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La terza notte di luna piena

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Marzo 1991. Durante una notte di luna piena, il commissario Buba e il poliziotto Stacchiozzi si trovano di fronte a una scena del crimine agghiacciante. Sul luogo di un omicidio, strane impronte riconducibili a un animale notturno sconosciuto sembrano raccontare una storia inquietante. Nelle notti successive, altri omicidi insanguinano la città. Tutti gli indizi puntano a una creatura impossibile: un mostruoso maiale mannaro. Tra dialoghi dissacranti con i vivi, ma anche con i morti, riaffiorano nella mente di Buba i ricordi di Anna, l’amore della sua giovinezza.

Misantropo, solitario e ossessionato, il commissario, tra un’abbuffata e l’altra, dovrà raccogliere i pezzi di un enigma che mescola orrore e ironia.

Prologo

È stato il destino

«Anna, tu mi ami?»

«No, per niente.»

«E allora perché stai con me?»

«Io sto con tutti e con nessuno.»

«Ma facciamo l’amore io e te, e ti piace farlo con me.»

«Mi piace attaccarmi con le mani alle tue piccole orecchie a sventola quando ti cavalco.»

«Infatti il sinistro me lo hai quasi staccato ieri sera. Ma è solo per questo?»

«No, anche per stare sopra il tuo grande pancione bianco che è così morbido. Se chiudo gli occhi mi immagino di essere sdraiata sopra un comodo materassino in riva al mare. Mi culla il continuo gorgogliare del tuo stomaco simile al rumore ritmato delle onde.»

Fu quella una delle estati più calde degli anni Settanta. Il sole di luglio alle tre del pomeriggio era come un mortale raggio laser puntato e pronto a sparare sulla Terra, sulle cose, sulla gente, come di quelli che si vedono nei film di fantascienza. Le poche persone in giro lo scansavano camminando sotto l’ombra delle case, degli alberi, a volte accontentandosi anche di quella dei lampioni e se non potevano evitarlo, allora, correvano verso il primo ombrello di merigge più vicino.

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Al bar Centrale solo pochi giovani potevano sfidare quei quaranta gradi e un’umidità da record. I ghiaccioli Toseroni alla menta erano pressoché introvabili e quelli all’arancia dovevi mangiarli in tre bocconi se non volevi che si squagliassero in un attimo.

«Buba, portami al mare.»

«E con che?»

«Frega la macchina al tu’ babbo.»

«Sie, figurati…»

«E allora portami con la Vespa al Trasimeno.»

«Ho poca miscela.»

«Valla a mette’! La Masca è aperta.»

«Non ho una lira in tasca e poi non ho voglia, troppo caldo, dai…»

«Ma vaffanculo, Buba, vai! Vaffanculo!»

Eccolo il momento dove tutto in un attimo si trasforma in tragedia. Dove il destino ti beffa e si fa pure una grassa risata di te. Dove la tensione innescata dalla discussione e soffocata da un caldo insopportabile si trasforma in un infantile mostruoso dispetto.

Nel preciso istante del secondo vaffanculo, arrivò davanti ai tavoli del bar Centrale con la sua Kawasaki 500 color oro il famoso e temuto Giuseppe detto Bicche, un trentenne butterato tracagnotto mezzo delinquente, con i capelli crespi alla Lucio Battisti e i baffi di Pancho Villa.

«Gnamo, monta» disse brutalmente ad Anna mentre buttava il pollice destro dietro la spalla per indicarle il secondo posto in sella.

«Dove mi porti?»

«Al giro.»

«Voglio anda’ a fa’ il bagno al Trasimeno.»

«Sì, sì, monta che te lo fo vede’ io il lago!»

Buba rimase in silenzio, impietrito davanti a Bicche e alla sua tracotanza. D’altronde, quello era un violento e tutti lo sapevano. E anche Anna si accorse del timore di Buba tanto che lo guardò con disgustato disprezzo.

«Fifone» gli disse lei a bassa voce fissandolo negli occhi mentre con il piede sulla pedalina si accingeva a scavalcare la moto aggrappandosi forte alle spalle di Bicche.

«Rimani zitto e muto lì a sedere, vigliacco, che tra poco te la riporto!»

Il butterato con un’agghiacciante risata aprì il gas a manetta e dopo una breve impennata sparì rombando giù per la discesa del campo sportivo.

Buba, inchiodato alla sedia, fu percorso da un rivolo di sudore lungo la colonna vertebrale che gli infradiciò giro giro tutto l’elastico delle mutande.

«Impotente di fronte a un prepotente. Sì, è vero, sono un vigliacco, ecco cosa sono. Mi sono cagato sotto dalla paura, come avrebbero fatto tutti al mio posto qui in questo cesso di paese, d’altronde quello è un picchiatore nato, e gira con un coltello a serramanico nelle tasche. Che potevo fare? O dire? Niente. Per il bene di tutti. Niente di niente.»

Passò appena un quarto d’ora e i due furono già di ritorno. Anna scese dalla moto a testa bassa e silenziosa, Bicche, con lo sguardo fisso avanti sull’asfalto e senza dire una parola, ripartì come un razzo.

Anna aveva della paglia intrecciata tra i capelli, la maglietta e gli shorts erano bianchi di polvere. Aveva perso uno zoccolo, chissà dove. Nel naso gonfio, il sangue rappreso gli aveva chiuso una narice.

«Cosa ti ha fatto?»

«Ti avevo chiesto di portarmi al Trasimeno…»

«Ti ha picchiata?»

«Se mi avessi portata a fare il bagno al lago…»

«Figlio di puttana! Ma io lo vado a denunciare quello!»

Anna calciò via lo zoccolo olandese rimastole al piede e s’incamminò scalza per la strada.

«Anna dove vai? Aspetta, ti accompagno…»

«Lasciami stare, Buba, lasciami stare… Non ti voglio più vedere. Mai più. Mi fai schifo, capito? Schifo!»

Alla fine di settembre quella torrida estate iniziò a mostrare segni di debolezza.

Le temperature tornarono piacevoli e Buba vinse un importante concorso pubblico. Festeggiò il Natale in solitudine, a Milano. Chiese ai superiori di essere messo di guardia come piantone notturno alla caserma Garibaldi, III Reparto Mobile, polizia di Stato.

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Alessandro Angiolini
Vive in Toscana, in un minuscolo e semiabbandonato borgo di montagna, nell’Appennino aretino-casentinese. In passato ha collaborato con diverse testate giornalistiche e ha al suo attivo una decina di pubblicazioni tra saggi storici e romanzi. Ha inoltre lavorato come copywriter in altrettanti libri e saggi.
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