Tornare al suo appartamento significava attraversare
la strada che divideva il paese, spezzare il pane in
due metà e porgerne una al tempo passato. La notte
soffiava dai sampietrini scomodi. A capo chino, Mario
portava le mani nelle tasche dei pantaloni rigati.
Lì vicino c’era Franco, stava sfornando amarezza.
L’odore dei tradimenti avvelenava l’aria. Mario sentiva le
sue mani ruvide colpire la pasta, scuotere il sole.
L’eroe voltò l’angolo, il bar era chiuso, piccoli resti
di gioventù animavano le panchine.
Giunto davanti alla porta di casa, Mario inserì la
chiave nella toppa, girò due volte a sinistra, un lieve
crepitio, ed ecco la sua solitudine. La moquette si
spalmava sotto i piedi dell’eroe. Mario mise a tacere
le chiavi nel posacenere di metallo, l’eco del suono fu
di breve compagnia.
In cucina era rimasto un tozzo di pane immerso
nella zuppa di fagioli del giorno prima. Diede un morso di
invidia e fame, poi si gettò sul divano. La televisione era
muta su qualche film in bianco e nero, una
donna accarezzava il viso a un uomo in divisa.
«Marta…» sussurrò Mario.
Poi, una tregua fatta di chissà quali sogni, di una
realtà costellata di uomini che vincono la giornaliera
incertezza e la noiosa routine, insomma… eroi sì, ma
del quotidiano.
Si svegliò dopo qualche ora, infastidito dal vociare delle vicine.
«Signora Anna, buongiorno» disse Elena.
Elena era una giovane moglie, madre prematura
di tre figli, uno dei quali, appeso alla gonna, chiedeva
i colori.
«Buongiorno, Elenuccia, questo figlio tuo ti darà
del filo da torcere tanto è impaziente.»
«Eh, signora Anna, non sa cosa mi fa passare questo qui!»
rispose Elena, lanciando un’occhiata a quel
metro di giovanotto dai capelli biondi fissi in una riga
laterale.
Il sonnacchioso eroe osservava dal balconcino le
due donne stendere i panni, nemmeno si erano accorte di lui.
Mario faceva il grafico impaginatore per un vecchio giornale
del paese, Il corriere.
Davvero originale come titolo, aveva pensato Mario il primo
giorno alla redazione, non nascondendo
una nota di sarcasmo. Il sig. Vincenzo, un vecchio cronista,
con la passione smodata per i sigari, gli rispose
che un tempo il nome era un altro ma che era stato
cambiato per l’insorgere della banalità moderna.
Il ricordo degli occhi languidi di Vincenzo e di
quelle linee che solcavano i lati della bocca consumata
dal fumo, rapirono il percorso di Mario verso l’ennesima
giornata di lavoro. Tutto a un tratto, si trovò nella
piazza principale del paese. Pasquale Aiaccio, l’uomo
che trovava sempre un motivo buono per grugnire,
stava seduto a un tavolino con la testa tra le mani. Il
bar era ancora chiuso, come sempre a quell’ora. Mario
sceglieva di scendere presto, proprio per evitare il via
vai delle colazioni e delle buone maniere. Pasquale si
girò un attimo verso di lui. Il momento impastato di
solitudine non aveva per nemico il sole, ancora troppo
tenero per scovarlo. Fu bruciato dall’altrui sguardo.
«Buongiorno, Aiaccio.»
«Buongiorno, Mario, quante volte ti ho detto di
non chiamarmi per cognome…»
«Lo so, è abitudine» ribatté l’eroe.
I silenzi delle due solitudini si scontrano nel tentativo
fallito di conciliarle. Lo stesso nome per due
cose così diverse fra loro.
«Ecco perché non ti vedo mai passare di qui» accennò Pasquale.
«Sei mattiniero.»
«No, sono solo sociofobico» respinse Mario. Pasquale rise.
«E invece lei perché è mattiniero?» domandò l’eroe.
«Hai proprio ragione, ragazzo, c’è sempre un motivo per cui
un uomo è seduto a un tavolino tutto solo
dieci minuti prima di iniziare a lavorare, e, comunque, se
tu fossi sociofobico non mi avresti fatto questa
domanda.»
«Non se io fossi sociofobico, se io non fossi curioso» replicò Mario.
«Come puoi essere curioso delle tue paure?»
«È qualcosa a cui non le so rispondere, signore»
disse Mario, mentre con aria svagata guardava il vicolo che
lo attendeva. «Adesso devo andare.»
«Buona giornata, ragazzo» grugnì l’uomo, prendendosi
nuovamente la testa tra le mani.
Mario imboccò il vicolo come ogni mattina. Non
esisteva tortura più atroce che conversare con gli
altri, qualsiasi parola avesse detto, qualsiasi idea
o sentimento esternato, non avrebbero compre-
so. Nessuno poteva comprendere. Si sentiva come
un’anima sola che corre incessantemente per tutto
l’inferno senza potersi fermare, mentre tutti gli altri
ridono, mangiano, a volte comunicano, e in tutto
questo amano.
La violenza del ricordo della sua sconfitta riusciva
a renderlo diverso più che la sua stessa diversità.
Aveva perso l’unico appiglio possibile quella notte
d’agosto di molti anni prima.
Il ricordo investì il suo corpo rendendolo malleabile.
Qualcuno con un sol pugno aveva perforato lo
stomaco e incominciato a cercare avidamente con le
dita tra organi e giornate ormai passate.
Un giovane tirocinante con i jeans sporchi di sabbia
incrociava le gambe speronando il presente. Gli
occhi erano fissi verso l’impossibile, chiasmo tra i
suoi coetanei che nuotavano e un diciottenne impedito
eroe. La bellezza si avvicinò, con gli occhi sereni
di chi non ha ombre e il sorriso dolce dell’ingenuità
femminile: il suo nome era Marta.
«Come mai non fai il bagno con loro?» chiese docilmente
l’improvviso amore.
Mario trasalì, come se non avesse mai vissuto,
come se non avesse mai parlato.
Gli occhi, impreziositi dalla figura di lei, sembravano
ammirare anche il contorno, conferendogli colori e note
mai viste prima. Come una Venere che a ogni
passo produce poesia, così era Marta stagliata nel blu
tormentato del mare.
«Io… non so nuotare» disse, tra l’imbarazzo e la
bugia, il ragazzo sprofondato nella sabbia.
Marta spalancò il sorriso, tutto il viso si illuminò,
mentre lentamente si sedeva accanto a lui: «Anch’io…».
Mario piangeva, i singhiozzi bruciavano il tempo e
la gola, insegnando ancora una volta l’invisibile forza
che lascia impotenti. Le ginocchia tremanti e oblique
lo abbandonarono, non gli restò altro che poggiare l’avambraccio
sul muro gessato di un palazzo. Soffriva
con lo sguardo chino, come se non sopportasse di vedere, di
sentire, come se non sopportasse niente se lei
non era lì. Era difficile abituarsi agli spazi, ancor di
più lo era per quelli vuoti, un tempo saturi, delle sue
parole.
Parafrasando oblii, lui viveva.
SIAMO EROI
Mario entrò al giornale, posò sulla scrivania le poche
cose che gli ingombravano le tasche. C’era un pacco.
«Marco, che roba è? Quando è arrivato?»
«Buongiorno, eh…» disse il ragazzo, sollevando
leggermente la testa verso l’altro. «Comunque è arrivato
ieri con il primo corriere, a proposito, come mai
ieri non eri a lavoro?»
«Malattia» sentenziò Mario. Era meglio trovare
subito qualche attività per coprire un possibile dialogo
intorno alla menzogna. «Adesso torna pure a lavoro,
ciao» disse mentre accendeva il computer portatile.
Il ragazzo rimase interdetto per qualche secondo, poi
gettò uno sguardo fuori la finestra, quasi a giustificare
il silenzio con la preoccupazione del tempo. Si passò la
mano tra i capelli, accennò un saluto e uscì dalla stanza.
Una volta solo nella camera ancora scura della redazione,
Mario prese la busta cartonata tra le mani.
Assaporare con i polpastrelli l’ignoto lo aveva sempre
affascinato.
«Mario, dai, aprila… ci sei su da tre ore…» disse
un’impaziente Marta.
Mario era un giovane ragazzo sorridente: «Lo sai
che adoro le lettere».
«Sì, lo so. È per questo che te le scrivo, tante belle
lettere d’amore per il mio tesoro.» Marta lo abbracciò
dolcemente. Il paradossale eroe piangeva ricordi.
Il presente aprì la busta. C’erano due lettere, una
molto breve, l’altra molto lunga. Mario decise di cominciare
dalla breve: lo fece per quell’umana ansia di
chiudere un capitolo.
Carissimo Mario,
mio giovane amico nella disgrazia, il nostro peso è
greve e circonda l’anima fino alla tristezza più grande,
la più insolubile: l’essere incompreso. Così mi credevo
solo, mi credevo bandiera ammainata di nazione invisibile e,
invece, ci sei tu. Non sai la gioia, improvvisa
sconosciuta emozione, che mi ha colto quando ho letto
le tue parole, frutto di novizi interrogativi e maldestre
paure che riconoscevo mie. Finalmente un essere umano sulla
terra che può comprendermi. Non ti nascondo
di avere pianto, commosso, non credevo sarebbe mai
arrivato questo giorno per me, giorno in cui lo specchiarmi
negli altrui occhi non avrebbe prodotto necessariamente vuoto.
Sai che non posso dire per lettera delle cose che
chiedi, che il tuo animo brama di sapere dalla prima
volta che la saliva ha inumidito la lingua, la qual cosa
è per noi una concessione, un dono straordinario. La
nostra natura, a tutti sconosciuta, deve rimanere tale.
Meglio che credano nella follia, nella solitudine, nella
malattia, piuttosto che vedano questo. Ci metterebbero
tutti in una grande stanza insieme alle sirene, ai folletti
e ai maghi. Non che io li disprezzi, semplicemente
perderei, oltretutto, la sola cosa che mi tiene in vita: la
speranza. Devo alimentarla di ricerche, ci sono troppe
strade ancora da battere per arrendersi.
Marcello R.
Torno a scriverti, carissimo Mario,
forse anche questa volta non troverò il coraggio
di inviarti le mie parole, almeno mi conforta avere un
nome, il tuo. Tu non sai di essere il mio interlocutore
di pensieri. Possiedo la perfezione, l’assenza e la comprensione:
la comprensione nonostante l’inconsapevolezza dettata dall’assenza;
l’assenza nonostante la
comprensione dettata dalla somiglianza. Siamo due
esseri interscambiabili e sconosciuti, così simili da
vincere il paradosso dell’incomunicabilità. Eppure siamo così
lontani e lo spazio che ci separa l’ho colmato di
vinte speranze. Non ho più niente. Nulla che possa aiutarti.
Ho rincorso invano la certezza di una risposta.
Passato è il verbo che ha per soggetto se stesso. L’impossibilità
di porvi rimedio mi ha impedito di spedirti
le mie parole. A cosa vale in fondo sapere che esiste un
altro essere sulla terra che soffre le tue medesime insofferenze.
Mal comune mezzo gaudio, un corno! Non
è un male che può essere sopportato, le nostre spalle
non sono capaci di reggere un peso innescato dalla loro
stessa essenza. No, non può essere dimezzato, invano
te ne parlerei, mio amico. Vorrei esserti braccia e conforto,
vorrei esserti risposta, invece sono solo un corpo
che odia la sua dimora, che nulla sente fuorché il vuoto
di significati eterei. Come una donnetta che sogna un
giovane che non esiste, mentre nella realtà non conosce
alcun amore. Ebbene, io sono quella donnetta, tranne
per il fatto che nemmeno sogno. Questa esistenza incolore mi uccide.
Il ricordo di Lucia è placido. La neutralità del suo
volto si scontra brutalmente con la nostalgia che di
lei sento di dover-voler provare. Eppure non si muove
niente, nemmeno un bulbo. Le braccia sono massa di
peli fermi, impietriti dall’apatia. La ragione grida sentimenti,
li chiama a gran voce, il corpo risponde flaccido:
“Quali sentimenti, noi qui siamo eroi”.
Eppure si è mosso, qualcosa, quel tempo si è mosso,
ha arginato la fronte sconvolgendo capelli nell’attimo
del possesso. In fondo possedere è occupare uno spazio,
tiranneggiare un corpo. Tu devi essere qui, anche
se non vuoi; tu sarai sempre qui. Qualcosa ricorderà,
chiamerà di nuovo all’esistenza le mie dita affusolate
ed esse vivranno ancora una volta sui suoi riccioli neri.
Necessità disarmante, quella del ricordo. Fissi al
centro di una stanza a scrutar da dietro una sedia la
porta, aspettiamo ladri muniti di chiavi che irrompono
nell’attimo presente per sconvolgere abitudini e
ordine, tirando di tutto fuori dai cassetti. È attesa che
non conosce orario, né data, ma vive di profumi e forse
melodie che si confondono nell’altrui quotidiano, mentre
in noi scatenano la Storia.
In fondo è proprio lei, la Storia, che dà pregnanza
agli oggetti, li illumina distanziandoli dal loro impiego;
è la storia che mi permette di guardare una rosa e
pensare ai suoi occhi. È un continuo richiamo di realtà
differenti che incrociano visuali temporali per vivere
diversamente o vivere ancora.
Adesso sono un individuo impersonale, senza storia né
alibi d’indifferenza. Mi muovo sulle medesime
mattonelle ballando il buio che ho dentro. Ho perso
ogni possibilità d’amore.
Un tempo ho ceduto: forse era lei troppo bella, forse
ero io troppo giovane.
Eppur si è mosso qualcosa, quel tempo si è mosso. Ho sentito
il fragore delle sue labbra irrompere sul
tempo eterno della mia pelle. Ho udito una voce richiamarmi
dal torpore della cecità, vedevo emozioni
contorcersi in tremori e sorrisi. Credevo fosse giunto
il mio riscatto, finalmente l’eroe soccombeva. Nelle nostre
superiorità ci annullavamo, cessavamo d’essere
divini grazie alla nostra corrispondente comprensione. Vivevamo
di abbracci terreni progettando ordinari futuri. Gli uomini
chiedono di volare, di leggere nei
pensieri e camminare sulle acque, non sanno quale immenso
regalo è stato fatto loro, privandoli di tutto questo,
lasciandoli nella normalità.
La cosa che maggiormente animava il nostro amore
era che nessun individuo poteva entrarvi. Nessuna realtà o
estraneità bussava prepotente, nessun passo udito
da sotto le lenzuola. Seppelliti eravamo, sotto i rottami
di specchi frantumati dalle nostre identità invisibili. Ho
percorso ansimando il tempo, boia venuto per soffiar via
i baci che di lei ho creduto. Che stupido. Se non siamo
padroni del nostro essenziale, figurarsi degli accessori.
Il paradiso era lei, lei era il paradiso: il fato ha architettato
la mia felicità talmente terrena da essermi
fatale. Una sola volta l’ho rinnegata, è bastata a perderla per sempre.
«Conosci questa donna?» mi chiesero.
«No, sono solo un vago conoscente, un vicino di
casa…» risposi.
La portarono via, gli occhi di lei cantavano la
dolcezza dell’addio, felice della mia salvezza.
«Hai fatto bene» sorridevano, mentre io lentamente morivo alla vita.
L’ho vista scomparire in giornata di maggio,
esplodeva nel mondo fin troppo coraggio.
A guardar le caviglie di quel mio piccolo amore,
trascinate fragili in catene invisibili,
dentro il cuore esplodevano parole,
troppo deserte per sciogliersi al sole.
Ho scritto questa poesia qualche mese dopo quel
giorno. Non oso definirmi poeta, eppure credo che l’arte
sia di tutti, un po’ come noi lo siamo, siamo di tutti.
Quella poesia giunse a me veicolata dal dolore, sentivo
che non potevo far altro che scrivere, anche se non avevo
a chi scrivere. Soffrivo la mancanza di un interlocutore.
Ti ringrazio molto, Mario, non sai quanto avere te
adesso mi aiuti. Posso collocare le parole, disporle alla
lettura di qualcuno. Soltanto il fatto che tu esisti rende
il mio parlare più vero.
Tutti noi apparteniamo all’altro, siamo materia
volatile di illusioni e sogno. Pensiamo di possederci,
invece la nostra identità ci sfugge, corre nell’altrui
virtuale, si accomoda nella loro mente. Siamo burat-
tini nelle mani di conoscenti invisibili, giocattoli in
lista d’attesa, a disposizione di ignoti. Qualcuno
s’impossessa della nostra bocca, fa piangere i nostri occhi
nel buio, mentre stiamo inconsapevolmente vivendo.
No, noi non ci apparteniamo, possiamo continuamente essere
manovrati da qualcuno, siamo nelle mani di
altri. Viviamo chissà quante vite, eppure ne scriviamo
e leggiamo soltanto una. Ci apparteniamo nei sogni,
in quelli siamo vivi. Non posso sapere quando dorme,
né quando mi penserà, mi accarezza l’idea che in ogni
caso può avermi. Le ho giurato, anche se non lo sa, che
il suo è l’unico copione che seguirei comunque, qualsiasi
cosa nella sua mente deciderà di farmi dire o fare, io
la direi e la farei, se solo potessi. È forse questo l’amore?
Che la tua volontà coincida con tutto quello che renderebbe
l’altro felice.
Ho perduto la mia presenza, non mi contrappongo
più a niente e a nessuno. Tutto si perde in sostanza viscida,
incolore, una massa abnorme che mi circonda, che
mi possiede. All’inizio mi osservava, mi scrutava molle
e senza occhi, fissa nell’angolo della mia stanza, poteva
essere polvere. Poi, perduto ogni aggancio, smarrita
l’affettività, la Cosa strisciava melmosa sui pavimenti,
prendeva le mie gambe, uccideva il mio corpo. L’inerzia
mi ha reso albero perso nella natura, mobilio che non
conosce differenza tra se stesso e la stanza. Un filtro
livido blocca le immagini in perdurante indifferenza. Dal
momento che ho perso anche quella speranza, non c’è più
momento, non c’è più luogo che conti, l’istante si frantuma
al tocco gelido e mortale dell’eterno. Capisci perché
non posso farti partecipe di niente?
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