L’uomo pensò di non aver mai visto una donna più bella in vita sua.
L’aveva notata subito, non appena era entrata in quel locale equivoco dove, anche se non era scritto a chiare lettere sulla porta, era ovvio che si andasse per cercare compagnia.
Sfoggiava una gran classe mentre, alta e statuaria, si muoveva con grazia facendosi largo fra i tavoli. I capelli erano biondo platino, a caschetto e aveva il viso di una splendida bambola. Indossava un aderente abito di lamé, corto appena sopra al ginocchio, sandali argentati dal tacco alto e lunghi guanti.
Il locale era pieno di belle donne affascinanti e raffinate, ma lei le batteva tutte.
Aveva un certo non so che, una bellezza particolare che faceva voltare più di una testa al suo passaggio.
L’uomo si accostò al bancone del bar e si issò a sedere su un alto sgabello, posizionandosi in modo da poterla osservare bene.
Ordinò un whisky e lo bevve tutto d’un fiato.
Mentre appoggiava il bicchiere vuoto sul banco, sentì una voce leggermente roca chiedergli: «È libero questo posto?»
Si girò di scatto e se la trovò davanti. Rimase a fissarla come un ebete, con la bocca aperta, senza rispondere.
La donna ripeté: «È libero?» indicando lo sgabello accanto al suo.
«Ce-Certo!» balbettò l’uomo.
Lei si accomodò, aprendo lo spacco della gonna mentre si sedeva, e rivelando una splendida gamba lunga e abbronzata. Ai piedi portava una cavigliera luccicante e le unghie erano laccate alla perfezione.
L’uomo deglutì, sentendo la gola farsi secca di colpo.
Per pochi attimi i due rimasero in silenzio, studiandosi l’un l’altro con la coda dell’occhio, guardinghi.
Agli occhi della donna quel tizio appariva congestionato e in sovrappeso, sudato in maniera ripugnante. Portava la camicia aperta sul petto, con una gran quantità di peli neri in bell’evidenza.
La bionda si girò apertamente verso di lui, con stampata in faccia una vaga espressione di ribrezzo, che la rendeva ancora più seducente.
«Hai voglia di offrirmi da bere?» gli chiese senza tanti preamboli.
«Che domande! È un onore! Cosa prendi?»
«Un whisky. Doppio.»
L’uomo ordinò lo stesso anche per lui, poi si voltò a guardarla, sporgendosi sullo sgabello in modo da sfiorarle le ginocchia.
Vista da vicino, era ancora più bella di quel che sembrava. Sfoggiava una pelle perfetta e una bocca carnosa, naturalmente rossa, che avrebbe potuto fare cose innominabili. Il seno, che s’indovinava dalla scollatura generosa, non era molto grosso, ma sodo e proporzionato.
L’uomo si sentiva intimidito, ma nello stesso tempo desiderava mostrarsi sfrontato e aggressivo davanti a lei, perciò raccolse tutto il suo coraggio e le chiese con una sicurezza che in realtà non provava: «Allora, come ti chiami?».
«Dipende. Tu come vorresti chiamarmi?»
L’uomo ridacchiò.
«Ti piace giocare, eh? Vediamo… secondo me ti starebbe bene il nome Luna, argentata e luminosa come sei. Che ne dici?»
«Dico che mi va. Luna… d’accordo! E tu?»
Lui esitò, pensando se fosse il caso di darle il nome vero. Ma sì, decise, tanto era lontano da casa, che pericolo avrebbe potuto correre?
«Eugenio.»
«Bel nome. Sei qui da solo?»
«Sì. Vengo da fuori. Faccio il rappresentante e sono di passaggio. E tu? Che mi dici di te?»
Chiacchierarono per qualche minuto, continuando a bere e scambiandosi informazioni. La donna venne a sapere che lui era sposato e veniva dalla Toscana. Alloggiava in un motel poco distante. Quando era in trasferta, gli piaceva frequentare locali di quel genere, dove si poteva incontrare compagnia femminile senza perdere troppo tempo.
«Senti,» disse lei a un tratto «non trovi che qui ci sia troppa confusione? Non potremmo andare da te a bere qualcosa in santa pace? Ne hai in camera? Altrimenti ce lo portiamo.»
L’uomo quasi non riusciva a crederci. Quella sventola stava flirtando proprio con lui. In cinquantaquattro anni di vita era la prima volta che gli capitava un’occasione simile.
Prima che la donna cambiasse idea, si affrettò a scendere dallo sgabello e a infilarsi la giacca sulla camicia sudata.
«Certo che ho qualcosa nel frigobar! Andiamo a vedere. Anche a me questo posto sta cominciando ad andare stretto!»
Lei si fece largo tra la folla del locale, ancheggiando con grazia, mentre il tipo la seguiva tutto eccitato, con le mani sudate e la testa in ebollizione.
«Il motel è a pochi passi da qui,» si affrettò a dire l’uomo, tentando di non inciampare a causa della foga «possiamo andarci a piedi.»
«Perfetto.»
La stanza si trovava al terzo piano. Camminarono lungo un corridoio illuminato da luce soffusa, calpestando una morbida moquette rossa, che ovattava i loro passi.
Quando entrarono nella camera dell’uomo, fu evidente che doveva essere appena arrivato, come aveva raccontato prima. La valigia aperta, ma ancora da disfare, era appoggiata su una sedia, e tutto intorno regnava un perfetto ordine.
La donna posò a terra la grossa borsa argentata e si sedette sulla poltrona, accavallando le gambe. Nel fare questo, si alzò il vestito, lasciando intravedere delle mutandine luccicanti.
L’uomo deglutì un’altra volta, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Allora? Non c’è niente da bere per una ragazza assetata, in questo posto?»
«Ehm… vediamo cosa offre il frigo. Ecco qua! Birra, vodka, spumante, vino bianco, oltre alle bibite. Cosa preferisci?»
«Una vodka liscia, grazie.»
Mentre lui ne versava per entrambi, la donna chiese: «Ti dispiace se mi metto un po’ in libertà? Ho talmente caldo…» e così dicendo, si sfilò velocemente l’abito leggerissimo, ammucchiandolo ai suoi piedi. Con un calcio buttò via anche i sandali.
Rimase in reggiseno e mutandine minuscoli, anch’essi di lamé argentato, e guanti lunghi.
Per poco all’uomo non prese un colpo. Fece perfino cadere il bicchiere ghiacciato con la vodka.
«Dio mio…» mormorò.
«Che c’è, non ti soddisfo?»
«Dio mio…» ripeté come un automa, con la voce arrochita dal desiderio. Poi, in un lampo si levò giacca e camicia, gettandole a terra e rivelando un petto grasso e villoso.
La donna represse a stento un’espressione di disgusto e si sforzò di sorridere.
Quando l’uomo fece il gesto di sbottonarsi anche i pantaloni, lei lo bloccò, dicendogli con dolcezza: «No, aspetta. Voglio fare io».
«Allora vieni qui, dai su, sbrigati, che sto morendo dalla voglia!»
Sorridendo con aria misteriosa, la donna si avvicinò, mentre ancheggiava in maniera voluttuosa. Ma quando gli fu proprio di fronte successe una cosa che lui non aveva affatto previsto: velocissima, si sfilò dal lungo guanto un coltello affilato e glielo cacciò nell’addome, rigirando la lama.
Subito un fiotto di sangue vermiglio cominciò a colare sulla moquette, mentre l’espressione dell’uomo si congelò in un ghigno d’orrore.
«Che hai fatto? Sei pazza!»
Cercò di afferrarla, ma non fu abbastanza veloce, perché lei, inesorabile e lucidissima, prese a colpirlo con foga al torso, cuore, polmoni, collo, genitali.
L’uomo, sempre più indebolito dall’enorme perdita di sangue, non ebbe nemmeno la forza di difendersi da quella furia omicida. Alzò le braccia per parare i colpi, ma si procurò solo profondi tagli anche alle mani. Si sentiva paralizzato dalla sorpresa e dalla paura. A terrorizzarlo era soprattutto la crudeltà negli splendidi occhi di quel demonio, venuto dagli inferi per sedurlo e ucciderlo. Ma perché proprio lui? Fu il suo ultimo pensiero, prima di crollare al suolo, dissanguandosi lentamente.
Elsa rimase un attimo immobile, ansando, a contemplare ciò che aveva fatto. Poi si riscosse, mentre il suo cervello lavorava in fretta. Non poteva permettersi sbagli. Si guardò e vide che era piena di sangue sulla pancia e sulle cosce. Svelta, s’infilò nel bagno, si tolse i lunghi guanti, e, usandoli per aprire i rubinetti, si lavò con l’acqua fredda. Subito dopo tornò in camera, senza degnare di uno sguardo il cadavere, e si rimise il vestito di lamé e i sandali.
Con uno sguardo circolare perquisì la stanza, per vedere se aveva dimenticato qualcosa: tutto era a posto, se si escludeva il sangue e il corpo senza vita dell’uomo. Usò un’altra volta i guanti per girare la maniglia e aprire la porta. Sbirciò nel corridoio semibuio. Nessuno. Si richiuse silenziosamente l’uscio alle spalle e s’incamminò verso un bagno che aveva intravisto quando era salita con lui. Entrò e ispezionò con cura ogni locale per accertarsi che fosse vuoto. A quel punto chiuse a chiave e si apprestò a riconquistare il suo aspetto.
Davanti allo specchio si tolse la parrucca platinata, facendo ricadere i lunghi capelli neri sulle spalle, poi fu la volta delle lenti colorate, riscoprendo i suoi magnifici occhi viola, tanto inconfondibili.
Levò abito e sandali, mise il tutto nella grossa borsa che aveva portato con sé e ne trasse un vestito di canapa indiana a colori vivaci. Lo indossò, notando con soddisfazione che era abbastanza informe e che la ricopriva fino ai piedi; poi calzò sandali piatti di cuoio.
Uscì di nuovo nel corridoio, tranquillamente, stando ben attenta a non lasciare impronte.
Mentre scendeva le scale non incontrò nessuno, ma non le importava. Chi avrebbe potuto ricollegarla alla bionda fatale che era uscita dal locale con quell’Eugenio e poi era salita in camera con lui?
Anche se qualcuno li avesse notati, cosa assai improbabile, avrebbe pensato che la bionda e il mandrillo erano ancora nella stanza di lui a spassarsela.
Uscì dal motel passando dal retro e si dileguò nella notte.
PAMELA VISENTIN
Dueville, giugno 2008
L’
ispettore capo Pamela Visentin del commissariato di Vicenza era una dura.
Dietro l’aspetto minuto e fragile, un metro e sessanta per cinquanta chili di peso, nascondeva un temperamento d’acciaio. Aveva un fisico gradevole, i capelli neri e lisci tagliati subito sotto le orecchie, con la scriminatura nel mezzo e un viso dai lineamenti fini e armoniosi. Vestiva sempre in maniera elegante e raffinata, come quella mattina, con una canottiera di seta bianca e pantaloni morbidi color ecru, e non era mai successo di vederla senza il suo solito trucco impeccabile o con le unghie trascurate. Il suo sguardo era tagliente e la sua mente più che acuta.
Non esisteva uomo che fosse riuscito a metterle i piedi in testa e non dava mai segni di debolezza. Sopportava le autopsie con sangue freddo, impassibile, più di molti suoi colleghi uomini. Non si ritraeva mai quando il bisturi incideva la fredda cute dei cadaveri o quando dagli organi si levavano fetori nauseabondi. Molti non erano altrettanto resistenti. Spesso le arrivava il profumo del Vicks che si spalmavano sotto le narici per coprire il lezzo, ma talvolta nemmeno quello era sufficiente e li vedeva barcollare verso un lavandino per vomitare. A lei non era mai successo.
Quando la chiamarono dicendole che forse c’era un’altra vittima del solito serial-killer, si precipitò sul luogo del delitto, tirandosi dietro il viceispettore Vincenzo Spanò.
Mai si era vista coppia più improbabile. In questura erano soprannominati “la bella e la bestia”. Tanto gradevole lei, quanto brutto e goffo lui: con pochi capelli grigi e spettinati, l’aria sempre trasandata e le camicie perennemente impregnate di sudore sotto le ascelle.
Pamela Visentin si fidava di Spanò a tal punto che avrebbe messo la propria vita nelle sue mani. Lei era aggressiva e dominante, lui timido e impacciato. Ma lavoravano con una mente sola e insieme avevano risolto non pochi casi difficili.
Guidando a tutta velocità, Visentin arrivò all’angolo tra via Treviso e via Po, dove era stato segnalato l’omicidio. Vide che c’erano già alcuni agenti con tanto di transenne per trattenere la gente che si stava radunando.
Due uomini, probabilmente giornalisti, pretendevano di passare.
«Non entra nessuno» disse uno dei due poliziotti «sono gli ordini.»
«I lettori hanno il diritto di sapere,» gridarono i giornalisti.
Gli agenti rimasero impassibili.
Pamela si avvicinò e mostrò loro il distintivo, frettolosa. Si diresse poi verso l’ingresso a testa bassa, seguita da Spanò, dalle urla e dalle proteste di quelli rimasti fuori.
Nell’atrio del motel c’era una fila di persone tenuta a bada da altri agenti in borghese. La fila si spostava lentamente verso un tavolino collocato in un angolo dove tutti dovevano rilasciare i propri dati e le proprie impronte.
Un sergente vide l’ispettrice e la raggiunse.
«Terzo piano,» mormorò «un macello…»
«Chi l’ha trovato?»
«La cameriera, stamattina presto. È ancora sotto shock. Il poliziotto dell’albergo non ha toccato nulla e ci ha subito chiamato.»
«Sarà meglio salire» disse Spanò.
«Tenetevi le palle» ghignò il sergente.
Il corridoio del terzo piano era affollato da uomini della procura e agenti della scientifica che stavano prendendo le impronte e passando al setaccio la moquette.
Visentin e Spanò si fecero largo tra quella calca, fino a raggiungere una porta aperta.
Il medico legale stava ancora lavorando quando si affacciarono sulla soglia.
«Madonna santa!» disse Spanò sotto voce.
«Già,» ribatté il medico legale «questo tizio è stato fatto a fettine. Circa otto, dieci ore fa.»
«Non ho più l’età per questi spettacoli» commentò di nuovo il viceispettore, con la faccia tetra.
Pamela Visentin non aveva battuto ciglio.
«Si sa chi è?» domandò soltanto.
Un agente si fece avanti con un taccuino.
«Dai documenti pare che sia un certo Eugenio Gentilini, di anni cinquantaquattro, residente a Castellina in Chianti, in Toscana. Professione, rappresentante.»
Visentin e Spanò si guardarono intorno. La stanza era ridotta a un mattatoio. Schizzi e macchie di sangue imbrattavano tutte le pareti e il tappeto ne era inzuppato. Il corpo dell’uomo era un reticolo bianco e rosso.
Rimasero in silenzio a guardare la squadra della scientifica al lavoro: rilevavano impronte digitali, passavano l’aspirapolvere nei punti privi di macchie di sangue, raccoglievano capelli e frammenti vari servendosi di pinzette e mettevano ogni reperto in bustine di plastica.
«Impronte?» chiese Visentin.
Uno dei tecnici scosse la testa.
«Niente di promettente. Sempre solo parziali o confuse.»
Ci volle ancora una mezz’oretta, prima che i tecnici riponessero la loro pesante attrezzatura e se ne andassero.
«Mi raccomando, priorità assoluta, per quei reperti» ordinò l’ispettrice.
Poi il fotografo rilevò la scena del delitto, e finalmente Visentin e Spanò poterono entrare. Si chinarono sul cadavere che si stava irrigidendo.
«Un’altra vittima della nostra amica, a quanto pare» commentò il viceispettore con una smorfia.
«Così sembrerebbe,» convenne lei «il modus operandi è lo stesso. Uomo solo, di passaggio, decine e decine di coltellate, asportazione del pene, come a infierire, come a sfogare un profondo odio interiore. Nessuna ombra dell’arma se, come presumo, il copione è lo stesso degli altri casi.»
«Scommetto che non la troveremo neanche qui.»
Si aggirarono per la stanza con circospezione, osservando ogni particolare. Non che ci fosse molto da vedere, in realtà. La scientifica si era già impadronita di tutto: la valigia, che non era stata ancora disfatta, e gli oggetti della toilette.
«Solo una squallida stanza di motel,» osservò Spanò «non abbiamo molte speranze di scoprire qualcosa.»
«Se avete finito col cadavere, lo porteremmo via» disse un addetto dell’ufficio di medicina legale.
«Sì, fate pure,» acconsentì l’ispettrice «andiamocene, qui non c’è molto che possiamo fare. Non resta che aspettare i risultati dell’autopsia e della scientifica, per vedere se stavolta l’assassina ha commesso qualche errore.»
Scesero con l’ascensore.
«Quindi sei sempre convinta che si tratti di una donna…»
«Senza alcun dubbio.»
Risalirono in macchina, e stavolta si mise Spanò al volante, accendendosi una sigaretta.
«Io continuo a rimanere del parere che bisognerebbe tentare con un’esca, con uno dei nostri in borghese…» disse, mentre metteva in moto.
Visentin fece una risata secca, senza allegria.
«E dove la metteremmo quest’esca, eh? Finora ha spaziato per mezzo Nord Italia, a casaccio. E inoltre, quando? Non ha date fisse, che so, la luna, il ciclo mestruale, un numero ricorrente. Non si sa mai quando colpirà, né dove.»
Fece un sospiro disperato. In tutta la sua carriera non le era mai capitato un caso così difficile da risolvere.
Compirono il resto del tragitto in silenzio.
Poi, Spanò se ne uscì con un’idea: «Se ha gironzolato per tutto il nord disseminando cadaveri, non potrebbe essersi spostata anche più in là? In qualche città più lontana? Starò dicendo una cazzata, ma vale la pena di verificare, secondo me!».
Visentin gli lanciò un’occhiata mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Lo sai che puoi aver ragione? Appena arriviamo in commissariato, facciamo dei controlli incrociati!»
La donna ormai l’aveva presa come una questione personale.
Da molto tempo nel nord-est imperversava la delinquenza sotto varie forme, le più gravi erano senz’altro le violenze xenofobe, lo spaccio di droga e i delitti della cosiddetta mafia del Brenta, ma questo serial-killer era tutta un’altra cosa.
Nell’arco di diversi anni, ogni tanto, senza nessuna sequenza logica, veniva ritrovato il cadavere orrendamente straziato di un uomo: si trattava sempre di un individuo di età compresa tra i trentacinque e i cinquantacinque anni, sposato, ma che per qualche ragione si trovava da solo in un motel per viaggiatori o in una camera di un club per single.
Quando nelle alte sfere si resero conto che c’era un serial-killer che massacrava i contribuenti, decisero in fretta e furia di mettere insieme una task force.
I primi delitti furono seguiti dal predecessore di Pamela Visentin, il quale, dopo essere andato in pensione, aveva passato a lei l’enigma irrisolto.
Il commissario Fabrizio, capo del team, aveva pensato bene di metterla alla prova. Una decisione di cui non si era pentito perché, con caparbia determinazione, l’ispettrice era riuscita a cogliere importanti collegamenti con altri delitti simili compiuti non solo nel Veneto, ma anche nella zona di Milano, in Piemonte e a Trieste. Formulando inoltre l’ipotesi, secondo lei fondatissima, che l’assassino fosse di sesso femminile.
L’aveva soprannominata la Signora dei Crisantemi, parafrasando La Signora delle Camelie, dato che questa donna seminava morte.
Le vittime venivano barbaramente uccise con un coltello che non era mai stato ritrovato e, in quasi tutti i casi, l’omicida si accaniva sul cadavere con quella che sembrava una furia cieca, un odio covato che finalmente riusciva a trovare sfogo.
Fino a quel momento non aveva lasciato la più piccola impronta o traccia che potesse aiutare gli inquirenti nell’identificazione, ma l’ispettrice si era convinta che si trattasse di una persona di sesso femminile a causa di alcuni particolari: le porte delle camere in cui avvenivano i delitti non presentavano mai segni di scasso, quindi le vittime sicuramente facevano entrare il loro assassino senza alcun sospetto; venivano ritrovati nudi, del tutto o in parte, e ciò portava a dedurre che stessero per consumare un rapporto sessuale, e nessuno di loro, tramite quello che poteva rivelare l’autopsia, era risultato un omosessuale. Inoltre il coltello, secondo le statistiche, veniva considerato un’arma prettamente femminile. In alcuni casi le vittime erano state riconosciute come frequentatori abituali di night o di club per persone sole e il personale aveva confermato che sceglievano sempre la compagnia di donne.
«È pure fortunata, quella stronza!» esclamò l’ispettrice, mentre Spanò si destreggiava nel traffico. «Mai nessuno che abbia notato qualcosa. E mai nessuno che intuisca la minaccia: loro sono indifesi davanti a lei, non pensano di essere in pericolo, e quindi non reagiscono, fino a quando è troppo tardi. Gioca proprio su questo: sul fattore sorpresa. Sul fatto che nessun uomo arriverebbe a sospettare di una donna che li adesca. Orgoglio maschile, suppongo. E, secondo me, dev’essere pure molto bella.»
I giornali avevano dato grande rilievo alla notizia, cercando di mettere in guardia chi amava frequentare certi tipi di locali, ma non era servito a molto: quasi tutti siamo propensi a pensare che il male debba succedere sempre agli altri e mai a noi stessi.
E, come accade in questi casi, la fantasia popolare era stata morbosamente alimentata da dossier, speciali tv, interviste a psicologi criminali e psichiatri. Senza raggiungere alcun risultato, purtroppo.
Arrivati nel parcheggio del commissariato, Visentin scese dall’auto sbattendo la portiera, poi si avviò all’interno a passo di marcia.
I suoi tacchi alti risuonavano sul lucido pavimento del corridoio, mentre qualche collega metteva fuori la testa dalla sua stanza, per avere notizie.
«Allora? Com’è andata?»
«Il solito carnaio» rispondeva laconica, senza fermarsi, l’umore nero come i capelli.
Si chiuse nel suo ufficio e si buttò a sedere sulla poltrona girevole dietro la scrivania. Accese subito una sigaretta e tirò fuori per l’ennesima volta tutti gli incartamenti relativi agli omicidi del serial-killer di cui era a conoscenza. Già, perché ormai aveva seri sospetti che ce ne fossero chissà quanti altri che loro ignoravano, disseminati per l’Italia.
Era in preda a una rabbia sorda. Possibile che non si potesse venire a capo di niente? Quei casi erano diventati un’ossessione per lei. E la totale assenza di movente rendeva tutto maledettamente difficile.
L’assassino non disseminava tracce, non lasciava messaggi, non scriveva lettere agli inquirenti. Chissà come rideva, dei loro sforzi!
Entrò Spanò, con due bicchierini di caffè fumante.
«Tieni, tanto ormai, più nervosa di così…»
L’ispettrice sorseggiò la sua bevanda senza zucchero, poi fece una smorfia.
«Puah! Ogni giorno la roba di quella macchinetta fa sempre più schifo!»
«No, sei tu che hai già la bocca amara per conto tuo! Te la stai prendendo troppo…»
«Troppo?! Ti sembra troppo prendersela per la fine che hanno fatto questi disgraziati?» replicò la donna, afferrando le cartelline e gettandole sul ripiano della scrivania con rabbia. Aspirò una boccata dalla sigaretta, poi si mise a scorrere i rapporti uno per uno.
Eccoli lì: Arzignano, Albignasego, Abano Terme, Schio, Vicenza, Treviso, due casi a Verona, Monselice, Castelfranco Veneto, Padova. E poi i fascicoli inviati da Milano, Asti, Torino e Trieste.
Omicidi efferati, in tutto e per tutto simili ai casi che stavano seguendo loro, insieme alle altre questure. Un vero incubo.
Oltre al modus operandi, alla scelta di uomini di un certo tipo e all’affinità tra le scene del crimine, non erano riusciti a trovare nessun anello di collegamento tra le vittime: non si conoscevano tra di loro, venivano da città diverse e, anche scavando nelle rispettive esistenze, non erano emersi punti in comune.
L’unica nota che saltava agli occhi, guardando una cartina affissa al muro piena di puntine colorate per ogni luogo del delitto, era che il diabolico killer doveva risiedere nella zona, visto che il suo raggio d’azione non si spostava mai troppo. La maggior parte degli omicidi erano stati commessi fra le province di Vicenza, Padova e Treviso, con qualche sporadica puntata più lontano. Ma questo era tutto. Nonostante queste deduzioni, nessun passo avanti.
Sospirando, Visentin prese una cartellina nuova e scrisse sopra il nome della vittima di Dueville, quella della notte precedente: Eugenio Gentilini.
«Eccone un altro che va ad allungare la lista,» commentò «speriamo che almeno stavolta l’assassina abbia lasciato qualche traccia compromettente.»
Spanò si rimboccò le maniche della camicia bianca chiazzata di sudore e si collegò alla rete del computer.
A mattina inoltrata, finalmente emerse qualcosa, ma Spanò non sapeva se esserne contento o sconvolto.
Monica (proprietario verificato)
Monica avendo già letto molti tuoi scritti sono sicura che anche questo tuo ultimo lavoro sarà un romanzo affascinante…. aspetto con ansia che il postino me lo consegni! ti auguro ogni bene e spero davvero che stavolta sia la volta buona! te lo meriti! un bacione grande a presto
Monica santucci