Come un attimo che vola via, non ho osato dirti altro che grazie, prima di vederti andartene e mischiarti alla folla indistinta.
Chi sei? Dove vai? Non lasciarmi senza risposte. Dove sei ora? Sei già troppo lontana. Volevo solo dirti grazie. Grazie per essere apparsa in cima a quelle scale.
Strano come sia pesante risalire, uscire da quell’antro moderno scavato sotto la città. I rumori attorno mi sembrano striduli e fastidiosi come non mai.
Non mi sono mai abituato alla vita in città. Almeno, non abbastanza. Ora ancora meno.
Strano, ti ho vista per pochi attimi, ed è doloroso sentire di averti persa, ma quei pochi attimi sono bastati per riempirmi di te, di ogni tuo particolare: i capelli lunghi appena da sfiorare il collo delicato, gli occhi non troppo larghi e neanche troppo stretti, le labbra increspate in un sorriso, una mano che stringe un libro di Coelho, l’altra a mezz’aria che sembra esplorare il mondo, curiosa.
Ho perso troppo tempo a osservare gli orari, che conosco bene. Ho perso troppo poco tempo per cercare di dirti qualcosa di più che un grazie.
Sono in ritardo. Mi aspetta ancora una mezza giornata di cose comuni, da fare in una città. Ho un colloquio, anche importante, e sono in ritardo. Al diavolo, prendo un taxi. L’autista mi guarda per un po’ e gli rispondo, dopo che mi ha chiesto la destinazione per diverse volte. Ci ho dovuto pensare per più del dovuto, perché sentivo ancora il tuo profumo addosso e l’unica cosa che volevo fare era scendere da quel taxi e correrti dietro.
Mi suona il telefono. È Luca.
«Scusami, ma non ho visto l’ora» gli rispondo.
«Quanto pensi che ci metterai per quel colloquio?» mi chiede lui.
«Non so. Credo un’oretta. Non voglio fare brutta figura.»
«Lo so, ma avevi promesso di prenderti un po’ di tempo per guardare il mio progetto. Lo sai che ci tengo. Io fra un po’ devo entrare a lavoro» mi dice seccato.
Mi dispiace per lui e anche per me. Mi sta piacendo la sua idea. Meriterebbe più attenzione e, a dir la verità, sta risvegliando un po’ di passione in me.
Tuttavia, in questa città è difficile trovare il tempo, incastrarsi fra il lavoro, gli spostamenti, avere il giusto attimo di tranquillità per pensare. E poi, oggi, ho anche visto te, per la prima volta.
«Luca, lo so che sarai a pezzi dopo il lavoro, ma, se ti va, possiamo vederci. Anche io devo alzarmi prestissimo domani, ma chissenefrega! Ho pensato a un po’ di cose per il tuo progetto» gli faccio, cercando di trasmettergli entusiasmo.
«Ok» replica, anche se non proprio convinto. «Appena sto per smantellare ti mando un messaggio. Anzi, ti chiamo direttamente. Lascia il cellulare acceso. Lo so che tanto ti sarai addormentato…» precisa. Mi conosce bene.
«Perfetto!» gli rispondo. «Spero che mi vada bene il colloquio. Se riesco a entrare in quello studio, potrebbero esserci delle possibilità in più per il tuo, per il nostro, progetto.»
«Allora tanti auguri di nuovo. Non farmi il pacco.»
«Grazie, Luca. Ah, ti devo dire una cosa…» aggiungo, ma lui ha già chiuso.
La macchina, alla fine, si ferma ai piedi di un bel palazzo, elegante nelle sue rifiniture liberty mescolate ad ampie vetrate moderne. Pago il tassista con quello che avrebbe dovuto essere un buon aperitivo nel mio locale preferito più tardi e mi avvio verso un importante tassello della mia vita. Almeno, così spero.
Sai, Luca, non credevo di essere così sensibile, specie dopo questi anni passati in città, nel chiasso, fra persone sempre diverse, nel puzzo delle strade, nel vagare fra mete senza convinzione, nel saltare da un letto all’altro in cerca della pace dei sensi. Eppure oggi, alla metro, alla solita fermata, ho sentito un buon profumo, ho riscoperto la bellezza. Ho visto lei.
Le porte in vetro si chiudono dietro di me. L’aspetto, misto fra il moderno grigio acciaio e quello più caldo della pietra, mi da la sensazione di essere nel posto sbagliato. Mi avvicino all’ascensore, stringendo la cartella colma di frammenti della mia vita, dei miei studi, dei miei tanti tirocini mal pagati, dei miei abbozzi di progetti per il futuro.
Frugo fra le scartoffie, come per assicurarmi d’essere proprio in quel luogo, in procinto di salire in alto, all’ultimo piano, nell’atrio di uno dei più rinomati studi d’architettura della regione. Un’occasione più unica che rara!
Certo, mamma, lo so. Potrebbe finalmente essere lo scatto finale verso una vita piena, soddisfacente. Come vorresti tu.
Richiamo l’ascensore, senza desiderare che arrivi davvero, ma eccola, pigra e sferragliante, la cabina si ferma e si apre davanti a me.
Un profondo respiro. Sento l’energia e la fiducia che aumentano. Penso alle possibilità, agli stimoli che mi si apriranno davanti. Ai geni dell’architettura con cui lavorerò. Alla mia fama futura. Guardo il mio smartphone, il vetro filato, per essere sicuro che l’ora sia giusta, il giorno corretto.
L’ascesa aumenta l’euforia. Sento un profumo, leggero e piacevole. Mi guardo allo specchio e vedo un superuomo. Quasi mi pare di levitare, carico di me. Che profumo, sempre più intenso, che divoro a grandi respiri.
Quarto piano. Ottavo piano. Sorrido. Ancora un piano. Chiudo gli occhi. Ci fermiamo. Ancora un piano ed eccoci. Apro gli occhi. Sento forte quel profumo speciale. La cabina spalanca le sue fauci al penultimo piano. Ne manca ancora uno per me. Il profumo mi avvolge. Il suo profumo.
«Aiutami, ti prego!» urla lei, di fronte a me. Irrompe nella cabina. Mi guarda con quei suoi occhi fantastici, ma sbarrati di paura.
«Aiutami! Scendiamo. Portami via!» mi supplica ancora, terrorizzata.
Io sono congelato. Come se due mondi paralleli si fossero d’improvviso scontrati alla velocità della luce. E io sono lì, proprio in mezzo, sconvolto.
La sua mano leggera richiama il piano terra. Si chiudono le porte. Fuori si sentono rumori convulsi.
Qualcuno che corre, che urla. L’ascensore si muove verso il basso.
Lei mi abbraccia, mi stringe, tremando dalla paura. Il suo abbraccio mi scioglie. Tengo stretti i miei fogli. Li guardo, oltre la spalla nuda, la pelle perfetta di lei. Cosa sono questi? Chi sono? Chi ero? Stringo gli occhi. Cerco di ragionare, di riaccendere qualche pensiero lucido.
Arriviamo al piano terra, il tempo sembra riavvolgersi. Le porte si aprono. Lei alza lo sguardo. Si affaccia, tenendomi per mano, si guarda attorno, terrorizzata. Fa un bel respiro.
Poi mi trascina. Corriamo fuori dal palazzo. Piove.
«Hai una macchina?» mi urla addosso.
«Cosa succede?» le rispondo io, con voce tremolante.
La mia testa, in qualche modo, sta riprendendo a funzionare. Un po’.
«Che?!» mi fa lei.
«Cosa sta succedendo?!» le ripeto.
«Non c’è tempo!» urla, trascinandomi sul marciapiede. «Hai una cazzo di macchina?»
«No!» grido io. Mi fermo, tenendole stretta la mano. «Chi sei tu?»
Lei ansima. Mi guarda dritto negli occhi. Non sono sicuro di quello che vedo.
Sono perso, confuso. Lei ha paura. Credo. È bellissima. Devo tornare indietro. Devo tornare alla realtà. Devo scappare. Le lascio la mano con uno strappo. Mi volto. Me ne vado.
«Ti prego!» La sua voce, isterica, con la paura negli occhi.
Mi fermo. Faccio qualche altro passo. Mi fermo ancora. Guardo le mie scartoffie. Guardo il palazzo. Sento il suo profumo. I suoi singhiozzi alle mie spalle.
«Ti prego, andiamo» dice lei, piangendo ormai. «Aiutami…»
Vorrei poter scrivere due storie. Due storie entrambe bellissime.
Questo scriveva Andrea su un blocchetto di fogli, guardando le onde del mare che sbattevano sulla spiaggia.
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