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Adriana e Mauro si conoscono una sera al circolo del bridge, e da compagni di gioco diventano ben presto amici. Mauro è affascinato dalla storia di Adriana e così decide di raccontarla. Scambiata dai dottori per un tumore prima ancora di nascere, Adriana si è confrontata con il cancro per tutta la vita, prima sostenendo il marito, ammalatosi di tumore, poi affiancando i suoi pazienti nel ruolo di psicoterapeuta e infine fronteggiando lei stessa la malattia. Ma nulla può scalfirla. Adriana esorta a godere del presente, e la sua storia diventa un inno alla vita, in cui la gioia fa da antidoto a ogni avversità.

L’ho conosciuta, Adriana, al Circolo del bridge dove entrambi siamo iscritti, un pomeriggio di fine autunno, quasi un anno fa, quando Giancarlo, un amico comune recentemente scomparso, mi ha proposto di giocare in un torneo in coppia con lei.

È passato un po’ di tempo da quando l’ho incontrata per la prima volta, ma ho registrato nella memoria ogni cosa di quelle due ore, iniziate con una semplice stretta di mano fra due persone che non si erano mai viste prima.

Ci eravamo appena presentati, Adriana era distratta e stava parlando con un’amica, quando un’altra donna ha interrotto il dialogo fra le due rivolgendosi a lei.

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«È da un pezzo che non ti si vede, che hai fatto di bello tutto questo tempo?»

«Sì, è da tanto che manco. Da quando ci siamo viste l’ultima volta, l’autunno scorso, sono successe molte cose: ho scoperto di avere un cancro mentre mia sorella stava morendo, mi hanno operato e, come vedi, sono sopravvissuta, tutto nel giro di due mesi. Ho deciso di lavorare meno e di godermi un po’ di più la vita, qui a Palermo sto meglio che a Bologna.»

«Allora ti vedremo più spesso, adesso?»

«Sì, ma non immediatamente. Fra pochi giorni vado a Dubai con una mia amica olandese, poi a dicembre un mese in Australia. Non passerò più in famiglia il Natale, sono stanca di organizzare le feste per gli altri, ho già dato!»

Chi al suo posto – mi ero chiesto – sarebbe stato capace di parlare così apertamente di una malattia che fa paura al solo nominarla?

Giocando con lei, quella sera, entravo e uscivo di continuo da quel pensiero, non sapendo come conciliare quello che avevo ascoltato con l’atteggiamento della persona tranquilla, a tratti finanche allegra, che avevo davanti.

Mi ero portato dentro, tornando a casa, l’immagine di un visino dalla carnagione olivastra, gli occhi grandi vivaci, gli occhiali tirati giù fin sulla punta del naso per consentirle di osservare le carte da gioco e, al tempo stesso, tutto l’intorno.

Quanta storia nasconde, mi chiedevo, quello sguardo pen- sieroso, a tratti assorto?

Nei giorni successivi l’avevo nuovamente incontrata per giocare a bridge; ci eravamo trovati bene insieme, avevo pure ricevuto il suo ringraziamento per l’approccio cortese di me, anziano del gioco, nei suoi confronti, una giocatrice alle pri- me armi ma che si impegnava per migliorare. Dopo quelle prime volte abbiamo spesso giocato insieme. Bontà sua, lei ha scelto me come “allenatore” per crescere nel bridge. E come allieva è paziente, attenta, disciplinata, desiderosa di appren- dere. E più si ripetevano le occasioni d’incontro, ancor più mi veniva da pensare al cancro come a una cosa inconciliabile con la vitalità che le vedevo esprimere.

Nei mesi che seguirono, complice il bridge, la nostra fre- quentazione era divenuta quasi giornaliera. Mi aveva invitato a pranzo a casa sua ma, nonostante la confidenza che c’era fra noi, mi ero ben guardato dal chiederle della sua malattia. Ra- gionandoci, davo per scontato che lei avesse ben presente il fatto che ne fossi venuto a conoscenza la sera del nostro pri- mo incontro, e mi sembrava quindi innaturale, o poco cortese al limite, da parte mia ignorare del tutto l’argomento.

Avevo pure pensato di informarmi con qualcuno dei gioca- tori del Circolo che mi era sembrato la conoscessero meglio, ma non mi decisi a farlo. Mi chiedevo se per caso non aves- si capito male, che lei stesse in realtà parlando di qualcosa capitata ad altri, un familiare, un amico… La vedevo serena, proiettata positivamente verso il futuro, una cosa che – pen- so – non riesca facile a chi esce da un’esperienza del genere.

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Mi ero addirittura chiesto se per caso non si fosse inventata tutto, ma a che scopo? Non mi pareva il tipo, per la verità, ma che altro potevo pensare?

Sarà stato un caso, ma il nostro giocare insieme a bridge si era rivelato da subito fortunato. Avevamo ottenuto risultati superiori alle aspettative, e non solo per merito mio esclusi- vo. Anzi, io mi dolevo di certi miei errori ed era lei a invitarmi a perdonarmeli. I suoi non li vedevo, intento com’ero a stu- diare i suoi gesti, le sue espressioni, piuttosto che il risultato delle sue giocate.

Sarà stato un caso anche questo: in certi momenti era suo il colpo d’ala che ci regalava risultati insperati. Non so quanto fosse lei cosciente delle sue scelte di gioco e dei relativi rischi, sta di fatto che certe sue giocate lasciavano a bocca aperta gli avversari. Ma lasciavano di stucco anche me!

Una sera, al termine di un torneo che avevamo vinto anche grazie a una sua giocata a dir poco spericolata, uscendo dal Circolo non potei fare a meno di chiederle: «Ma da dove ti è venuta fuori quell’idea?».

In quel momento me la ridevo ma avevo sudato freddo. La sua risposta fu solo un lieve sorriso, come a dire: “Perché ti meravigli? Io sono questa”.

Va bene! Cos’altro dire?

La faccenda del cancro, in breve, lasciò nei miei pensieri il posto all’interesse per la bella persona che mi regalava la sua attenzione.

Poco per volta ho iniziato a sistemare al posto giusto le cose che di lei avevo visto e capito. E alla fine è venuto fuori, quando ha giudicato che fosse venuto il momento opportuno, il discorso del suo cancro.

Me ne ha parlato, ne sono convinto, quando ha ritenuto che fra noi se ne potesse parlare; e l’ha fatto non come fa tanta gente, come una iattura arrivata non si sa da dove, ma come un fatto che rientra fra le normali vicende della vita, togliendomi dall’imbarazzo delle cose non dette, con una naturalezza per me sorprendente. Il cancro è stato la conseguenza – è la sua convinzione – dello stress che le aveva procurato l’attività di psicooncologa, esposta ad accollarsi problemi e dolori delle persone che assisteva. “Lo stress,” sono sue parole “può generare un cancro così come tante altre malattie. È il corpo che manda dei segnali, ed è essenziale riconoscerli in tempo.”

Un’affermazione che, in bocca a qualsiasi altra persona, avrei giudicato quanto meno fantasiosa, il cui significato mi sarebbe stato chiaro in seguito, apprendendo il modo in cui Adriana ha esercitato il suo mestiere di psicooncologa.

Pur senza nessun altro particolare interesse in comune, ci siamo ritrovati a fare insieme altre cose oltre al bridge, come se ci conoscessimo da tempo, con la stessa naturalezza di due amici che si ritrovano dopo un lungo periodo di lontananza e che hanno conservato il gusto di certe abitudini comuni. Avevamo anche pranzato o cenato spesso insieme, di solito a casa sua, nel centro storico, dalla parte della città opposta rispetto a quella in cui abitavo io, a volte da soli, altre in compagnia di suoi amici.

Com’era naturale che accadesse, ci eravamo raccontati, per sommi capi inizialmente, le nostre storie di vita. Lei, palermitana di nascita, aveva vissuto per trent’anni a Bologna, dove si era trasferita per via del lavoro del marito. Dopo anni in cui aveva privilegiato il mestiere di moglie e madre, accettando limitazioni ai possibili sbocchi di una promettente carriera da impiegata, aveva trovato nella psicologia la sua missione e da allora aveva svolto l’attività di psicoterapeuta. Solo da due anni, indotta da vicende di cui sarei venuto a conoscenza in seguito, aveva deciso di tornare a vivere a Palermo.

Poche settimane dopo il nostro primo incontro, eravamo a metà dicembre, era partita per un viaggio in Australia che aveva programmato da tempo. Sarebbe mancata per un mese. Mi era dispiaciuto interrompere quella nostra frequentazione a cui avevo preso gusto, e mi era parso che un po’ dispiacesse anche a lei, che però era anche elettrizzata come una ragazzina al pensiero di andare a trovare i suoi amici, con alcuni dei quali condivideva la passione per il tango.

La lontananza si era rivelata meno spiacevole del previsto, pur con la complicazione delle dieci ore di differenza dovute al fuso orario. Ci eravamo sentiti per telefono, anche più volte nella stessa giornata, lei a raccontarmi della sua, in particolare del tango nelle milonghe di Melbourne, io della mia – meno entusiasmante – fatta di passeggiate e raccolta di funghi e di corbezzoli a Pantelleria, dove ero andato a trascorrere le feste di fine anno, ospite di un amico. Al suo ritorno, avevamo ripreso esattamente tutte le abitudini interrotte, dal bridge, alle passeggiate, alle cene insieme.

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Mauro Leonardi e Adriana Di Salvo
Mauro Leonardi vive a Palermo da sempre. Formatosi nelle discipline economiche e finanziarie, ha lavorato per oltre quarant’anni in ambito bancario con escursioni in aziende industriali, alternando i ruoli di responsabilità operativa all’impegno nella formazione professionale. È autore di romanzi e racconti, pubblicati negli ultimi dieci anni.

Adriana Di Salvo, palermitana, ha vissuto a Bologna, dove ha svolto l’attività di Psicoterapeuta. Con la Fraternità Cristiana dell’Opera di padre Marella ha creato un centro d’ascolto per le persone con malattie croniche invalidanti e per il supporto al lutto. Ha realizzato progetti formativi e di supporto per persone in difficoltà, collaborando con scuole, biblioteche e associazioni di volontariato. Attualmente, da missionaria, si occupa di un progetto, al quale ha dato vita, per sostenere i bambini di un orfanotrofio in Tanzania.
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