Giocando con lei, quella sera, entravo e uscivo di continuo da quel pensiero, non sapendo come conciliare quello che avevo ascoltato con l’atteggiamento della persona tranquilla, a tratti finanche allegra, che avevo davanti.
Mi ero portato dentro, tornando a casa, l’immagine di un visino dalla carnagione olivastra, gli occhi grandi vivaci, gli occhiali tirati giù fin sulla punta del naso per consentirle di osservare le carte da gioco e, al tempo stesso, tutto l’intorno.
Quanta storia nasconde, mi chiedevo, quello sguardo pen- sieroso, a tratti assorto?
Nei giorni successivi l’avevo nuovamente incontrata per giocare a bridge; ci eravamo trovati bene insieme, avevo pure ricevuto il suo ringraziamento per l’approccio cortese di me, anziano del gioco, nei suoi confronti, una giocatrice alle pri- me armi ma che si impegnava per migliorare. Dopo quelle prime volte abbiamo spesso giocato insieme. Bontà sua, lei ha scelto me come “allenatore” per crescere nel bridge. E come allieva è paziente, attenta, disciplinata, desiderosa di appren- dere. E più si ripetevano le occasioni d’incontro, ancor più mi veniva da pensare al cancro come a una cosa inconciliabile con la vitalità che le vedevo esprimere.
Nei mesi che seguirono, complice il bridge, la nostra fre- quentazione era divenuta quasi giornaliera. Mi aveva invitato a pranzo a casa sua ma, nonostante la confidenza che c’era fra noi, mi ero ben guardato dal chiederle della sua malattia. Ra- gionandoci, davo per scontato che lei avesse ben presente il fatto che ne fossi venuto a conoscenza la sera del nostro pri- mo incontro, e mi sembrava quindi innaturale, o poco cortese al limite, da parte mia ignorare del tutto l’argomento.
Avevo pure pensato di informarmi con qualcuno dei gioca- tori del Circolo che mi era sembrato la conoscessero meglio, ma non mi decisi a farlo. Mi chiedevo se per caso non aves- si capito male, che lei stesse in realtà parlando di qualcosa capitata ad altri, un familiare, un amico… La vedevo serena, proiettata positivamente verso il futuro, una cosa che – pen- so – non riesca facile a chi esce da un’esperienza del genere.
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