiungere il negozio. Era l’ultimo weekend prima della vigilia e moltissime persone intasavano le strade alla ricerca degli ultimi regali, senza contare i turisti che iniziavano ad arrivare in città per trascorrere il periodo delle vacanze nella capitale inglese.
James passò due volte davanti al negozio senza notarlo e quando finalmente lo ritrovò, dovette fare una fila interminabile alla cassa.
Quando uscì si accorse che Josephine l’aveva chiamato due volte al cellulare, quindi accelerò il passo, mentre la richiamava.
«Ma dove sei finito? Sono quasi venti minuti che ti aspetto!»
«Scusami, amore, sto arrivando. Sono quasi davanti all’entrata.»
«Ti vengo incontro» disse Josephine, quindi riattaccò.
Successe tutto in un attimo. James la vide uscire dalla porta scorrevole dall’altra parte della strada, mentre cercava di scorgerlo. Mentre lui aspettava la luce verde del semaforo per attraversare, un uomo su di uno scooter afferrò la borsa di Josephine e accelerò, strappandogliela dalle mani. Lo strattone la spinse in avanti e lei cadde pesantemente, scivolando su una lastra di ghiaccio.
Fu un attimo e James era lì sopra di lei, le sorreggeva la testa e con l’altra mano chiamava un’ambulanza, mentre per terra si formava una pozza di sangue.
Poche ore dopo un medico uscì dalla sala operatoria per parlare con lui. James si alzò immediatamente.
«È lei il signor Harris?»
«Sì, sono il marito di Josephine.»
«Mi dispiace, sua moglie non ce l’ha fatta.»
James cadde in ginocchio disperato, si coprì la testa con le mani e iniziò a singhiozzare.
21/03/2049
Isabel tornò a casa dopo un’intensa giornata di lavoro alla lavanderia. C’era stata un’altra sparatoria tra gang e come al solito molti poliziotti erano coinvolti, perciò avevano dovuto ricucire diversi buchi di pallottola e lavare via il sangue dalle uniformi. Per fortuna il colore scarlatto delle giacche aveva facilitato il lavoro, ma si era comunque dovuta fermare diverse ore in più rispetto al suo solito orario.
Tornando a casa le era sembrato che qualcuno la seguisse, un uomo con al collo una macchina fotografica, ma dopo un po’ la figura inquietante sembrava aver cambiato direzione e Isabel si era tranquillizzata. Non era raro che una donna sola come lei finisse preda di qualche svitato, ed era felice di essere a casa. Sana e salva.
Non vedeva l’ora di mettersi a dormire, non solo perché era esausta, ma soprattutto perché quella era la sera del suo ventisettesimo compleanno.
Lei non era una ragazza come le altre: fin da quando era piccola faceva degli strani sogni. In questi sogni il mondo era molto diverso da quello in cui viveva, era migliore sotto ogni aspetto. Ad esempio tutti i bambini potevano andare a scuola, frequentare l’università, scegliere una professione. I pochi poliziotti che c’erano mantenevano l’ordine in modo controllato e giusto, si potrebbe dire quasi gentile.
E poi aveva una famiglia, dei genitori che non poteva ricordare nel mondo reale, perché erano morti quando lei era ancora molto piccola. Eppure li sognava mentre le disinfettavano la sbucciatura sul ginocchio e le asciugavano le lacrime dopo la sua prima caduta in bicicletta, mentre la salutavano orgogliosi tra il pubblico alla cerimonia di laurea, mentre preparavano una cena per conoscere il suo fidanzato. Già, nei suoi sogni c’era anche lui. Il suo ragazzo, il suo uomo. David. Non sapeva il suo cognome.
Poteva sognare il profumo della sua pelle, il modo in cui facevano l’amore, il colore della carta da parati della camera da letto. Ma non ricordava come si erano conosciuti, che lavoro facesse lui, che lavoro facesse lei stessa. Ricordava che uscivano di casa insieme, che lui le teneva la mano mentre si avvicinavano alla macchina, ma poi niente. Si svegliava e scriveva quanto riusciva a ricordare su un vecchio quaderno consunto, poi passava la giornata a ripensare a ciò che sfuggiva sempre di più dalla sua mente.
E poi, quando suonava la sirena e il suo turno era terminato, ritornava a casa, mangiava veloce una scatoletta di cibo pronto e subito si coricava nel suo scomodo letto, tra le strette pareti del monolocale. Il quartiere era uno dei più malfamati della città in cui viveva, City286, un tempo chiamata Torino.
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I suoi sogni non avevano mai una fine. Non erano come quelli di tutti gli altri, incomprensibili riflessi del proprio inconscio che iniziavano e si concludevano in una notte. I suoi riprendevano da dove si erano interrotti la notte prima, in una narrazione senza fine, come se all’interno della sua mente potesse vivere una seconda vita, più bella e in compagnia di persone che la amavano. Inoltre, non poteva controllarli. Si sentiva quasi come una spettatrice impotente di uno spettacolo in cui una Isabel diversa da lei parlava, pensava, agiva, senza che lei potesse influire sulle sue decisioni.
Non aveva più raccontato a nessuno di questa sua strana attività notturna, da quando all’orfanotrofio, dopo aver condiviso i suoi sogni di fantastiche città pulite e piene di meraviglie con una sua compagna, era stata prelevata da alcuni medici che le avevano fatto un sacco di domande su ciò che immaginava, su quello che credeva fosse il meglio per la Nazione, su cosa pensasse del Presidente. Quindi le avevano dato dei farmaci che avevano il potere di renderla apatica e insensibile e che, soprattutto, annullavano del tutto la sua capacità di sognare. Isabel, spaventata, aveva finto di prendere le medicine, imitandone gli effetti, quindi nessuno si era più curato di lei, e da quel momento aveva sempre cercato di passare inosservata, allontanando quanti cercavano di esserle amici.
Per questo motivo Isabel viveva una vita solitaria: faceva il suo dovere finché le era richiesto, andava agli incontri obbligatori di propaganda del Presidente, chiudeva gli occhi davanti alle violenze a cui era costretta ad assistere per strada, resisteva in quel mondo che non sopportava.
Giunta a casa fingeva che tutto fosse un incubo. Beveva una camomilla liofilizzata, si coricava per dormire e attendeva che il sonno la cogliesse, permettendole di vivere quella vita alternativa che tristemente cessava al suono della sveglia mattutina. A quel punto tutto ricominciava, in un altro reale e terribile giorno.
Quella sera era il suo compleanno e non vedeva l’ora di scoprire cosa sarebbe successo, come avrebbe festeggiato il suo compleanno nella sua altra vita.
Chiuse gli occhi e aspettò.
Era seduta in un ristorante ricercato, forse addirittura di lusso. Suonava una musica rilassante, c’era una candela accesa al centro della tavola e calici e stoviglie brillanti posate su di una tovaglia morbidissima. Isabel si girò verso la porta e lo vide arrivare con un enorme mazzo di rose rosse.
«Sono ventisette, una per ogni anno.»
«Grazie! Sono bellissime… cosa farai quando compirò novant’anni? Riempirai la casa di rose?»
«Ehi, ehi! Non ho detto che deve diventare un’abitudine…»
«Lo sai che il prossimo anno me ne aspetto ventotto, vero?»
Isabel rise e lo attirò a sé, mentre lui le sussurrava all’orecchio buon compleanno.
La cena fu fantastica e quando ebbero finito il dolce lui estrasse una busta dalla tasca.
«Aprila!»
«Ma… pensavo che il regalo fossero le rose. C’è qualcos’altro?»
«Le rose erano per farmi perdonare il ritardo, il vero regalo è un altro. Vuoi aprirla o no?» Isabel prese la busta e la aprì. Tirò fuori un foglio di carta stampata. Appena riconobbe il logo della compagnia aerea capì qual era la destinazione.
«Andiamo a Parigi! Ma… la data del volo è… domani! Come faremo ad andare alla festa?»
«Ho preso ferie per te e per me. Quelle feste sono solo un pretesto per far parlare i vecchi dirigenti barbosi e mangiare tartine insipide. Ho già avvertito in ufficio che non andremo, abbiamo una settimana per stare insieme solo io e te, per riposarci e rivedere tutti i posti in cui ci siamo innamorati. E andremo a fare colazione tutti giorni…»
«…dove ci siamo conosciuti! Oh, amore, è un regalo bellissimo!»
22/03/2049
Isabel si svegliò. Il cuore le batteva fortissimo e si sentiva come sconvolta, ma non capiva perché. Cercò di ripensare al suo sogno, si sedette sul letto, prese il quaderno dal comodino e iniziò a scrivere appunti sul suo sogno. “Ristorante. 27 rose rosse. Parigi. Biglietti.”
Si interruppe. Qualcosa cercava di affiorare alla sua memoria ma non sapeva cosa.
Era qualcosa che c’entrava con Parigi, ne era sicura. Ma più cercava di concentrarsi e più le immagini scappavano dalla sua mente.
Ci rinunciò, si alzò, si vestì velocemente e si incamminò verso la lavanderia. Quando arrivò prese la sua uniforme, i guanti, e si mise alla sua postazione di lavoro, dove l’odore dei saponi le dipinse sul volto un’espressione di disgusto.
Ah, potessi essere ancora in quel ristorante, con te… pensò.
Quindi spalancò gli occhi e una parola si concretizzò nella sua testa.
Il café Seine! È lì che ci siamo conosciuti!
Appena si rese conto di aver parlato ad alta voce si affrettò a strofinare una giacca, fingendo di non vedere le facce interrogative di alcuni suoi colleghi che la fissavano.
Passò ore a ripensare a quella notte. Non aveva mai ricordato così tanti dettagli, quel sogno le sembrava così vivido e reale…
Guardò l’orologio: le 7:50. A quell’ora, nell’altra vita, avrebbe iniziato a fare le valigie. Ma no, forse non si sarebbe ancora svegliata, non doveva iniziare così presto la giornata, come invece era obbligata a fare per andare a lavorare in quell’odiosa lavanderia. Prese un’altra camicia e iniziò a grattare via qualcosa che sembrava vomito. Ma non ci pensava neanche, perché era concentrata a ripetere il suo nome: David.
Ci siamo conosciuti a Parigi, al café Seine. E domani ci torneremo, per festeggiare il mio compleanno. Parigi, Parigi…
Era così persa nel suo mondo che senza accorgersene si rovesciò un flacone di acido puro sul grembiule.
«Cosa fai, imbecille?» Un guardiano che aveva visto la scena le si avvicinò infuriato. «Lo sai quanto costano queste uniformi? Vai subito a cambiarti e vedi di non fare altri pasticci. Oggi lavorerai tre ore in più per ripagare quello che hai danneggiato!»
Isabel corse nello spogliatoio e si tirò via il grembiule, che si stava corrodendo e iniziava ad arrossarle la pelle. Non ce l’avrebbe fatta a sopportare altre tre ore oltre alle dodici che già trascorreva in quel posto infernale.
Quando finalmente tornò a casa, distrutta, si gettò sul letto e si addormentò immediatamente.
Isabel e David erano in coda al gate. Si tenevano per mano, come due innamorati in luna di miele. Si sedettero ai posti assegnati e l’aereo decollò, mentre Isabel si rilassava sul suo sedile, appoggiando la testa sulla spalla di David.
Damiano De Cataldo (proprietario verificato)
Ho seguito la nascita di questo libro leggendolo dai primi passi. Ê diventato un ottimo libro, ricco di colpi di scena e molto appassionante. Mette insieme molti elementi che mi piacciono del genere fantascientifico-distopico. Ê in stesura il secondo capitolo e non vedo l’ora di leggerlo per scoprire come finirà la storia.
Vanda (proprietario verificato)
ho avuto la fortuna di aver letto il manoscritto: bellissimo libro, tiene con il fiato sospeso, ti fa immaginare ….
Ambra Malanca
Grazie, Irene!
Irene (proprietario verificato)
Mi piace molto il genere distopico e questo libro gli rende decisamente giustizia. Riesce a trasmettere moltissime emozioni: fa sognare ma anche commuovere, non si riescono a staccare gli occhi dalle sue pagine. Bellissimo, lo consiglio!