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La settimana decisiva-memorie dall’ultima fabbrica

La settimana decisiva-memorie dall'ultima fabbrica
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Consegna prevista Marzo 2024

Della fabbrica, degli operai, della città, del conflitto tra lavoro e ambiente, ne avevano parlato proprio tutti. Ma Luca Russo, operaio ed ex sindacalista della fabbrica siderurgica più grande d’Europa, aveva fatto una promessa: quella di scrivere un libro che raccontasse quelle vicende tramite lo sguardo della sua esperienza personale.
In una settimana primaverile, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, mentre il futuro dell’acciaieria è ancora incerto, Luca Russo mantiene la sua promessa.
Con la gioia nel cuore per una nascita imminente che dona speranza, mentre la città è attraversata da festeggiamenti, proteste e delusioni, il suo racconto prende forma diventando quello di un’epoca che si sta avviando lentamente al tramonto.
È il racconto della sua vita, inevitabilmente intrecciata alla vita e alla morte degli altri.

Perché ho scritto questo libro?

Il perché di questo libro lo dice il protagonista stesso, verso la fine della storia: “Perché ero stanco di essere raccontato da altri che ne sapevano meno di quanto ne sapessi io, da altri che, in realtà, non ne sapevano proprio nulla.”
Il libro ha la presuntuosa ambizione di raccontare la vicenda industriale di una città del sud Italia dal punto di vista di un operaio.

ANTEPRIMA NON EDITATA

VI

‘Lì nessuno si ammazza di lavoro…’    

La prima volta che sentii pronunciare questa frase fu dalla bocca di mio nonno, quando venne a sapere della mia assunzione in fabbrica. Ma erano praticamente tutti a ripetermela: nei bar o per strada, al colloquio di lavoro e durante le visite mediche, ripetuta quasi uguale da amici e parenti, o da vecchi conoscenti che avevano lavorato dentro la fabbrica. Anche durante i miei primi giorni di lavoro me la sentivo ripetere spesso, da giovani quasi della mia stessa età entrati in fabbrica solamente qualche anno prima di me. Sempre la stessa identica frase, quasi come fosse un mantra.
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Poteva avere solo delle piccole varianti: l’avverbio di luogo per esempio, che cambiava in base a chi la pronunciava; oppure quel vago avvertimento che seguiva all’inciso principale e che rilevava la grande pericolosità che il lavoro in fabbrica nascondeva. Il senso generale della frase, però, era sempre lo stesso.

“Lì nessuno si ammazza di lavoro ma bisogna stare con tanto di occhi aperti!” mi aveva detto nonno Pietro. Era una frase strana, che racchiudeva in sé una contrapposizione netta: un’incoraggiante rassicurazione prima e una preoccupante avvisaglia dopo. Difficile ne risultava la comprensione, soprattutto per le orecchie di un ventitreenne che aveva appena trovato la sua sistemazione lavorativa: cosa diavolo voleva dire veramente quella frase? Per me la fabbrica era il posto fisso, la busta paga con i contributi versati, gli straordinari pagati, la mensa, le ferie e la malattia retribuita, il sindacato a vigilare sul godimento dei diritti garantiti, la protezione della propria terra e del proprio mare, la fortuna di aver trovato lavoro tra i confini natii. La fabbrica, per me, era la signorina dell’amministrazione che stilandomi il contratto di assunzione mi aveva detto:

“Adesso potrai comprarti la macchina e anche la casa se vorrai: qui si sta sicuri!”

   La fabbrica era tante cose messe insieme, tante cose nuove, era un mondo meraviglioso, per un ragazzo che di lavori ne aveva fatti vari e diversi e al quale anche la colazione pagata la mattina prima di iniziare a lavorare appariva come la bonaria concessione di un bravo e generoso principale. Eppure gli echi della morte li avevo percepiti sin dai primi giorni in cui avevo messo piede in fabbrica. Mi raccontarono, infatti, che nemmeno un anno prima della mia assunzione, due lavoratori, di ventiquattro e di ventotto anni, avevano perso la vita a causa del crollo di una gru bivalente nell’area dei parchi minerali. Stavano facendo la manutenzione a quella macchina durante una fermata programmata. Stavano lavorando su quell’enorme gru che, in produzione, aveva la funzione di stoccare le materie prime che arrivavano dai nastri trasportatori, e poi di riprenderle dai parchi e portarle nuovamente ai nastri trasportatori che, a loro volta, le conducevano nei reparti di lavorazione successiva. La gru era crollata all’improvviso, trascinando con sé i corpi dei due giovani operai. Morirono sul colpo e in fabbrica se ne parlava ancora, nonostante fosse passato quasi un anno da quell’evento. Fu uno dei pochi incidenti che, in quel periodo, riuscirono a scuotere l’opinione pubblica. Da quel giorno, infatti, nacque anche un’associazione per la tutela dei familiari delle vittime sul lavoro che prese il nome proprio dalla data di quel tragico evento: il ventiquattro agosto appunto, lo stesso giorno in cui, parecchi anni prima, dentro quella stessa fabbrica, aveva trovato la morte anche il Signor Alfonso Padalino. Neanche tre mesi di lavoro che ne morì un altro, questa volta nel reparto tubificio due. A perdere la vita fu un giovane di trentadue anni: stritolato in mezzo tra un tubo e gli ingranaggi di una macchina cianfrinatrice. Lo sciopero dei sindacati scattò immediatamente: era il primo cui mi capitava di assistere da quando ero stato assunto. Fino a quel momento, gli scioperi li avevo conosciuti solamente attraverso i racconti di mio nonno. Ma già in quella prima occasione, mi accorsi, con mia grande sorpresa, che la riuscita di uno sciopero era diventata una cosa veramente difficile da realizzare. Ognuno aveva una sua ragione per non scioperare: c’erano quelli come me, circa quattromila ragazzi, che erano a contratto di formazione e lavoro; c’erano le cosiddette comandate, cioè quei lavoratori impegnati contrattualmente, per la particolare delicatezza della mansione che ricoprivano, a garantire la sicurezza delle persone e delle macchine, in qualsiasi circostanza, anche in occasioni degli scioperi; poi c’erano i preposti, di ogni ordine e grado: capi reparto, capi squadra, capi turno, tecnici e impiegati, ai quali anche solo l’idea di aderire ad uno sciopero non passava minimamente dalla loro testa, come se anche loro, in qualche modo, ne fossero contrattualmente esentati; e poi c’erano anche quegli operai un po’ più anziani, quelli che avevano un figlio, un nipote, o un qualunque parente ancora sotto contratto di formazione e lavoro, e che erano stati minacciati dai loro superiori diretti che, in caso di una loro adesione allo sciopero, la conferma dei loro congiunti sarebbe stata messa fortemente a rischio. Ma non era tutto, oltre a tutti questi, c’era anche chi, pur senza alcun vincolo particolare, decideva ugualmente di entrare a lavoro: i crumiri li chiamavano. Davanti alle portinerie, durante i flebili picchetti che allora ancora organizzavano i sindacati, la maggior parte degli operai entrava in fabbrica a testa bassa, beccandosi gli insulti dei sindacalisti e degli altri operai scioperanti. I più audaci, invece, esponevano come giustificazione le motivazioni più disparate, la maggior parte delle quali accusatorie verso i sindacati e auto-assolutorie verso se stessi:

“Prima bisogna farle le cose, non dopo… ” diceva qualcuno; “Tanto il morto non torna più in vita… Se scioperiamo facciamo solo un favore all’azienda, che risparmia i soldi della giornata lavorativa e magari riesce anche a produrre lo stesso.” Erano queste alcune delle frasi più comuni che ripetevano i crumiri, come se fosse un nastro registrato. Mi montava una rabbia indescrivibile: chi poteva battersi ci rinunciava, mentre io, che avrei voluto scioperare e lottare, non potevo farlo. Il mio capo squadra non aveva mancato di ricordarmelo già in diverse occasioni, col suo solito fare arrogante e con quel suo insopportabile ghigno di superiorità che portava sempre stampato sul viso.

“Stai attento Russo!” mi aveva detto, “Tu uno sciopero non te lo puoi permettere! Tu sei a formazione… ” Aveva ragione lui: io non potevo scioperare! Me l’avevano sconsigliato praticamente tutti, persino il vecchio Franco, il sindacalista di reparto, mi aveva detto che era meglio non aderire a quello sciopero. Mi toccava trattenere i miei istinti, frenare il mio orgoglio operaio e il mio senso di giustizia, conservarmeli per gli anni a venire. Così, di fronte ai cancelli della fabbrica presidiata da una folla di sindacalisti e da qualche operaio, al mio primo sciopero, mi era bastato dire che ero a formazione affinché tutti si spostassero per lasciarmi passare senza opporre alcuna obiezione o resistenza. Negli spogliatoi, nei pullman del trasporto interno, nei reparti, nelle mense e nei refettori, la discussione sullo sciopero, però, andava avanti. Dentro la fabbrica, protetti dalle sue mura, anche quelli che erano entrati a testa bassa adesso apparivano più spavaldi nelle loro misere giustificazioni.

“Lo sciopero non serve a nulla!” mi disse Salvatore, vecchio collega della manutenzione elettrica. “Che cosa scioperiamo a fare? Le cose si fanno prima, fare lo sciopero dopo non serve proprio a niente… ” Di cognome faceva Marrelli, era l’operaio più anziano del mio reparto e non aveva alcun vincolo che gli impedisse di aderire ad uno sciopero. Ciononostante, anche lui si era unito a quei crumiri più giovani di lui che erano entrati a lavorare con un morto in fabbrica e con uno sciopero in corso.

   Poi, un giorno, un morto lo vidi con i miei stessi occhi ed era la prima volta che mi capitava. Avvenne in una mattinata di metà settembre.

   Era passato meno di un anno e mezzo da quando ero stato assunto. Da qualche mese mi avevano messo nelle squadre a turni del pronto intervento. Mettevano sempre quelli che erano sotto contratto di formazione e lavoro, nel tentativo, sempre ben riuscito, di impedire che quella postazione potesse rimanere sguarnita durante gli scioperi. Quelli a formazione non scioperavano, lo sapevano tutti, non potevano farlo, gli stessi sindacalisti glielo sconsigliavano vivamente. Ne avevano messo uno per ogni squadra e a me era toccata la squadra D, quella dove Dario Padalino, già da qualche tempo, faceva il capo turno. Quella notte, però, avevo fatto un cambio turno con Vito Tocci, che come me era stato messo da poco nelle squadre di pronto intervento. Quella notte, dunque, mi trovavo a lavorare nella sua squadra, la squadra A, quella dove Gianluigi lavorava come gruista. Il turno di lavoro era passato tranquillo: nessuna chiamata era pervenuta alla sala motori che, con due elettricisti e un addetto sala per ogni turno, gestiva la parte elettrica di tutto l’impianto. Passammo tutta la notte adagiati sulle nostre panchine, con la testa poggiata sui nostri cuscini ricavati da imbottiture di fortuna, riscaldati da vecchie coperte che ci portavamo da casa, accompagnati solamente dal rumore delle bramme che s’incastonavano una dopo l’altra nelle gabbie di laminazione. Ad ogni gabbia c’era un forte botto, che dalla sala motori pareva solo un eco lontano che scandiva il ritmo della produzione dandole continuità e dando tranquillità anche al nostro dormiveglia. Ogni tanto, dalla radio ricetrasmittente che avevamo in dotazione, si sentiva la voce di un operatore che dava qualche indicazione, oppure quella del capo turno che dava qualche comando: solo pochi secondi e poi tornava il silenzio. Una notte di lusso, come si usava dire tra di noi per descrivere una tranquilla notte di lavoro andata bene. Il fattaccio successe poco prima della fine del turno, intorno alle sei e trenta della mattina. Un nostro collega, venuto a darci il cambio, ci informò che qualcosa quella notte era andato storto.

“Ci sta uno a terra… ” disse con la preoccupazione dipinta sul volto, “ … Forse si è sentito brutto… ” Ci dirigemmo tutti e quattro verso il nostro marcatempo, già con gli zaini in spalla, per cercare di capire che cosa fosse realmente successo. Il marcatempo era situato in un capannone adiacente a quello della sala motori, nei pressi del capannone del deposito bramme solide, dove, presumibilmente per tutta la notte, Gianluigi aveva alimentato i forni con pacchi di bramme caricate a cinque per volta. Arrivammo sul posto mentre altri colleghi avevano appena marcato l’ingresso in reparto e ci venivano incontro. Fummo noi i primi a vederlo: lì, tra le due campate del capannone del deposito bramme, a non più di qualche decina di metri dal marcatempo. Il corpo era riverso per terra. La testa, girata su di un lato, era adagiata sulla ghiaia che ricopriva la superficie del piano di calpestio. Pezzi di materia di un colore roseo erano sparsi qua e là vicino al corpo e poco più avanti c’era una grossa barra di ferro. Lo riconoscemmo subito, dal lato del viso che potevamo vedere: era Gianluigi, aveva gli occhi sbarrati e la testa aperta come un cocomero dentro il quale riuscivamo a vedere la sua materia cerebrale. Sotto il suo viso c’era una piccola chiazza di sangue di colore ancora vivido. La sua sagoma era immobile, non dava più alcun segno di vita. Si avvicinarono tutti e quasi subito, rendendosi conto della gravità della situazione, scoppiarono in pianti e in gesti di disperazione. In pochi secondi arrivarono sul posto anche il capoturno, i tecnici, l’ambulanza, il medico di fabbrica e, poco dopo, anche la polizia e il magistrato di turno. Anche in quel caso scattò lo sciopero, immediato, di ventiquattr’ore, ma non cambiò nulla, neanche quella volta. Gianluigi aveva appena ventitré anni, morì colpito alla testa da una pesante trave di ferro lunga poco più di un metro. Morì per colpa di quella trave, staccatasi a seguito di uno scontro fortuito tra due carriponte. Morì per una casualità, nella zona parcheggio della campata, alla fine del suo turno di lavoro, dopo aver fatto il suo dovere. Negli anni ne morirono molti altri: Domenico, di anni ventisei, schiacciato tra due tubi di acciaio al reparto tubificio due; Andrea, di anni diciannove, operaio di una ditta dell’appalto, colpito alla testa da un grosso martello mentre effettuava la manutenzione all’altoforno numero quattro; Silvio, di anni trentotto, al quale un ponteggio gli crollò sotto i piedi facendolo precipitare al suolo; Valerio, di anni trentatré, schiacciato da un tubo nel reparto tubificio longitudinale; Luca, di anni cinquantacinque, rimasto incastrato in uno dei nastri trasportatori; Claudio, di anni ventinove, morto schiacciato da un locomotore; Ciro, di anni quarantadue, precipitato da una pensilina nell’area cokerie; Antonio, di anni quarantacinque, colpito da un gancio di una gru al reparto acciaieria uno; Giacomo, di anni ventitré, operaio di una ditta di appalto con contratto a termine, morto schiacciato da un rullo che stava manutenendo; Alessandro, di anni trentacinque, colpito da un getto di ghisa incandescente al reparto altoforno numero due; Francesco, di anni ventinove, spazzato via da un tornado insieme alla gru sulla quale stava lavorando nel reparto portuale. Tutti giovani che dentro la fabbrica avevano trovato la morte lavorando. Ricordati appena, talvolta usati, all’occorrenza. Morti a cui nessuno avrebbe più dato la parola.

Quanti ce n’erano stati dalla nascita della fabbrica? Non si sa, nessuno lo sapeva con certezza, nessuno era mai riuscito a contarli con precisione. Come se morire in fabbrica fosse un rischio da calcolare, come se fosse una cosa normale, un prezzo da pagare. Avrei potuto esserci io al posto di uno di quei tanti ragazzi e se ciò non avvenne, se non toccò anche a me quella stessa tremenda sorte, lo dovevo solamente alla fortuna, era soltanto merito del fato. Chissà cosa avrebbero avuto da dire quei ragazzi, chissà cosa avrebbero detto di quella frase che certamente pure loro, almeno per una volta nella vita, avevano sentito pronunciare da qualche parte: ‘Qui nessuno si ammazza di lavoro ma bisogna stare con tanto di occhi aperti!’ Me lo chiedevo continuamente e ancora oggi mi capita di chiedermelo. Me lo chiesi anche quando vidi il medico di stabilimento chinarsi sul corpo di Gianluigi: solo pochi secondi, il tempo di constatarne il decesso, per poi coprirlo con un lenzuolo bianco, bianco come il colore che davano a quelle morti. Gianluigi era morto in fabbrica, vittima bianca del suo stesso lavoro. Aveva ancora gli occhi aperti, ma questo non gli era bastato per sfuggire alla morte.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Fabio Boccuni
Nasce a Taranto nell’aprile del 1982. Dopo il diploma, conseguito in un istituto tecnico-industriale, si arrangia come può con qualche lavoro qua e là nei settori più disparati. Nel 2004 viene assunto in fabbrica come operaio. Dal 2016 è un rappresentante sindacale per la Fiom-Cgil. Vive e lavora a Taranto.
Gli piace scrivere ma solo quando è d’umore nero, di solito ha da far cose più serie, costruire su macerie o mantenersi vivo.
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