Nei pressi di un lago, un neonato viene abbandonato: la sua pelle è di vetro, trasparente e pura come l’acqua che lo circonda. È Crystal, protagonista de “La leggenda dell’uomo di vetro”, una storia che esplora come il mondo possa contaminare l’unicità di ciascuno di noi. Diversamente, ne “L’uomo che dimenticò il tempo”, il protagonista è un uomo stanco delle strutture sociali e temporali imposte dalla vita moderna. Decide quindi di vivere senza i vincoli del tempo: una scelta che rappresenta al tempo stesso libertà e condanna alla solitudine. Infine, “L’uomo che non esisteva” ci porta nel delirio interiore di una persona afflitta da una sofferenza profonda, raccontato attraverso il suo diario. Per trovare pace, dovrebbe guarire la propria ferita, ma è pronto a sacrificare una parte di se stesso per farlo?
La leggenda
dell’uomo di vetro
I
Era un uomo che non era vissuto, non era nato e probabilmente non era neanche morto. Lo avevano ritrovato al bordo di un lago; era poco più che un fagotto, forse aveva pochi giorni, magari settimane. Nemmeno piangeva.
A ritrovarlo era stato padre Maryel, un prete francese alquanto strano; l’uomo era persino agnostico tranne quando beveva, in quei casi era un credente appassionato e si può ben dire che era quasi sempre il più devoto del convento.
Il lago dove il bambino era stato ritrovato non era un lago comune, ma speciale, talmente limpido che pareva di cristallo; più che acqua, era uno specchio capace di riflettere ogni cosa nei suoi minimi particolari e quel bambino sembrava avesse dentro il lago stesso e quella sembrava la nascita miracolosa di un fanciullo generato da acque di cristallo. Fu così che il piccolo venne chiamato Crystal.
Perché questo bambino era tanto speciale e perché il suo ritrovamento creò un polverone tanto grande? Per chi non lo ha mai conosciuto, è difficile capirlo e lo è ancora di più per me spiegarlo. Il fatto è che Crystal era realmente quel lago. Più che pelle, sembrava avesse addosso vetro. Era impossibile per tutti spiegarlo, ma quando parlavi con quel bambino, quando lo avevi dinanzi agli occhi, era come se oltre a lui riuscissi a vedere anche il tuo riflesso; le due immagini erano nitide.
Insomma, la faccenda era inspiegabile e lo era per tutti meno che per padre Maryel e me. Il frate ripeteva continuamente che quel bennato moccioso fosse la prova che ognuno di noi ha un’anima.
«Crystal, nome azzeccatissimo, è fatto di vetro!» diceva. «E si sa che il vetro è trasparente, a meno che non vi sia dietro qualcosa… In quel caso, non solo si rende visibile, ma crea pure un bel riflesso. È semplicissimo, stupidi! Crystal ha la pelle di vetro e una grandissima anima dietro.»
La questione era tutt’altro che semplice ma io, figlio del vetraio del paese, avevo preso l’abitudine di considerare Crystal mio fratello; ero sicuro che mentre mio padre lavorava a chissà quale opera, un mago fosse passato di lì e avesse dato vita al mio fratellino. Non avevo dogmi più sicuri di quello, così cominciai a chiamarlo “uomo di vetro”, soprannome diffusosi poi in tutta la città.
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