Delinda ha più di novant’anni e muore da sola in una clinica, lontana dai suoi cari. Nessuno può andare a trovarla a causa del Covid19: solo Giulio, nipote e militare, si reca al suo capezzale, ed è proprio a lui che si manifesta l’anima della nonna. Un attimo prima di andarsene via per sempre, e riabbracciare chi l’ha preceduta nell’aldilà, Delinda racconta al giovane la storia della propria vita: un’esistenza che ha attraversato quasi tutto il Novecento in una successione di gioia, perdita, dolore, fede e perseveranza, guidata costantemente dall’amore per la propria famiglia, un amore che ignora i semplici concetti di tempo, spazio e dimensioni. Perché solo così può giungere senza ostacoli a chi lo si vuole donare.
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La luce
Il silenzio incombe, non capisco dove mi trovo, sono confusa. Mi sento in viaggio, come se qualcuno mi stesse trasportando in un nuovo mondo senza il mio consenso. Una luce intensissima colpisce il mio volto e, nonostante sia calda, sento freddo, vorrei coprirmi, imprigionare il calore della mia pelle rannicchiandomi, ma non sento il mio corpo. Cerco di toccarlo, non riesco. Tento in tutti i modi di allontanare la confusione che mi ha travolta, raduno i ricordi per capire dove mi trovassi prima che venissi sopraffatta da questa strana sensazione, ma non ricordo. Sento un altro brivido, chiudo gli occhi. Una voce inizia a sussurrarmi qualcosa, all’inizio indecifrabile, per poi di-ventare sempre più comprensibile.
«Solo chi ti ha davvero amata in vita potrà sentire la tua voce e vedere la tua anima, credere nel tuo ritorno.»
Non capisco. Riapro gli occhi con la speranza che questa sensazione sia solo dovuta a un brutto sogno, ed è così… per fortuna. Respiro di sollievo.
Mi trovo in una stanza dalle pareti azzurre di fronte a un letto sul quale sta riposando una gracile anziana dai capelli bianchi e dal colorito cianotico, mentre un giovane in divisa è seduto accanto a lei, con la testa tra le mani e piange, piange a dirotto, tra le lacrime farfuglia qualcosa difficile da intuire; la sua figura trasmette un’energia familiare, riconosco in lui delle caratteristiche che mi riportano alla mente una persona molto cara e vengo trascinata da un sentimento quasi confidenziale nei suoi confronti, ma non riesco a capire chi sia. Ha appena tolto le mani dal viso e proprio in quel momento mi sembra di distinguere nella sua persona dei particolari inconfondibili. Per avere certezza che la mia ipotesi sia corretta, mi sposto nella stanza per guardare meglio il suo volto. È lui, avevo ragione, è mio nipote Giulio.
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Ma cosa ci fa ai piedi di un letto a piangere e farfugliare parole incomprensibili? Sono stupita, confusa e per questo mi fermo un attimo a riflettere. Vederlo così avvilito e non riuscire a capire che cosa sia successo mi spezza il cuore, e una lacrima solca il mio viso, cerco di catturarla con le mani, ma non riesco a toccarmi, come se fossi intangibile. Inizio a capire che forse il suo stato d’animo e la sua dispe-razione siano dovuti a un evento che mi riguarda in prima persona, sicuramente mi è successo qualcosa che ha scatenato una reazione incontrollata. Dopo essermi resa conto di aver rivolto insistentemente il mio sguardo solo su Giulio e di aver trascurato la donna al suo fianco, vengo duramente colpita da una scarica che mi costringe a un passo indietro vacillante. Finalmente, dopo qualche minuto passato a cercare di capire che cosa stia accadendo in quella stanza, un flashback mi catapulta nei ricordi… Mi ritrovo in un’altra stanza, dalle pareti azzurre – o forse è la stessa? Non saprei… –, sdraiata su un letto a parlare con mio nipote; lui ha il respiro breve e frequente, io respiro a fatica, mi sento stanca, molto. Ritorno in me, penso: Devo sedermi un attimo.
Guardo Giulio e poi il mio corpo, il mio corpo e poi Giulio, cado nello sconforto. Quella signora con le mani adagiate sul ventre e una collanina con il crocifisso che scende lungo il petto sono io, proprio io… Delinda. Ho capito tutto, la morte mi ha strappato ai miei cari per accogliermi tra le sue fredde braccia.
Mi alzo dalla sedia e cerco di toccare mio nipote, di abbracciarlo, di confortarlo, ma non riesco; lui non percepisce la mia presenza, non sente il rumore dei miei passi e neanche io d’altronde. Una cosa però non mi è chiara: se io non ci sono più, perché c’è solo lui accanto a me? Dove sono i miei figli e i miei nipoti? Esco dalla stanza per cercare qualcuno che possa rendersi conto della mia presenza e che possa darmi spiegazioni su cosa stia accadendo in quella benedetta clinica. Vedo in lontananza un’infermiera con una strana tuta, gli occhialini, i guanti e la mascherina; corro verso di lei per cercare di fermarla e parlarle, ma, come se fossi un fantasma, non si ferma e continua a camminare. Ma perché? Ah, che stupida… se Giulio non mi vede, neanche gli altri possono farlo, però dovrò pur trovare un modo per scoprire qualcosa. Mi dirigo di nuovo verso la mia stanza, ma per il corridoio sento alcune voci e mi fermo ad ascoltare.
«Il decreto è stato firmato… non ci sono più mascherine… andrà tutto bene.» E capisco che quei suoni provengono dalla sala d’attesa.
Sono lì, i televisori sono accesi, ora so tutto. Un maledetto virus sta mettendo in ginocchio tutta l’Italia, migliaia sono i morti, e i restanti della popolazione o sono contagiati o in quarantena; ora capisco perché i miei figli non sono accanto a me insieme a Giulio, capisco perché non siano venuti a darmi forza e infatti mi rendo conto che nell’ultimo mese, durante i miei rari momenti di lucidità, non ricordo di averli rivisti. Se tutto questo non fosse successo, non mi avrebbero lasciato morire da sola, ne sono più che sicura, anzi ne sono certa.
Rientro in stanza e Giulio è ancora lì, come posso consolarlo? Ho provato a toccarlo, ma niente, non si volta. Aspetta… non ho provato a parlargli! Potrei provare ma ho paura che possa spaventarsi, però devo rischiare, questo è l’unico modo che mi è rimasto, l’unica alter-nativa affinché capisca che sono qui, con lui.
Pronuncio il suo nome e sorprendentemente smette di disperarsi e alza il viso. È attonito, pensa che la mia voce sia frutto della sua im-maginazione e nuovamente china il capo sul lettino, allora ricomincio.
«Giulio, sono io, la nonna.»
A questo punto lo scatto è repentino, sicuro e, certo di non avere immaginato nulla ma di avere percepito realmente la mia presenza, alza il capo rivolgendolo verso di me, o meglio verso il punto della stanza dal quale ha sentito provenire la mia voce. Ha gli occhi rossi, gonfi dal pianto incessante, le gambe tremanti; appena capace di mantenersi in posizione, si alza dalla sedia e muove i primi passi verso di me, barcollante, come un bambino che ha appena smesso di gattonare.
«Giulio, non mi riconosci? Sono la nonna, perché piangi per me? Io sono qui, non ti lascio.»
Ci separano pochi passi ormai, ma d’un tratto si ferma, indietreggia, spalanca gli occhi, le gambe tremano sempre di più, il suo volto rosso per il pianto si è trasformato in un foglio bianco.
Se mi ha riconosciuta, perché è così spaventato e, soprattutto, perché non viene verso di me?
La risposta arriva subito dopo, appena mi sposto di qualche metro nella stanza; di fronte a me adesso c’è uno specchio, capisco il perché del suo ripensamento… quello che vede non è il mio corpo terreno – in quanto è adagiato sul lettino –, gli somiglia ma emana una luce particolare, quasi trascendentale, che sulla Terra io non avevo mai visto, forse per questo prima si è tirato indietro. Giulio scuote il capo, come per strattonare via un brutto pensiero e prende coraggio.
«Nonna, sei tu? Sì, sei proprio tu!»
Ora Giulio mi vede e capisco il motivo: gli ho dato tutto l’amore che avrei potuto dargli, così come ha fatto lui, per questo crede nel mio ritorno, la voce mi aveva informata di questo.
«Nipote mio, all’inizio anch’io ho provato una marea di emozioni, angoscia, timore, sorpresa, smarrimento, ma la paura più grande è stata quella di essere incapace di consolarti.»
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