«Contrariamente a quanto ci si può aspettare, un individuo dalla battuta più o meno opportuna è molto utile in viaggi di studio lunghi e silenziosi: il giusto contrappeso per equilibrare l’affascinante monotonia dello spazio» provò a razionalizzare Clara, senza però spalleggiarlo.
Una missione ambiziosa, quella della Cassini V. Ciononostante, i rotocalchi non trattavano più l’argomento, e anche i principali partner, NASA e ESA, si informavano soltanto periodicamente. La supervisione era stata lasciata quasi unicamente nelle mani di un team italiano, con sede al centro astrofisico di Gravina di Catania.
«Se non fosse per la familiarità stabilita dalle agenzie, che lavoro faresti?» chiese il capitano, facendo sghignazzare Clara.
«Il content creator per le missioni sfigate come questa, senti qua: Erano lontani i tempi degli astronauti impavidi avventurieri e dello spazio come mare inesplorato: dell’Era spaziale era tornato di moda solo astronave come termine in uno dei periodici remake che riproponevano stili o mode passate. Per il resto, l’egemonia linguistica anglo-americana imperversava su tutto il pianeta e, di conseguenza, era l’unica lingua parlata su Marte.»
«Un opinionista per casalinghe annoiate, vorrai dire» rispose l’altro, aumentando il volume.
«Suppongo» scandì ogni singola sillaba una voce fuori campo mentre nel monitor veniva inquadrata una valletta appollaiata su di uno sgabello «che non solo sia già l’Era del colonialismo spaziale, cosmico!, ma che ciò sia già in atto da prima che quei dodici padri fondatori mettessero piede su Marte.»
Con uno stacco, l’inquadratura si spostò dalla sorridente e frontale valletta al profilo di un ospite, che indossava occhiali spessi e che aveva la tendenza ad alzare la voce mentre l’inappuntabile presentatore, al quale si rivolgeva, rimaneva a osservare la telecamera, trattenendo la sua carpetta con tutte e due le mani. Si trattava di un e-reader sottilissimo, in formato A4: un accessorio di scena indispensabile per la prima serata, riesumato dai primi anni di programmi televisivi.
«Poi abbiamo cominciato a colonizzare Marte, da allora!»
«La suddivisione topografica di un pianeta non vuol dire…»
«Signori, attendiamo il turno. Stava completando il professore…»
Il conduttore cercava di abbassare quei toni che in realtà gli avrebbero fatto aumentare lo share.
Ettore tolse il volume, facendo calare un silenzio disturbato dal solo flebile rumore dello schermo acceso; ultrasuoni che lo spazio e l’assenza di aria sembravano amplificare.
«Ogni volta che il cazzone cerca di intervenire, allarga le dita sulla carpetta» fece notare a Clara e Marco, non distogliendo lo sguardo dallo schermo. «Sarà un modo per prendersi di coraggio. Sono sicuro che l’avrà provata mille volte davanti a uno specchio, così da avere un gesto, un tic, per tutte le volte in cui deve prendere parola mantenendo respiro, postura, tono ed emissione della voce. Avete presente quei consigli che si trovano nei link condivisi sui social o negli audio motivazionali? Starà seguendo qualcosa del genere. Se intuisce che il discorso sta prendendo una brutta piega, o se gli intervistati fanno pause troppo lunghe fra i monologhi vari, ecco il tic.»
«Ora non lo sta facendo» fece notare pacata la dottoressa.
«Ora no, stanno litigando. L’audience è salva, domani si parlerà del suo programma: è tranquillo.»
Così dicendo, Ettore si diresse verso il suo scompartimento lasciando i due sorridenti.
«Abbiamo ancora un’altra ora di pausa prima delle otto di sonno. Mi sa che mi dirigo anch’io verso la mia cabina. A dopo.»
Anche Clara abbandonò la postazione.
Il capitano rimase invece qualche altro minuto a osservare i visi livorosi che continuavano ad apparire su quello schermo da 32 pollici utilizzato un po’ per tutto. Era definito Main Slaves, MS (o più sobriamente Main Monitor, MM), poiché doppiava gli altri schermi di monitoraggio presenti sull’astronave. Uno strumento molto utile come diario di bordo, per discutere di statistiche su probabili avarie o di eventuali interventi sul motore o sulla rotta, o più semplicemente per riorganizzare lo spazio interno o per controllare un’area alla quale stava già lavorando qualcun altro.
Il resto dei monitor occupava un’unica striscia alta circa 30cm. Se non per qualche angolo interno dell’astronave, su per giù all’altezza dell’addome, percorreva l’intero perimetro così da risultare frontale da qualsiasi postazione seduta, ma anche in posizione eretta.
Ogni schermo poteva essere condiviso sul MM tramite comando vocale o mimando, con una mano, l’accartocciamento di un foglio di carta proprio sopra lo schermo per poi gettarlo in direzione del MM. Qualsiasi plancia, qualsiasi schermo, qualsiasi telecamera interna ed esterna, nonché tutti gli altri dispositivi, era a esso collegato.
Tutti tranne uno: un vecchio smartphone convertito in mini tablet che in quel momento venne acceso.
CAPITOLO 2
Il centro scommesse di piazza Alcalà restava aperto h24, come suggeriva l’insegna. I tubi contenenti vari gas ionizzati regalavano una varietà di aloni luminosi, che i soli neon a mercurio non avrebbero potuto offrire. Era il più grande centro scommesse di tutta l’isola, con bingo, slot e tavoli verdi, oltre a un centinaio di postazioni scommesse.
Totò Greco osservava la propria immagine riflessa sugli specchi dietro le bottiglie da esposizione del bar. Viso scavato, zigomi in evidenza, occhiaie verdognole e capelli rasati che lo facevano sembrare meno raccomandabile di quanto in realtà non fosse.
«Un caffè.»
«Lo scontrino?» domandò secco il barista, masticando una chewing gum dai colori accesi.
Totò, lesto, alzò lo scontrino serrato fra indice e medio, col pollice a mo’ del cane di una pistola, e sorridendo scontroso.
«Sai dov’è il rovescio della medaglia della globalizzazione? Nelle piccole cose, come lo scontrino prima del caffè. Già ansia mi metti. Qua da noi il caffè non è quel piscio americano venduto nei distributori» disse indicando le comitive di teenager più distanti. «È un momento di pausa, un qualcosa da offrire e condividere, capisci? Non è un bene di consumo.»
Sulla bustina di zucchero, che Totò lasciò intonsa, la scritta Il caffè è una tregua senza guerra lo fece sbottare lievemente.
Distolse lo sguardo.
I bar non erano più in voga come una volta. Adesso i giovani preferivano riunirsi ai distributori automatici. Anche per questo lui era l’unico cliente al bancone.
«Dai più nell’occhio prendendo il caffè al bancone che non entrando con un fucile.»
«Nell’occhio di chi? Con le sale piene di macchinette, nessuno sa che c’è un bar. Chi minchia deve venire.»
Proprio in quel momento un anziano, puntellato a un bastone ammortizzato con tre piedi dinamici, attraversò lentissimo il bar per dirigersi verso i servizi igienici. Totò e il barista si guardarono fissi, quest’ultimo continuando a masticare incurante. E rimasero così finché finalmente l’anziano non giunse al bagno.
«Ah, quindi pisciano pure? Il distributore automatico dei cateteri deve essere rotto» disse Totò.
«Perché non ci sbrighiamo, prima che esce dal cesso.»
«A quanto c’ha messo per arrivare al cesso, questo esce fra mezz’ora. Pure lo scarico gli esce piano, oh» disse Totò, prima di iniziare a sorseggiare il caffè, gustandoselo.
Il barista riprese a masticare a bocca aperta, poco convinto.
«Toti, mi hanno detto…»
«Totò, chiamami Totò.»
«Ok, Totò. In questo pennino c’è il materiale. Nei file txt ci sono le indicazioni. Dovresti riuscire ad aprirli con un vecchio…»
«Posso aprire i file di tutti i formati, dal 1980 fino a oggi.»
«Per questo sei così caro?»
«Perché, mi paghi tu? Sono così caro perché chi paga pure te non vuole lasciare tracce, e io sono trasparente. Pure diffusione nei canali?»
«No, solo creazione» rispose il barista, afferrando dal bordo il piattino con la tazzina sporca e facendo scivolare sotto di esso una piccolissima memoria portatile.
Dopodiché, fermo, attese che Totò la prendesse.
Con quella sua posa, per le telecamere e gli scansori 3D era impossibile detectare l’oggetto.
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