“Buba portami al mare”.
“E con che?”.
“Frega la macchina al tu’ babbo”.
“Sie, figurati…”.
“E allora portami con la vespa al Trasimeno”.
“Ho poca miscela”.
“Valla a mette’! La Masca è aperta”.
“Non ho una lira in tasca e poi non ho voglia, troppo caldo dai…”.
“Ma vaffanculo Buba vai! Vaffanculo!”.
Eccolo il momento dove tutto in un attimo si trasforma in tragedia. Dove il destino ti beffa e si fa pure una grassa risata di te. Dove la tensione innescata dalla discussione e soffocata da un caldo insopportabile si trasforma in un infantile mostruoso dispetto.
Nel preciso istante del secondo vaffanculo, arrivò davanti ai tavoli del bar Centrale con la sua Kawasaki 500 color oro il famoso e temuto Giuseppe detto Bicche, un butterato tracagnotto mezzo delinquente, con i capelli crespi alla Lucio Battisti e i baffi di Pancho Villa.
“Gnamo, monta”, disse brutalmente ad Anna mentre buttava il pollice destro dietro la spalla per indicarle il secondo posto in sella.
“Dove mi porti?”.
“Al giro”.
“Voglio anda’ a fa’ il bagno al Trasimeno”.
“Sì sì, monta che te lo fo vede’ io il lago!”.
Buba rimase in silenzio, impietrito davanti a Bicche e alla sua tracotanza. D’altronde quello era un violento e tutti lo sapevano. E anche Anna si accorse del timore di Buba tanto che lo guardò con disgustato disprezzo.
“Fifone”, gli disse a bassa voce fissandolo negli occhi mentre con il piede sulla pedalina si accingeva a scavalcare la moto aggrappandosi forte alle spalle di Bicche.
“Rimani zitto e muto lì a sedere vigliacco che tra poco te la riporto!”.
Il butterato con un’agghiacciante risata aprì il gas a manetta e dopo una breve impennata sparì rombando giù per la discesa del campo sportivo.
Buba inchiodato alla sedia, fu percorso da un rivolo di sudore vertebrale che gli infradiciò giro giro tutto l’elastico delle mutande.
“Impotente di fronte ad un prepotente. Sì è vero, sono un vigliacco, ecco cosa sono. Mi sono cagato sotto dalla paura, come avrebbero fatto tutti al mio posto qui in questo cesso di paese, d’altronde quello è un picchiatore nato, e gira con un coltello a serramanico nelle tasche. Che potevo fare? O dire? Niente. Per il bene di tutti. Niente di niente”.
Passò appena un quarto d’ora e i due furono già di ritorno. Anna scese dalla moto a testa bassa e silenziosa, Bicche con lo sguardo fisso avanti sull’asfalto e senza dire una parola, ripartì come un razzo.
Anna aveva della paglia intrecciata tra i capelli, la maglietta e gli shorts erano bianchi di polvere. Aveva perso uno zoccolo, chissà dove. Nel naso gonfio, il sangue rappreso gli aveva chiuso una narice.
“Cosa ti ha fatto?”.
“Ti avevo chiesto di portarmi al Trasimeno…”.
“Ti ha picchiata?”.
“Se mi avessi portata a fare il bagno al lago…”.
“Delinquente! Ma io lo vado a denunciare quello!”.
Anna calciò via lo zoccolo olandese rimasto al piede e s’incamminò scalza per la strada.
“Anna dove vai? Aspetta, ti accompagno…”.
“Lasciami stare Buba, lasciami stare… non ti voglio più vedere. Mai più. Mi fai schifo capito? Schifo!”.
Alla fine di settembre quella terribile estate iniziò a mostrare segni di debolezza.
Le temperature tornarono piacevoli e Buba vinse un importante concorso pubblico. Festeggiò il Natale in solitudine, a Milano. Chiese ai superiori di essere messo di guardia come piantone notturno alla caserma Garibaldi, III Reparto Mobile, Polizia di Stato.
Capitolo uno
Scintillavano di lampeggianti bagliori le larghe foglie delle barbabietole bagnate dalla rugiada sotto la luce della luna piena.
Nel caos silenzioso della notte tarda lui giaceva disteso sull’asfalto con la testa quasi mozzata.
Quando Maurizio Brachini detto “Pillo” fu trovato sbranato nel pian del Salarco, tutti pensarono ad un lupo mannaro. Infatti era una notte di plenilunio quella del 12 marzo 1991. La sua vespa 50 tre marce color azzurrino si era fermata proprio lì, a secco di miscela, nel buio rischiarato dal candore lunare della statale 326. Cento metri dopo il ponte, messa sul cavalletto dalle molle ormai sforzate, lungo la banchina stradale che sfiorava i bordi delle sterminate distese di campi di barbabietole da zucchero, ovvero le bietole, come venivano chiamate dai villici locali tali colture industriali. Il corpo senza vita dello sfortunato ragazzo invece, occupava di traverso la consumata corsia di marcia. Il sangue nero che colava dal collo pressoché staccato dalla testa aveva oltrepassato la striscia bianca continua di divieto di sorpasso e si era fermato obbligato a riempire una buca sulla strada formando una piccola pozza di liquido denso color della pece. Alle 00.50 il telefono dell’ispettore Buba trillò fastidioso come il puzzo di una cimice appena schiacciata. A quell’ora, se non era di servizio, il vecchio poliziotto russava beato nel suo letto già da un po’ dopo la solita abbondante cena a base di un primo piatto fondo stracolmo di pici al sugo di ocio e per secondo il famoso panino “Qui” di oltre sei etti, farcito con tre salcicce di cinta senese, otto fette di speck dell’Alto Adige dop, salse multicolore e due foglie di insalata lattuga. Nel menù a la carte si potevano ordinare anche i panini “Quo” e “Qua”, ma per il piedipiatti buongustaio erano troppo stucchevolmente speziati e generavano nel suo pancione simile ad una betoniera della RDB sgradevoli e inarrestabili flatulenze. Ad annaffiare la cenetta un litro di devota birra rossa Leffe nove gradi. Il menù era confezionato giornalmente con amore e consegnato con cura a domicilio ormai da diversi anni dal ristorante rosticceria Timony che per il commissario Buba era considerata come una seconda casa e i loro titolari stimati come familiari di primo grado. Addirittura si diceva in giro che avesse inserito in un misterioso testamento di lasciare in caso di morte prematura tutti i suoi averi proprio ai gestori del Timony.
Capitolo due
A parte questa dissertazione sentimental-gastronomica, il commissario fu chiamato al telefono per essere informato del grave fatto accaduto sulla statale 326.
“Volo”, farfugliò Buba scendendo assonnato dalla branda per inciampare maldestramente sul grasso quanto fedele gatto di nome Picio che dormiva beato come ogni notte sul saliscendi sotto il suo letto.
“Maledetto meticcio castrato mangia a uffo! Prima o poi mi farai rompere l’osso del collo!”, gli berciò in malo modo tentando un calcio piazzato che fallì miseramente. Appena ripreso dallo sbigottimento della sveglia improvvisa e dopo una bestemmia di rito e un greve peto nauseabondo, si vestì con il solito completo giacca e pantaloni color amianto metallizzato su camicia bianca e cravatta amaranto per scendere in strada dove lo attendeva una volante col motore acceso.
Era ormai passata l’una quando la pantera sfrecciò a sirene spiegate davanti alla rosticceria Timony che proprio in quel momento stava spegnendo le luci delle insegne. L’ispettore Buba, osservando quel triste attimo di vita notturna, guaì un doloroso sbadiglio seguito da un drammatico quanto incomprensibile lamento alitato che appannò in modo pressoché totale tutto il parabrezza dell’Alfa Sud e costringendo il collega alla guida ad una indispensabile repentina manovra salva vita di disappannamento circolare con le nocche delle dita della mano destra.
“Commissario non ho capito, cosa ha detto?”.
“Non importa Stacchiozzi, non importa, guida e non rompere i coglioni”.
Sulla statale la nebbia si era ormai impadronita dell’intero fondovalle. Oltre la discesa del Gallastroni era come tuffarsi in una nuvola notturna di colore grigio chiaro come la pancia di un topo tettaiolo. Solo i lampeggianti intermittenti delle altre auto della polizia e dei carabinieri e quelli delle ambulanze della pubblica assistenza che bucavano la bruma indicarono alla volante il luogo dove era avvenuto il fattaccio.
“Buonasera commissario, venga che l’accompagno”.
“Buonasera una sega”, pensò Buba ricacciando perentoriamente in pancia un rutto insistente e incapace di starsene al suo posto.
“Attento commissario a dove mette i piedi, qua è un gran macello, sangue dappertutto, e qui da qualche parte ci dovrebbe essere la testa quasi mozzata, non gli dia un calcio in fronte mi raccomando”.
“Madonna quanto è stronzo ‘sto maresciallo della benemerita!”, pensò ancora Buba scrollandosi di dosso un po’ di quella maledetta umidità.
“Generalità del defunto di nome Maurizio Brachini, diciannove anni, operaio domiciliato in Montepuciano, frazione Abbadia, località La Villa”.
Il commissario conosceva bene il povero Maurizio, grande giocatore di boccette e stecca al biliardo del Jonny bar su in paese. E spesso i due si erano sfidati sul panno verde nelle ore dei dopo cena nei lunghi e inoperosi inverni di provincia.
“Questa non ci voleva proprio. Povero Pillo. Riposa in pace sfortunato ragazzo. Allora, datemi attenzione, qualcuno di voi si è fatto una cazzo di idea di cosa è successo qui?”.
“I miei carabinieri si sono dati subito daffare caro commissario e hanno perlustrato la zona circostante. Ci sono orme di un grande animale, di una bestia feroce diciamo”.
“Ecco…”, sospirò Buba e voltandosi verso i suoi uomini sussurrò a denti stretti: “Cazzo Stacchiozzi ma sempre secondi arriviamo noi?”.
“E di che bestia feroce si tratterebbe? Un cane? Un lupo? Un cane lupo?”. Stacchiozzi accennò una risatina ricacciata subito in gola da una perentoria occhiataccia luciferina del capo.
“Un maiale, o forse un cinghiale caro commissario”.
“Senta caro maresciallo, senta maresciallo, la prego di non chiamarmi più caro per favore!”.
“Maresciallo Guttatauro!”.
“Che?”.
“Guttatauro, è il mio cognome caro commissario Buba, maresciallo capo dei carabinieri Guttatauro Carmelo”.
“Anche questo di ‘ngiù…”, sussurrò malevolo il poliziotto strizzando gli occhi in segno di disapprovazione.
“Guardi che l’ho sentita sa! Caro commissario! Io sono siciliano, orgogliosamente siciliano! Di Caltanissetta sono! E lei invece? Con quel cognome lì? È forse nativo di Bolzano?”.
“Buba caro maresciallo è un cognome di origine celtica! Se proprio lo desidera sapere caro maresciallo! I miei bisnonni paterni erano parigini: Bubà Francoise era ispettore delle tasse dell’undicesimo arrondissement!”
“Stacchiozzi è un cognome di qui, questo è sicuro, ve lo garantisco!”
“Stacchiozzi ma che cazzo ce ne frega a noi delle sue origini! E basta! Allora! Siamo qui per un efferato delitto per la miseria!”.
“Giusto car… ehm… giusto commissario!”.
“Ha parlato di un maiale se non sbaglio. Ma che c’entra un maiale con questo omicidio?”.
“Le impronte parlano chiare: un maiale, o un cinghiale chissà… Ha attraversato il campo di bietole, è salito sul ciglio della strada e ha aggredito il qui defunto Maurizio Brachini”.
“Maresciallo ci vogliamo pigliare per il culo all’una e trenta di notte? Vogliamo uscire domattina sulla Nazione col titolone su tre colonne: Giovane aggredito e sbranato sulla statale da un maiale assassino?”.
“Le impronte però ci dicono questo. Impronte traditrici sono! Magari comunque chissà domattina la scientifica ci dirà qualcosa di più. Aspettiamo le prime indagini sul corpo del poveretto commissario!”.
“Sono d’accordo, per stasera non possiamo davvero fare altro. Stacchiozzi fai rimuovere il cadavere, la scientifica faccia le foto e i rilievi. Alla stampa per ora dite solo che si è trattato di un semplice incidente. La statale rimane chiusa fino al nuovo ordine. Deviate il traffico per la strada della Stazione e per la corta di Torrita”.
“A domani caro maresciallo, e mi raccomando, scelga gli uomini giusti per andare ad avvertire i familiari”.
“Sarà fatto. A domani caro commissario”.
Buba si allontanò dal piano del Salarco a bordo dell’Alfasud colore rosso Alfa Romeo fregandosene di lasciare appiedato l’agente scelto Stacchiozzi che fu costretto ad elemosinare un passaggio a casa su una gazzella dei carabinieri.
Uscito dalla bassa nebbiosa la notte gli si presentò in tutta la sua luminosa bellezza: una luna piena così grande non l’aveva forse vista mai. Sorrise beato e ripensò d’improvviso a quando era bambino. In modo vago. Senza immaginare niente di preciso. Ripensò semplicemente a quando da bambino sorrideva. Così. E basta.
Parcheggiò la macchina in divieto di sosta lasciando la sirena calamitata attaccata alla cappotta e la paletta ministeriale in bella vista sul cruscotto. “Ora voglio vedere se mi fanno la multa domattina”, pensò, e salì le scale di casa. Passando davanti alla cucina, la tentazione di aprire e svaligiare il frigorifero fu tanta, erano le due e la sua enorme pancia si era rimessa in movimento ed esigeva un rifornimento immediato. Per placare appena quella rivolta della fame del suo organismo dette solo due violenti strappi con i canini destri al salamino ungherese chirurgicamente spellato con il coltello e se ne andò a letto.
La mattina seguente, oltre alla multa per divieto di sosta che sventolava rosea sotto al tergicristallo, trovò vicino alla macchina Stacchiozzi che lo aspettava con le mani giunte dietro la schiena.
“’Ste merde di vigili! Lo fanno apposta! Ma stavolta il sindaco mi sente porca troia! E te che cazzo fai Stacchiozzi lì impalato?”.
“Commissario ha telefonato la scientifica. Cose grosse! Gravi! Incredibili! Inimmag…”.
“Ma vaffanculo Stacchiozzi! Metti in moto e andiamo!”.
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